Di cosa parliamo quando diciamo woke? […] Woke è la persona emersa dal torpore in cui si consumano gli inganni, è l’individuo con gli occhi aperti, consapevole di ciò che davvero accade intorno a lui. È colui che è in grado di vedere al di là della coltre delle apparenze. Il soggetto risvegliato è protagonista di un rito iniziatico, un’epifania, una rivelazione. Ma rivelazione di cosa? L’individuo consapevole si rende conto dell’intima struttura della realtà, afferra le forze che davvero regolano l’andamento del mondo. E si tratta di relazioni di potere e oppressione, sfruttamento e disparità, violenza e discriminazione. Il soggetto consapevole guarda con occhi nuovi la realtà, e quello che vede è un terrificante sistema di oppressione coperto da una elaborata rete di finzioni a cui le persone «normali» credono docilmente, senza muovere obiezioni.
[…] Tale concezione porta con sé diverse implicazioni e conseguenze rilevanti per capire meglio come le persone woke si muovono nel mondo. Innanzitutto, la rivelazione non viene dall’esterno, ma è un’illuminazione interiore, una faccenda tutta interna al soggetto. Il grande critico letterario Harold Bloom ha fissato il concetto in un prezioso e spesso dimenticato saggio sulla religione americana, scritto nei secolarizzati e introflessi anni Novanta: «L’io è la verità, e c’è una scintilla nel suo centro che è la sua parte migliore e più antica, cioè è il Dio-interno». Altra conseguenza: dal nuovo stato di coscienza non si può tornare indietro. Una volta scorte le forze che muovono il mondo, non si può fingere di non avere visto. L’unica strada è gettarsi a capofitto nel percorso di consapevolezza con lo zelo del convertito. Poi, il messaggio è radicale e non tollera compromessi. Le forze tremende che regolano il sistema sono radicate così in profondità che non è possibile riformarle, ma soltanto distruggerle e ricostruire. È il senso dell’aggettivo più usato nel vocabolario woke: «sistemico». Se i mali sono strutturali, impressi negli ingranaggi del sistema, le ipotesi incrementali o migliorative vanno scartate. I personaggi malvagi del passato non vanno contestualizzati, giudicati e superati, devono essere rimossi, le statue che li celebrano non vanno comprese ma abbattute.
Le parole offensive e indicibili vanno bandite dai libri, il contesto in cui sono state scritte non è un’attenuante valida. Il linguaggio va ripulito dai riferimenti oppressivi, decostruendo le offese implicite ed emendando gli stereotipi. L’intera storia umana va riletta alla luce della consapevolezza risvegliata.
Ha provocato vigorose discussioni negli Stati Uniti il 1619 Project (2019), monumentale opera giornalistico-storica del New York Times concepita per mostrare che la vera data di fondazione del progetto americano non cade con la Dichiarazione d’Indipendenza del 1776, ma con lo sbarco della prima nave carica di schiavi sulle coste della Virginia nel 1619. Il senso della storia è che gli Stati Uniti sono una nazione fondata sulla schiavitù, non sugli ideali di uguaglianza, libertà e diritti impressi nei documenti fondativi della repubblica. Senza dubbio i propositi sono stati ampiamente disattesi, ignorati e traditi nella pratica, ma un conto è tendere a un ideale e lavorare nel tempo per applicarlo in modo sempre più compiuto, un altro è condannare l’intero progetto perché costruito su fondamenta marce. Nel racconto del 1619 Project, l’America è una «slavocrazia» fondata sulla supremazia bianca che congiunge gli schiavi nelle piantagioni di tabacco all’innocente George Floyd brutalmente ucciso da un poliziotto bianco a Minneapolis nel 2020. Sono manifestazioni delle stesse, invincibili forze strutturali.
oppressione
Non la pensava così, tanto per fare un esempio, Martin Luther King, che nella lotta per i diritti civili non si stancava di affermare la sua fiducia nella possibilità di procedere nel percorso verso la realizzazione degli ideali che l’America proclamava a parole. «L’arco dell’universo morale è lungo, ma tende verso la giustizia» è la frase che sintetizza la sua visione della storia. L’arco della storia woke, invece, non tende verso luoghi felici. […]
Come si è visto, la sensibilità woke si è sviluppata nell’ambito delle discriminazioni razziali negli Stati Uniti, ma poi lo stato di consapevolezza ha portato alla luce anche tutte le altre forze oppressive che contribuiscono a conservare l’irredimibile stato delle cose. Neoliberismo, patriarcato, supremazia bianca, eteronormatività, omotransfobia, presunzioni di superiorità di qualunque tipo, dal genere alla specie, fino al disprezzo della disabilità e alla discriminazione sulla base dell’età, all’interiorizzazione dei privilegi ereditati e al negazionismo climatico: l’individuo woke arriva alla consapevolezza che tutti questi sono ingranaggi di una sola, gigantesca e soffocante struttura di potere. Ogni discriminazione nei confronti di un’identità non è che uno fra gli infiniti volti di un male pervasivo. […]
Questo significa che i poteri inscritti nella struttura della realtà determinano ogni cosa. Tutto è costruzione e sovrastruttura, comprese la biologia e la matematica. Le donne diventano così «persone con l’utero», mentre gli individui che si identificano come uomini possono avere il ciclo mestruale. «Due più due non fa quattro», sostiene l’associazione dei coordinatori di matematica dell’Ontario. L’aritmetica come la conosciamo è un costrutto della supremazia bianca e, secondo Jason To, il presidente dell’associazione che si batte per la «neutralità politica della matematica», chi sostiene che quattro è il risultato dell’operazione commette un «atto nascosto di supremazia bianca».
