Avreste mai creduto che l’Intelligenza artificiale così come quella umana potesse avere delle inclinazioni politiche con il chip che pende a sinistra? Invece pare che sia proprio così. Resta da capire se si tratti di una casualità (ma ci credono in pochi) oppure se gli scienziati della Silicon Valley nella scrittura dei codici abbiano aggiunto una modalità che segue i canoni del pensieri «mainstream». A fare questa scoperta non è un un centro di analisi trumpiano ma la Hoover Institution che fa parte del Stanford University, uno dei santuari della cultura liberal californiana
Secondo la ricerca, i modelli linguistici ampi come quelli di OpenAi, Google e compagnia bella, non sono del tutto «imparziali» nella loro capacità di rispondere alle domande, ma hanno un piccolo «pregiudizio». E dove vanno a posizionarsi queste modalità apparentemente neutrali? Su una comoda poltrona di sinistra.
A rivelarlo un sondaggio che ha coinvolto 180.126 giudizi da parte degli utenti. I ricercatori dell’università di Stanford hanno constatato che ogni modello di Ia, anche il più «imparziale» ha mostrato un lieve - ma comunque visibile - pregiudizio a favore delle bagaglio culturale e ideologico dei democratici. Giusto per rendere le cose più piccanti, tra tutti i modelli, il più radicalmente di sinistra è risultato essere OpenAi. E chi è l’amministratore delegato di OpenAi? Proprio Sam Altman, che come noto non ama proprio Elon Musk. Il quale, in teoria, sta cercando di creare un’Ia neutrale con la sua X Ai.
L’aspetto che ha sorpreso i ricercatori è che i modelli, pur cercando di sembrare imparziali, hanno comunque mostrato una chiara preferenza per politiche come il controllo delle armi, il disarmo della polizia e i diritti transgender che fanno parte del bagaglio della sinistra. D’altronde, se chiedi a ChatGpt di scrivere un saggio su come migliorare la società, verrà fuori un manifesto tinteggiato di rosso.
Il professor Grimmer e i suoi colleghi, gli autori dello studio, sono stati piuttosto delicati nell’ammettere che sì, potrebbero sembrare un po’ inclinate politicamente. Però non allarmatevi troppo: il pregiudizio non è necessariamente un problema, giusto? Dopotutto, se un algoritmo ha una visione del mondo simile a quella di un attivista cosa c’è di male? Basta dare a ChatGpt qualche parola magica come «neutro» e il gioco è fatto.
E qui entra in gioco un’altra chicca che non possiamo non commentare: quando un utente si accorge di un pregiudizio, i chip si affrettano a correggerlo, ma solo in modo apparente. Praticamente, fanno il «piccolo cambiamento» per sembrare meno partigiani, ma senza davvero comprendere la radice del problema. Insomma, un po’ di «neutralità» per fare scena, ma non chiedete troppo.
Ora, se pensate che il fatto che le Ia siano «schierate» possa portare a problemi gravi, tipo una distorsione della realtà, non temete. Grimmer e i suoi colleghi ci tengono a tranquillizzare: «Non è che l’Ia debba essere regolamentata subito. Ok. Lasciamo che l’intelligenza artificiale diventi la nostra guida spirituale e vediamo dove ci porta. Chissà, potrebbe portarci verso un futuro più “giusto” o, almeno, più socialmente responsabile».
A meno che, ovviamente, non ci si renda conto che una Ia ideologicamente orientata potrebbe trasformare il nostro mondo in una gigantesca «bolla ideologica». Un po’ come entrando su Facebook e ti ritrovi a leggere solo articoli che confermano quello che pensi già. Un incubo!
In definitiva, la ricerca di Stanford lascia una domanda fondamentale senza risposta: se l’intelligenza artificiale ha il chip che batte a sinistra che succede? Se la Silicon Valley non risolverà presto questa «inclinazione» ideologica, potremmo trovarci a vivere in un mondo che non ci piace affatto.
