Carlo Freccero non è particolarmente sorpreso dalla cancellazione di Giù la maschera, la striscia quotidiana su Radio 1 ideata e condotta dall’ex presidente della Rai, Marcello Foa.
L’ex direttore di Rai 2, personalità vulcanica che non si fa problemi ad andare controcorrente, propone un ragionamento più articolato che non si limita al livello della dirigenza di Viale Mazzini e alla sua insipienza. «Non mi stupisce che uno dei pochi veri giornalisti in circolazione, Marcello Foa, sia stato cancellato con il suo staff di eccellenza dai palinsesti radiofonici della Rai della prossima stagione».
Non la stupisce perché il programma è stato cancellato per volere della politica?
«Il nuovo direttore di Radio 1, Nicola Rao, persegue una sua linea editoriale che suppongo non tanto dettata da politiche culturali, quanto da esigenze propagandistiche».
Marcello Foa è un ex giornalista del Giornale, un autore di saggi sul controllo dell’informazione, che si può iscrivere al mondo conservatore come la dirigenza della Rai di oggi: non c’è contraddizione nel chiudergli il programma?
«Questa è una lettura superficiale. Da sempre Foa ha fatto della controinformazione il suo terreno d’indagine».
Quindi, lei non è sorpreso.
«No. Perché Foa è rilevante in quanto non allineato e impegnato a smontare la propaganda del potere. Quindi, indipendentemente dalla sua attribuzione a una parte politica, rappresenta il contrario di quella propaganda che ha oramai colonizzato i media mainstream espellendo informazione, pluralismo, cultura».
La chiusura del suo programma è più causata dalla cappa del pensiero unico che dall’irritazione di qualche politico del governo?
«Oggi pensare, riflettere, denunciare è diventato sinonimo di complottismo. E, al di là di ogni schieramento ideologico, rivendicare libertà di espressione viene percepito a livello sociale come una forma di vera e propria insubordinazione all’ordine costituito».
D’accordo. Tuttavia, resta il fatto che ai vertici di questa Rai c’è una dirigenza di destra. Foa ha detto che, se poteva aspettarsi l’estromissione da una Rai di sinistra, certo non se l’aspettava da questa governance.
«Lo capisco. Ma oggi non esistono governi di destra o di sinistra. Esistono governi. E nell’attuale congiuntura politica i governi hanno il compito di attuare agende che non scrivono loro».
E chi le scrive?
«Gli organismi internazionali come l’Unione europea, il World economic forum, l’Organizzazione mondiale della sanità, la Nato, piuttosto che la sigla ultima arrivata, la sedicente coalizione dei volenterosi».
Ma i governi dei diversi Paesi hanno programmi elettorali diversi e rispondono a elettorati diversi.
«I rapporti di forza, soprattutto a livello internazionale, sono altri. Il riallineamento alle agende degli organismi sovranazionali avviene indipendentemente dal messaggio sostenuto in campagna elettorale. Anzi, necessariamente, in contrasto con esso. Che sia di destra o di sinistra questo messaggio va adattato alle necessità di eseguire ordini “dall’alto”. E questo non può che generare frustrazione in quell’elettorato che ha delegato il proprio incaricato a cambiare le cose, a recuperare indipendenza di giudizio, a ricreare un margine di democrazia almeno apparente».
Caro Freccero, a questo punto scatta l’accusa di complottismo.
«Ma quale complottismo… basta guardarsi intorno. Una volta giunti al governo questi delegati del popolo, trasformati in presidenti del consiglio, hanno un unico obiettivo: durare. Quindi non hanno alcun interesse a difendere un’ideologia, che sia di destra o di sinistra. Perché, qualora venisse rievocata, non farebbe che sottolineare lo scostamento dalla linea politica sostenuta in campagna elettorale».
E i media non devono disturbare, è questa la sua tesi?
«Nei confronti dei media i governi non cercano di imporre una linea editoriale, quanto una propaganda autoreferenziale. Non chiedono cultura, ma obbedienza. Non premiano il merito e le eccellenze, anche all’interno della loro area culturale, quanto la difesa dell’operato governativo indipendente da tutto».
Rai compresa? È da qui che deriva la soppressione del programma di Foa?
«Davanti all’ennesimo episodio di attacco al pluralismo Rai come la cancellazione di Giù la maschera non posso che ripetere come un mantra la convinzione che ripeto a partire dal 2015. La causa di tutto risiede nella riforma voluta da Matteo Renzi che ha affidato le nomine Rai direttamente al governo. Si badi bene: non alla politica, al governo».