Risulta dunque evidente un altro importante tratto dell’universo woke: il conflitto inevitabile con i principi che regolano il sistema liberale. Se tutte le norme della vita civile sono macchiate dai pregiudizi dei maschi bianchi eterosessuali capitalisti patriarcali colonialisti occidentali ed eurocentrici che le hanno fissate, l’unica via per correggere i torti insiti nel mondo è mettere in discussione regole che non sono affatto neutrali. Il principio per cui tutti gli individui di fronte alla legge sono uguali è in fondo un falso, perché la legge è stata scritta a immagine e somiglianza del legislatore, ne conserva e proietta i pregiudizi, tende a essere benevola con un gruppo e a colpevolizzarne altri, esprime in ogni comma il timbro della maggioranza. Il diritto, in questa logica, mette a sistema i mali di chi scrive le regole e le fa rispettare con la forza. Per avere giustizia bisogna attivamente discriminare gli oppressori, zittire chi ha il potere, riequilibrare i mali del passato con nuove e ben intenzionate iniquità. È su questi presupposti che nasce la cancel culture. […]
antropologia
Che tipo di soggetto genera il pensiero woke? Detto più filosoficamente: qual è la sua antropologia implicita? Di certo siamo di fronte a un soggetto senza intenzione. È almeno dai tempi di Pietro Abelardo (1079-1142) che la filosofia occidentale ragiona sul rapporto fra azione e intenzione, in genere concludendo che la prima dipende in modo significativo dalla seconda: per giudicare moralmente qualcosa non basta considerare l’atto in sé, occorre sondare l’intenzione di chi lo commette. […]
Nella logica woke, l’intenzione tende invece a scomparire. L’inconsapevole partecipare del soggetto a un sistema di potere - razziale, patriarcale, eteronormativo - è sufficiente per determinare una colpa o stabilire una complicità. Il maschio eterosessuale partecipa del patriarcato semplicemente conducendo un’esistenza conforme alle norme e alle convenzioni oppressive che sono incastonate nel sistema patriarcale. Non può dire: «Non era mia intenzione, non sapevo, non volevo», perché proprio il suo non essere consapevole della propria complicità con il potere è il problema.
Il presidente della federazione calcistica spagnola, Luis Rubiales, ha perso il posto di lavoro e la reputazione per avere dato un bacio sulle labbra alla giocatrice della nazionale Jenni Hermoso, durante i festeggiamenti per la vittoria dei mondiali. Il bacio, ripreso da tutte le telecamere del mondo, è durato una frazione di secondo e non ha avuto altre conseguenze materiali. Mancava però fatalmente il consenso della persona che ha «subito» il gesto repentino di Rubiales. Dopo l’iniziale tentativo di minimizzare l’accaduto, Hermoso ci ha pensato meglio e ha stabilito che si è trattato di un abuso sessuale. Sono stata «vittima di un atto impulsivo, sessista, fuori luogo e senza alcun consenso da parte mia», ha spiegato. Tralasciando per un attimo l’agitazione politica che si è generata attorno al caso, quello che interessa qui è che l’intenzione di Rubiales nel fare quel gesto è del tutto irrilevante. […]
La colpa è la partecipazione oggettiva alla macchina patriarcale che il bacio dimostra, non il bacio in sé né l’intenzione che ha informato il gesto. Quando dietro a ogni fatto incombono poteri sistemici, ci sono ben poche intenzioni da indagare. Questo scolorire dell’intenzione mette in moto ragionamenti circolari in stile Comma 22, dove la dichiarazione di innocenza finisce per trasformarsi in un’ammissione di colpa. Se l’imputato per un fatto discriminatorio protesta dicendo: «Non l’ho fatto apposta», sta appunto rivelando che ha interiorizzato i pregiudizi di sistema così in profondità da non rendersi nemmeno conto di essere parte del problema. […] In questo senso, la vicenda della «fragilità bianca» è molto istruttiva. L’espressione è stata coniata e resa celebre da Robin DiAngelo, intraprendente sociologa antirazzista che dopo una carriera nelle periferie dell’accademia è salita ai vertici della ricca industria della consulenza aziendale su diversità e inclusione. Nel 2018 ha scritto un libro di cui non è difficile indovinare il titolo - White Fragility - che ha venduto decine di milioni di copie in tutto il mondo. L’idea è che i bianchi - tutti, nessuno escluso - convivono con una forza che impedisce loro di riconoscere e ammettere che sono razzisti. «Fragilità bianca» è il nome di questo ostacolo che offusca la coscienza. Ci sono perciò due possibilità: ostinarsi a negare il proprio razzismo inconsapevole, soccombendo alla fragilità, oppure proclamarsi finalmente colpevoli di essere dei suprematisti bianchi. In breve: se non ammetti di essere razzista, sei razzista; se ammetti di essere razzista, sei razzista. Come se ne esce? Con un costoso ciclo di seminari in cui istruttori come DiAngelo o Ibram X.