Sono giornate complicate per Andrea Orcel, amministratore delegato di Unicredit. Certamente messe nel conto. Ma non per questo meno amare. La strategia di espansione incontra diversi ostacoli. Molti previsti. Altri meno. La vera sorpresa riguarda l’Ops su Banco Bpm sulla quale il governo si è messo di traverso. In un incontro che, a detta di alcuni, sarebbe stato solo «tecnico», i rappresentanti di Unicredit e quelli del Mef si sono dati appuntamento per chiarire i dettagli del Golden power. A quanto risulta non ci sono stati passi avanti significativi.
A confermarlo fonti vicine al dossier precisando che i vincoli non verranno allentati e l’attenzione a Palazzo Chigi resta molto alta.
Per Orcel, questo significa un doppio impasse: non solo difficoltà a completare l’acquisizione, ma anche l’impossibilità di avanzare nella strategia di crescita che avrebbe dovuto essere il perno del suo mandato al momento della designazione come amministratore delegato.
Se il fronte italiano rappresenta un ostacolo difficile da superare, in Germania la situazione sembra ancor più complessa. Non solo i dipendenti di Commerzbank si sono schierati contro la possibile acquisizione, ma lo hanno fatto in maniera plateale, con una protesta «colorata» davanti al centro congressi di Wiesbaden, dove si è tenuta l’assemblea annuale degli azionisti. A vestire la divisa della della resistenza contro gli italiani circa 200 impiegati. Hanno espresso chiaramente il loro rifiuto a un’operazione che potrebbe compromettere l’indipendenza di Commerzbank, storicamente una delle principali istituzioni bancarie tedesche.
Unicredit, titolare direttamente dell’9,5% del capitale (il restante 20% è coperto dai derivati) non si è presentato all’assemblea. Nel suo intervento Bettina Orlopp ha ripetutamente sottolineato la solidità della banca che dirige e la volontà di crescere in modo autonomo. Ha spiegato che Commerzbank è in piena fase di sviluppo con un utile storico di 2,7 miliardi di euro nel 2024 e una performance in Borsa che, con un aumento del 60% delle azioni da inizio anno, ha reso ogni possibile acquisizione notevolmente più costosa.
Commerzbank «ha ancora davanti i suoi anni migliori», ha dichiarato la Orlopp, in un intervento accolto dagli applausi dei circa 600 partecipanti ai lavori. La seconda banca privata tedesca, salvata dallo Stato tedesco nel 2008, è sotto pressione da quando UniCredit ha approfittato del ritiro parziale dello Stato tedesco in autunno per effettuare un massiccio investimento nel capitale. La banca milanese ha nel frattempo ricevuto il via libera per aumentare la propria partecipazione al 29,99%, vicina alla soglia per l’avvio di un’offerta pubblica di acquisto obbligatoria. Nel corso della discussione generale, Klaus Nieding dell’associazione dei piccoli azionisti DSW ha bocciato la possibile acquisizione da parte di Unicredit, invitando gli azionisti a «opporsi chiaramente». Diverso il parere di Hendrik Schmidt della società di gestione patrimoniale DWS. «La cooperazione non dovrebbe essere un tabù», ha avvertito. Ogni scenario alternativo dovrà «essere valutato alla luce dell’attuale strategia autonoma e altamente interessante della banca», che punta ad aumentare i profitti di oltre il 50% entro il 2028. Per rafforzare la propria indipendenza, Commerzbank ha lanciato un piano sociale per tagliare più di 3.000 posti di lavoro in Germania, su 21.000, con l’approvazione del comitato aziendale, e ha avviato un programma di riacquisto di azioni proprie.
Andrea Orcel ha inviato una lettera al governo tedesco di Friedrich Merz, insediatosi la scorsa settimana, per avviare un dialogo, scrive Bloomberg. La fusione, che sarebbe una delle più ambiziose dopo la crisi finanziaria del 2008, ha i suoi sostenitori che invocano la creazione di campioni bancari europei capaci di affermarsi nella competizione internazionale.
L’amministratore delegato di Unicredit elogia il «potenziale» di un simile matrimonio in un momento in cui l’Europa cerca di stimolare la propria crescita economica e la capacità di investimento. Ma la prospettiva di un’acquisizione desta sospetti alla cancelleria di Berlino e non sarà facile superarle poiché il governo federale resta il maggiore azionista di Commerzbank con il 12% del capitale.