In questo caso il governo ha soppresso il programma di un giornalista della sua area.
«Gliel’ho già spiegato. I governi oggi rispondono ad automatismi internazionali che hanno abbandonato la contrapposizione destra/sinistra. Se mai attuano la volontà di poteri forti contro il popolo».
Siamo sempre a élite contro popolo?
«Esatto. Le scelte non riguardano più il capitale culturale, ma l’efficienza aziendale e l’obbedienza a decisioni editoriali prese altrove».
Un quadro tragico, senza via d’uscita?
«Al momento non ne vedo».
Poi dice che uno si butta sullo sport e le serie tv. Che altro ci sarà da guardare in televisione, ora che è stato sollevato il lenzuolo dalla programmazione della prossima stagione di Rai, La7 e Mediaset. Et voilà, novità tendenti allo zero. Fantasia latitante. Salvo rare e apprezzabili eccezioni, perché davvero proprio non si poteva fare diversamente, formule e format sono stati in gran parte confermati. La televisione che verrà sarà deprimente come quella che se n’è appena andata. Il telespettatore che si nasconde in noi è sconfortato. Dovrebbe guardare talk show vocianti con esponenti politici di terza fila mischiati a tuttologi ed esperti che surfano dall’emergenza sanitaria a quella bellica fino a quella climatica?
Dovrebbe sintonizzarsi su programmi di approfondimento che in realtà sono ciclostilati di propaganda antigovernativa a prescindere? Oppure varietà ridanciani e cheap con il solito giro di ospiti, anch’essi, a loro volta conduttori o ex conduttori di programmi della medesima scuderia di agenti, quando non della medesima rete tv, in tournée promozionale?
O forse il telespettatore medio dovrebbe essere soddisfatto dei morbosi contenitori di cronaca nera che riempiono i pomeriggi delle reti ammiraglie? O magari delle rubriche di gossip e infotainment sugli amorazzi transeunti dei divetti dello showbiz. O dei reality epidermici utili a promuovere mezze figure o a riciclare personaggetti in caduta libera, eppure inflazionatissimi e sovraespostissimi nei primetime delle tv commerciali? ChiareFerragne, DiletteLeotte, AndreiPennacchi, Elodie e Mahmood, StefaniMassini, StefaniFresi, RobertiBurioni, PiniInsegni, GiulieDeLellis, Luchi&Paoli, MassimiGiannini, GeppeCucciare, PaoliConticini, SareManfuso, OscarFarinetti… ci vorrebbe un altro Rino Gaetano in grado di aggiornare con un nuovo capitolo il catalogo della sua strepitosa Nuntereggae più. In assenza, si mette mano al telecomando e si cerca la via di fuga. Appunto, sport e serie tv. In acronimo: S&St. Stop, con rare eccezioni. Gli altri acronimi, Ts&R (Talk show e Reality), oppure VI&G (Varietà, Infotainment e Gossip), hanno ampiamente stancato.
Insomma, personalissima abitudine, la tv generalista non si guarda più, salvo eccezioni. Ma andiamo con ordine.