La sintesi più efficace del tortuoso percorso che dall'apparizione dell'individuo moderno ha portato ai tormenti della condizione odierna l'ha coniata l'opinionista del Washington Post Christine Emba: «Il liberalismo è solitudine». Definizione ellittica ma puntuale.
Emba ha tratto questa stringata conclusione recensendo il libro dell'intellettuale conservatore Patrick Deneen Why Liberalism Failed, caso editoriale degli ultimi anni, che non si occupa di solitudine ma sviscera i presupposti che l'hanno innescata. Quando Deneen parla di liberalismo non intende una certa idea politica né si riferisce alla sinistra, come potrebbe dedurre chi pensa al termine liberal nel senso in cui lo usano gli americani. L'idea liberale sono gli occhiali che più o meno ogni occidentale contemporaneo indossa per guardare il mondo. Lenti velate di rosa, che restituiscono ogni cambiamento sociale come progresso buono e irreversibile. La tesi è che gli occhiali si sono rotti: le cose appaiono un po' meno vivide, ma più fedeli alla realtà. Commenta Emba: «Il liberalismo è progredito liberando in modo sempre più efficace l'individuo da «particolari luoghi, relazioni, appartenenze e anche identità - a meno che non siano scelte, indossate come abiti leggeri e possano essere riviste o abbandonate a piacere». Nel processo, ha raschiato via dallo scenario moderno tutto ciò che può avere un significato e una connessione stabile: la cultura è stata disintegrata, i legami famigliari svalutati, le connessioni con il passato recise, è scomparsa una concezione del bene comune. E alla fine ci siamo ritrovati tutti terribilmente soli.
La visione liberale di pensatori come Hobbes, Locke e Mill non ha prodotto l'individuo moderno, ma ha contribuito a costruire un sistema a sua immagine. I pilastri di questo sistema sono lo stato e il mercato, entità che vengono presentate come in radicale opposizione soltanto da chi non vuole vederne la comune origine. Il mercato offre, con modalità sempre più sofisticate e convenienti, l'acquisto di beni per compensare i legami tradizionali perduti. Lo stato dispone una rete di sicurezza per chi non può permetterseli. Soffrite di solitudine? Ecco il co-working e il co-living, dove potrete vivere e lavorare in compagnia consumando pasti monoporzione. Costano troppo? Ecco il ministero della Solitudine e le cure convenzionate con il sistema sanitario nazionale per fronteggiare l'emergenza.
Ma «lo stato non è nostro fratello, il mercato non è il nostro compagno», scrive Emba: un apparato che a livello collettivo ha prodotto uno straordinario, mastodontico miglioramento delle condizioni di vita dell'intera umanità, diffondendo prosperità e strappando centinaia di milioni di esseri umani dall'indigenza, a livello dell'esperienza individuale non ha colmato i vuoti dell'esistenza. [...] La solitudine è stata non già il prezzo della liberazione, ma una manifestazione della sua essenza.
Una decisiva estensione della concezione liberale è avvenuta all'inizio degli anni Settanta del secolo scorso. L'accelerazione è legata soprattutto al nome di John Rawls, il filosofo americano che è stato il «rifondatore» del liberalismo contemporaneo. Rawls si è affannato per sottolineare il carattere «procedurale» del liberalismo. Significa che lo schema del liberalismo politico è neutrale rispetto all'idea della vita buona che ogni cittadino persegue, è un'ossatura vuota, una cornice che regola la convivenza tra individui animati da preferenze e inclinazioni diverse.