C’è un cigolio insistente che arriva dalla Germania. È quello della porta chiusa in faccia all’Italia. Prima verso Unicredit che sta scalando Commerzbank e ora contro il gruppo Berlusconi. Nella partita per il controllo di Prosiebensat uno dei colossi televisivi del mondo tedesco, il cuore della Mitteleuropa guarda a est. Non verso il Mediterraneo. Il consiglio di sorveglianza dell’emittente tedesca ha accolto con favore l’Opa lanciata dal gruppo ceco Ppf, respingendo di fatto Mfe il gruppo erede di Mediaset, oggi guidato da Pier Silvio Berlusconi.
Un affronto? Un pregiudizio? O forse una dimostrazione lucida di come l’Europa del Nord veda ancora gli investitori italiani come ospiti non graditi?
Il dato di fatto è chiaro: l’offerta di Ppf, azionista con il 15% della società, è stata accolta con entusiasmo dal management tedesco. L’operazione è tecnicamente ineccepibile: un’Opa parziale, fino al 29,99% del capitale, senza volontà dichiarata di prendere il controllo, ma con un chiaro obiettivo strategico di appoggiare l’attuale governance. Ppf mette sul piatto 7 euro per azione, tutti in contanti, un’offerta che ha messo subito le ali al titolo Prosiebensat (+20%) portandolo a superare i 7,05 euro, mentre l’offerta italiana si ferma a 5,74 euro, per metà in azioni Mfe e per il resto in contanti. Il mercato ha parlato chiaro: ha scelto Praga. E ha ignorato Cologno Monzese. Ma il punto non è solo economico. La posta in gioco è strategica, simbolica, perfino culturale.
Ppf – la holding fondata dal miliardario Petr Kellner, oggi controllata dai suoi eredi – ha giocato con maestria. Ha fatto ciò che in Borsa funziona sempre: ha dato certezze. Un’offerta interamente in contante, un impegno di lungo termine, il sostegno esplicito alla strategia dell’attuale amministratore delegato Bert Habets,. L’ennesimo segnale di come il capitalismo tedesco ami l’ordine, la prevedibilità, la gradualità. E diffidi dei «grandi fratelli» venuti da sud.
Mfe, invece, ha tentato un’altra via. Dopo sei anni di investimento paziente, iniziato nel 2019 con un 9,6% nel capitale, ha deciso finalmente di «rompere gli indugi». Con il 30% già in tasca, ha lanciato venerdì l’Opa per salire ancora e incidere davvero nella governance.
Mfe vuole rafforzare Prosieben, portarla verso un’integrazione europea dei media. Invece resta rappresentante di un’Italia che ancora non riesce a entrare nei salotti buoni della finanza continentale. Qui non si gioca solo una partita di capitali. Si gioca una questione di fiducia. O, peggio ancora, di sfiducia. L’Italia – nonostante la sua storia industriale, la sua creatività e la sua capacità imprenditoriale – continua a pagare il prezzo di una reputazione sbiadita nei corridoi dell’alta finanza europea.
Il fatto che il consiglio di Prosieben abbia esplicitamente benedetto l’offerta di Ppf è il segnale più chiaro di tutti: non è una questione di chi offre di più, ma di chi ispira più fiducia. L’establishment tedesco non vuole l’abbraccio troppo stretto del Biscione. Preferisce il profilo basso, l’approccio graduale e controllato del capitale dell’Est. Mfe adesso è davanti a un bivio. Potrebbe rilanciare, alzando l’offerta, oppure cercare altre strade. Ma senza più la narrativa di voler creare «il campione europeo dei media». Quella narrativa che sembrava affascinare tanto gli esperti del settore quanto gli analisti di Borsa.
C’è poi un altro aspetto da non sottovalutare. L’offerta di Ppf arriva in un momento in cui l’Europa dei media è in fermento. Le piattaforme digitali stanno dilagando, la pubblicità migra sempre più verso i colossi del web, e le emittenti tradizionale cercano alleanze. In questo scenario, il confronto per Proiebsen è uno dei pochi tentativi seri di costruire un polo europeo. Ma se l’Italia viene messa da parte, resta il dubbio: chi guiderà davvero questo polo? E con quale visione? Niente da dire L’Europa non tollera inflessioni mediterranee.