Altro che
regime
Il 27 giugno scorso, un venerdì nel quale i giornaloni rifrangevano i lustrini dei Bezos convolati a nozze sul Canal grande, la Rai ha presentato la sua collezione autunno-inverno 2025/2026. Ci si aspettava l’epocale annuncio di un programma affidato alla reietta Barbara D’Urso. Era la notizia tanto attesa. Invece, nisba. Delusione serpeggiante fra gli addetti al pissi pissi. Barbaria (copy Dagospia) avrà forse qualche ospitata. O magari gareggerà a Ballando con le stelle. Per il resto, spulciando le cronache, si scopre Whoopi Goldberg guest star della soap Un posto al sole, Kevin Spacey bentornato protagonista di una sit com su Raiplay e l’immancabile serata evento pedagogica di Roberto Benigni che, magari con Sergio Mattarella in prima fila, ci racconterà San Pietro. Detto che l’innesto più o meno estemporaneo di tre attori non fa linea editoriale, va aggiunto che, oltre alle conferme di prammatica (Carlo Conti, Antonella Clerici, Milly Carlucci, Stefano De Martino, Marco Liorni e Francesca Fagnani), si registrano soprattutto alcune defezioni. Non che si perda chissa ché con la fine di Citofonare Rai2 della coppia Paola Perego Simona Ventura - quest’ultima passa a Mediaset per condurre Il Grande fratello dei Nip. O con lo spegnimento di Epcc dell’eterno giovane Alessandro Cattelan, anche lui in rotta verso Cologno Monzese. Di buono c’è che Viale Mazzini non ha le porte girevoli e ai segnali di pentimento di Amadeus e Flavio Insinna, transfughi un anno fa da TeleMeloni, ha opposto un netto «la Rai non è un albergo». Purtroppo, e paradossalmente, segnali di vero telemelonismo non se ne sono visti. Almeno ci si sarebbe potuti dividere; si sarebbe litigato, discusso, polemizzato. Niente. Un grigiore avvilente. Con la discussa eccezione di Affari tuoi («un game al limite del gioco d’azzardo», secondo Pier Silvio Berlusconi) ci si chiede se nella Rai di questi anni si sia imposto un titolo, un volto, un format che abbia lasciato un segno degno di nota nelle abitudini dei telespettatori? Deserto. Unica possibile ancora di salvezza, Rosario Fiorello e la sua squadra.
Propaganda d’opposizione
L’inesistenza di qualcosa che possa davvero chiamarsi TeleMeloni risulta doppiamente divertente perché gli altri editori si sono strutturati per contrastare quella che si è rivelata una colossale fake news. Secondo tradizione, La7 ha presentato la nuova stagione all’Hotel Four Season di Milano. Anche qui, tante conferme e minuscole novità. Il presidente Urbano Cairo ha sottolineato il carattere indipendente della rete e rivendicato la plausibilità di una quota di canone per il servizio pubblico al quale assolve. Richiesta che è apparsa un filo sopra le righe. Se fino a qualche anno fa, quando il tg di Enrico Mentana e le sue maratone influenzavano effettivamente il palinsesto tale provocazione poteva risultare ragionevole, oggi che con i vari Otto e mezzo, La torre di Babele, DiMartedì, Piazzapulita e Propaganda Live, la linea editoriale è spiccatamente militante, questa richiesta suona velleitaria. Chissà se le paturnie trapelate ai vertici del tg siano dovute all’avvolgente contesto propagandistico del canale. Per dire, Federico Rampini, l’unico conduttore che non ha issato l’antimelonismo sul frontespizio delle sue inchieste, si sposterà su Canale 5. A La7, infatti, per non lasciare spazio a dubbi, oltre alle conferme di tutta la linea - salvo il quiz preserale In Famiglia di Flavio Insinna, cancellato - le novità del prossimo anno saranno l’innesto di Roberto Saviano con sei ritratti di personaggi della criminalità, le Lezioni di mafie di Nicola Gratteri e una serata speciale sulla storia della P2 affidata all’attore Fabrizio Gifuni, ispirato dall’ex pm di Mani pulite Gherardo Colombo. Un pizzico di telemagistratura non guasta mai.
Ravvedimenti
e alternative
Anche le reti Mediaset hanno scartato verso sinistra per compensare la presunta correzione a destra di Viale Mazzini. È un processo iniziato un paio di anni fa, con gli innesti di Bianca Berlinguer e di Myrta Merlino. La quale, sostituita da Gianluigi Nuzzi a Pomeriggio 5, si prenderà un anno sabbatico in attesa di nuove idee. Si sa come vanno queste cose: salvo i conduttori pifferai che si portano il pubblico da casa, raramente una tessera s’incastra felicemente nel nuovo mosaico. E comunque, «il retequattrismo non esiste», ha assicurato Mauro Crippa, responsabile dell’informazione della casa. Forse no, perché da Nicola Porro, al quale verrà affidata anche il preserale Dieci minuti dopo il Tg4, alla striscia di Paolo Del Debbio alle inchieste sul campo di Mario Giordano ci sono parecchie sfumature di differenza. In ogni caso, partendo dalla chiusura di certi inguardabili reality («i programmi più brutti che abbia mai visto», Berlusconi jr. dixit) e arrivando al Risiko del già citato Rampini su Canale 5, al programma di retroscena politici di Tommaso Labate fino al ritorno in video di Toni Capuozzo con dei ritratti dei grandi del Novecento, si nota un certo, salutare ravvedimento. Insomma, qualche eccezione in attesa di conferma forse s’intravede.