Allo stesso tempo, Rawls era un egalitarista, sosteneva che il liberalismo deve avere a cuore i più bisognosi. Esprimeva il concetto nel famoso «difference principle»: le disuguaglianze nella distribuzione dei beni sono giustificate nella misura in cui alleviano le sofferenze per gli ultimi nella società. Gli individui autonomi sono uniti n un tessuto sociale comune. Sono due poli in tensione.
Da una parte, l'individualismo proceduralista, dall'altra il principio dell'uguaglianza, dell'armonia sociale, della cura dell'altro. Il filosofo diceva che nella società liberale gli individui «accettano di condividere la fede gli uni degli altri», ma questa condivisione con l'altro doveva avvenire a prescindere dalle inclinazioni culturali, dalle tradizioni, dai contesti, dalle concezioni della vita, dalle circostanze condivise.
La complicazione, in termini di solitudine, l'ha osservata il filosofo Lawrence Cahoone in un saggio su liberalismo e solitudine: «Ci sono soltanto due modi per stabilire questa condivisione [della fede gli uni degli altri, ndr]: espandere gradualmente le connessioni locali che hanno caratterizzato tradizionalmente l'esistenza umana, oppure sostituire questi legami imponendo connessioni puramente politiche al livello più astratto, lo stato. Quest'ultimo ignora e mette a rischio le sole modalità in cui gli uomini sono riusciti storicamente a condividere la fede gli uni degli altri, affidandosi alla condivisione universale invece di quella puramente locale. È come cercare di curare la tubercolosi rimuovendo i polmoni».
Il liberalismo, nella sua versione proceduralista, esaspera un soggetto individuale e autonomo che concepisce i legami ereditati dalla tradizione come impedimenti allo sviluppo libero del sé. Per affermarlo è pronto a gettare, anzi deve gettare, nel cestino della storia tutto il groviglio di elementi interpersonali, culturali e tradizionali che per secoli hanno dettato il modo in cui l'uomo si autointerpreta e si mette in relazione al mondo. «Ci aspettiamo che la traiettoria della vita individuale sia unica e autodeterminante, possibilmente non limitata da relazioni permanenti e non scelte», scrive Cahoone.
Questa antropologia non può che essere ostile, o al più indifferente, all'idea di cultura, cioè a un sostrato coltivato, ereditato e trasmesso, non rivedibile a piacere o in balia delle voglie del singolo. La questione umana, per il liberalismo proceduralista, è un fatto di libertà e opportunità, afferisce alla sfera soggettiva. Un approccio che tende a privatizzare la dimensione culturale, cosa che finisce per «sostituire la cultura con il potere politico».
La solitudine è un tratto essenziale e ineliminabile del liberalismo proceduralista [...].
Alcuni aspetti della rivoluzione digitale illustrano l'idea della solitudine come esito delle contraddizioni liberali, da un altro punto di vista. La connessione di tutti con tutto si può descrivere come il grande processo di liberazione della parola. [...] L'economista Matt Stoller ha descritto così quella fase, che ha avuto il suo culmine nella prima metà degli anni Zero: «Si trattava di un'èra definita dalla fine della storia, in cui Google era la magia, Alan Greenspan l'oracolo e l'editorialista del New York Times Thomas Friedman aveva fissato una regola sofisticata della politica estera secondo la quale i paesi dove c'è McDonald's non si fanno la guerra fra loro». È in questo clima da apoteosi del progresso, dova basta un cheeseburger globalizzato per fare la pace, che si colloca la parola sbrigliata e ubiqua, pinnacolo di questo felice scenario.
La corsa apparentemente irreversibile si è schiantata contro il muro della disillusione. Oggi il mondo è impegnato nel tentativo di limitare la comunicazione iperconnessa e senza regole. Non è più il veicolo virtuoso per chi era senza voce ma è strumento di diffusione di fake news, arma nelle mani della propaganda illiberale che influenza gli andamenti della democrazia, mezzo di incitamento alla violenza, luogo della disgregazione e del rancore social.
La parola allora va disciplinata, sanzionata, controllata, il genio evocato con energici sfregamenti ora va ricacciato nella lampada. L'agglomerato di aziende tecnologiche, prima salutato come esecutore materiale del progresso, è diventato nell'immaginario collettivo una specie di riedizione del complesso militare-industriale. I suoi eroi sono sotto processo; spezzare il monopolio di big tech è uno dei pochi punti programmatici su cui si può disegnare un consenso bipartisan. La liberazione della parola che doveva unire e strappare le persone alla solitudine è stata, nella migliore delle ipotesi, un processo ambiguo che ha sguinzagliato nuove forze disgreganti. Ci si è rivolti ai meccanismi tecnologici, politici e sociali del liberalismo per risolvere una piaga che era scritta nelle premesse dell'idea liberale. E ci si è stupiti della contraddizione.