Nel frattempo, ci si può consolare con il torneo di Wimbledon su Sky, il finale di stagione della strepitosa MobLand su Paramount+ prodotta da Guy Ritchie e la terza pluririnviata stagione di Teheran su Apple Tv+. Qui si va sul sicuro.
«Una scrittrice polimorfa, in grado di esprimersi in varie forme letterarie». Così monsignor Massimo Camisasca, vescovo emerito di Reggio Emilia-Guastalla, e suo amico di lunga data, ha definito qualche giorno fa Susanna Tamaro. Si era a Caorle, alla festa organizzata da Tempi per riflettere sul tema «Chiamare le cose con il loro nome», e l’autrice di Va’ dove di porta il cuore e di un’altra quarantina di libri, tra romanzi, saggi e favole per bambini, era stata invitata per ritirare il premio intitolato a Luigi Amicone, fondatore e storico direttore della rivista. Un premio assegnato dalla giuria presieduta da Giuliano Ferrara all’ultimo libro, Tornare umani, edito da Solferino, riflessione critica ad ampio raggio sugli anni vissuti nello scacco della pandemia da Covid-19. Ma anche un premio a tutta l’opera della scrittrice triestina che vive in Umbria, cuore geografico d’Italia, «dove anch’io ho una casa», ha raccontato monsignor Camisasca, «e così ci siamo frequentati nella terra di Francesco e di Benedetto, dove si è snodata tre quarti della storia del cristianesimo mondiale». E dove Tamaro ha scelto di stare «per dedicarmi a pensare anche per chi non vuole o non può farlo, assorbito dalle incombenze quotidiane o sommerso dal rumore che avvolge a tutti i livelli la società contemporanea». È lì, nella collina vicino Orvieto, che è maturata nella scrittrice quella che potremmo chiamare dimensione sapienziale, uno sguardo lucido e profondo sulle vicende del nostro tempo. Uno sguardo anche sanamente distaccato, in forza del quale le capita di assumere posizioni di denuncia, come in questa intervista.
Susanna Tamaro, come ha accolto il premio a Tornare umani, un libro forse un po’ divisivo?
«Con grande gioia perché mi è costato molta fatica per la delicatezza dell’argomento».
Che accoglienza ha avuto al momento della pubblicazione?
«Un’accoglienza ottima da parte dei lettori dai quali continua a essere apprezzato perché è un libro esente da qualsiasi forma di fanatismo. E che si pone domande importanti su quello che abbiamo vissuto in questi anni».
Invece i grandi giornali e i media in generale come l’hanno trattato?
«Non ha avuto un’accoglienza particolarmente benevola, forse perché non è un grande romanzo o per l’argomento trattato che allora era abbastanza esplosivo: la gestione della pandemia».
Eppure è stato pubblicato da Solferino, marchio di proprietà di Urbano Cairo, editore anche del Corriere della Sera.
«E questo è un bel segno perché vuol dire che c’è un editore che crede in un autore e investe su di lui».
Perché secondo lei è un libro importante?
«Perché abbiamo passato due anni di follia totale, soggiogati da due fanatismi contrapposti. Ma le persone normali, che non parteggiavano per nessuna delle due parti, a un certo punto hanno cominciato a farsi delle domande e a cercare delle risposte. Che, però, dalla narrazione ufficiale non arrivavano e non sono arrivate».
In particolare?
«Tutte la questioni relative all’obbligo vaccinale e ai danni del vaccino. Una cosa impensabile in un Paese democratico. E poi la sproporzione dell’allarme mediatico. Si è creato terrore in modo irresponsabile per due o tre anni».
Però la gente moriva.
«Innanzitutto, va detto che per malattia si muore. E si muore anche se non si è curati o si è curati male. È chiaro che una malattia virale importante come il Covid non si può lasciarla agire nel corpo, stando a vedere che cosa succede. La vigile attesa è una tecnica che viene usata soprattutto per monitorare forme tumorali in persone anziane, per capire il rischio o il beneficio di un’eventuale operazione. Come si può applicare questo principio a una malattia che è virulenta? È chiaro che se si lascia un virus agire, poi quando si interviene è molto più difficile debellarlo».
Questo libro ha anticipato alcuni dei dibattiti seguiti nei mesi successivi?
«In qualche modo quando leggevo le cronache delle indagini di Bergamo ci ritrovavo le stesse cose che avevo scritto semplicemente osservando la realtà».
Secondo lei si stenta a parlare in modo trasparente di ciò che è accaduto nella fase acuta della pandemia?
«In Italia abbiamo vissuto una guerra civile che, invece di aprire un dialogo, avviando un tentativo di guarire la memoria dalle ferite ancora aperte, ci invita a fingere che tutto sia andato nel migliore dei modi».
Una forma di censura dolce?
«C’è una volontà di non affrontare l’argomento. Negli altri Paesi europei non è così. La situazione è diversa».
Lei ha evidenze concrete che richiederebbero una maggiore disponibilità ad affrontare questi temi? Situazioni, casi e vicende problematiche?
«Certo. Dato che vivo in un paese vedo la realtà concreta e non quella raccontata dai numeri dei telegiornali. Allora posso dire che vivo con otto persone che conosco da decine di anni. Bene, tre di loro sono state vittime di eventi avversi molto importanti. Non solo, questi eventi non sono stati segnalati anche per la scarsa sensibilità mostrata di fronte alle persone colpite. Persone la cui vita è drammaticamente cambiata».
Secondo lei, con la motivazione della pandemia e da allora in poi, si tende a espandere il controllo sulla vita quotidiana dei cittadini?
«Assolutamente sì. Un fatto che mi irrita profondamente è la legge sulla privacy. I bambini non possono più fare le foto di fine anno scolastico per la privacy, ma questo sistema di controllo conosce anche il colore delle calze che indossiamo la mattina».
Le vittime di questi eventi avversi sono invisibili per la comunicazione mainstream?
«Non solo. Siccome questi danni da vaccino sono situazioni nuove, il sistema sanitario non è in possesso degli strumenti per capire di che cosa si tratta. In Germania, per esempio, già da diversi mesi sono state create équipe mediche che lavorano per capire come curare questi effetti avversi. Pericarditi, miocarditi, infarti fulminanti, paralisi e anche danni cerebrali, compresi certi casi di demenza improvvisa esplosi dopo quattro dosi vaccinali. Situazioni con cui sono personalmente venuta a contatto e che hanno colpito anche persone con cui vivo».
Delle conseguenze negative della vaccinazione massiccia si parlava poco anche prima della morte di Silvio Berlusconi che ha monopolizzato i media negli ultimi giorni.
«Adesso lo si fa ancora meno».
Ha pensato di scrivere sull’argomento? C’è qualcosa che l’ha disturbata e qualcos’altro che invece le è piaciuto nei giorni scorsi?
«No. Dall’esplosione dell’epidemia ho smesso di leggere i giornali e anche di guardare la televisione».
Una scelta molto radicale.
«Quando è troppo è troppo. Dalla guerra in Ucraina ho chiuso tutto. Il male è male, la morte è morte. È tutto una follia».
Il suo rapporto con i giornali e i giornalisti è divenuto più diffidente dopo l’intervista che ha concesso in occasione del Salone del Libro di Torino a proposito della letteratura nelle scuole?
«Già da 30 anni diffido dei mass media. Tutta la vita sono stata vittima di giornalisti che si approfittano della mia ingenuità e del mio parlare libero. Mi hanno fatto dire tutto e il contrario di tutto secondo ciò che faceva comodo a loro. Anche in quell’occasione c’è stata una manipolazione del titolo del giornale. La parola odio non l’ho mai usata. Posso aver detto che la scuola fa odiare la letteratura ai ragazzi. Ma è la verità e dobbiamo capire perché».
Basta poco per cadere in qualche trappola?
«Purtroppo il punto d’arrivo finale di questa situazione è che le persone più sensibili sceglieranno il silenzio».
Se fosse una professoressa di lettere delle scuole superiori come, in poche parole, proverebbe ad attrarre gli studenti alla lettura?
«Facendo capire che la letteratura è qualcosa che riguarda profondamente il cuore dell’uomo e la sua capacità di comprendersi e comprendere».
A proposito di persone sensibili che scelgono il silenzio, conosceva i romanzi di Cormac McCarthy?
«Ho letto La strada e visto i film tratti dalle sue opere».
Sta lavorando a qualcosa, un nuovo saggio o romanzo?
« Dopo la fatica di Tornare umani, sto finendo di lavorare a un romanzo che uscirà in autunno».
Nessuna anticipazione?
«Non voglio spoilerare niente. Sarà una grande sorpresa».




