Una dietro l’altra gli investigatori stanno scovando tutte le basi logistiche dell’ex primula rossa Matteo Messina Denaro, convinti che il tesoro di informazioni ma anche quello reale sia da qualche parte a Campobello di Mazara, dove il boss dei boss viveva indisturbato nonostante nel corso degli anni proprio lì si era concentrata l’attività investigativa per stanarlo, o a Castelvetrano, suo paese d’origine e sede del mandamento.
Il primo sito a capitolare è stata la casa di via Cb 31, dove facevano bella mostra un poster di Marlon Brando nei panni di don Vito Corleone, personaggio del Padrino di Francis Ford Coppola e un quadro colori di Joker nella versione interpretata da Joaquin Phoenix. Poi è saltato fuori il bunker di via Maggiore Toselli da 2 metri per 3, dove sono stati trovati bracciali e girocolli in oro, anelli con pietre preziose e orologi di pregio, ma che poteva contenere altro. Visto che è stato scoperto dal Gico della Guardia di finanza due giorni dopo l’arresto il materiale più importante potrebbe essere stato portato via. Il locale più che un bunker sembra una cassaforte del boss. All’interno dell’abitazione, particolarmente vistosa, su due piani, con marmi di pregio e per la cui ristrutturazione sono stati spesi molti soldi, non c’erano suppellettili e nemmeno un letto. Ma il sospetto è che sia stata nelle disponibilità di Messina Denaro, tanto che il Ris sta facendo dei rilievi per vedere se il boss abbia lasciato tracce biologiche. Mentre gli investigatori del Gico, oltre a effettuare un’indagine merceologica per risalire alla provenienza dei reperti, viste le capacità del reparto di sviluppare indagini dirette a ricostruire i flussi finanziari gestiti dalla criminalità organizzata, cominceranno a intrecciare i dati già raccolti in questi giorni. Ora i parenti del proprietario, Errico Risalvato, già consigliere comunale a Castelvetrano, che nel 2019 si è ritrovato tra i 19 sospettati di favorire la latitanza del mammasantissima, fanno sapere che costruirono il bunker perché avevano paura dei furti. Ma tra gli investigatori c’è chi obietta che un qualsiasi cittadino avrebbe scelto una cassaforte. E poi ci sono la precedente abitazione in cui Messina Denaro ha vissuto fino a giugno dello scorso anno in via San Giovanni 260 e le varie proprietà (compreso il domicilio della madre) di Andrea Bonafede, il geometra che aveva prestato la sua identità al mammasantissima.
Ieri invece i carabinieri del Ros si sono spostati a Castelvetrano. All’angolo tra via Scuderi e via Selinunte hanno perquisito l’abitazione dell’avvocato radiato dall’albo Antonio Messina, 77 anni, massone (come il medico Alfonso Tumbarello, che aveva in cura i due Bonafede, quello vero e il boss, il cui nome è stato congelato dall’elenco degli iscritti alla loggia «Valle di Cusa» del Grande Oriente d’Italia), che abita proprio di fronte al fratello d’u siccu, Salvatore Messina Denaro. Messina è già rimasto coinvolto in passato in indagini che ruotavano attorno al nome di Matteo Messina Denaro. E si porta dietro un curriculum giudiziario di tutto rispetto: fu condannato per traffico di droga negli anni Novanta. Insieme a lui erano imputati l’ex sindaco del Comune di Castelvetrano Antonio Vaccarino, che per conto dei servizi segreti intavolò una corrispondenza con Messina Denaro con il nome di Svetonio, e gli uomini d’onore Nunzio Spezia e Franco Luppino. L’ex avvocato fu anche intercettato mentre faceva riferimento a un «ragazzo» di Castelvetrano, identificato in Francesco Guttadauro, nipote di Messina Denaro. In particolare il suo interlocutore ricordava un incontro avvenuto alla stazione di Trapani con «Iddu», ovvero lui in slang siciliano, che si era fatto accompagnare a bordo di una Mercedes da un certo «Mimmu». Non è mai stato chiarito se «Iddu» fosse riferito a Guttadauro o, come invece sospettano gli investigatori, al superlatitante.
Contemporaneamente è stata perquisita anche l’abitazione estiva del legale, a Torretta Granitola, in via Galileo Galilei, sul litorale di Mazara del Vallo, a due passi dal New Acqua splash, un parco acquatico sorto nel 1997 e finito in amministrazione giudiziaria nel 2001 per bancarotta (poi confiscato nel 2022), sul quale La Verità aveva già puntato l’attenzione nel giorno dell’arresto del capobastone di Cosa nostra. Perquisito anche un immobile in via Galileo Galilei, a Campobello di Mazara. Ma il nome del proprietario dell’immobile per il momento resta top secret. Il che fa pensare possa trattarsi di qualcuno molto vicino al boss.
«C’è sempre una via d’uscita, ma se non la trovi sfonda tutto», era il monito di Joker che Messina Denaro aveva appeso su una parete del suo ultimo covo-alcova (lì sono stati rinvenuti Viagra e scatole di preservativi). Deve essersene dimenticato, però, quando i carabinieri del Ros l’hanno circondato nella clinica di Palermo in cui si stava curando per le gravi patologie che l’hanno colpito (ieri in carcere è stato sottoposto alla prima seduta di chemioterapia).
«È finita», avrebbe detto Messina Denaro al suo autista Giovanni Luppino, il broker di olio d’oliva arrestato insieme a lui lunedì scorso. È stato Luppino a raccontarlo al gip che ieri ha convalidato l’arresto e disposto la misura cautelare del carcere. Luppino ha anche detto che fino al momento dell’arresto non conosceva la vera identità del suo passeggero: «L’ho conosciuto mesi fa, me lo presentò il geometra Bonafede con il nome di Francesco e da allora non l’ho più rivisto». Prima del viaggio a Palermo, però, all’alba, quell’uomo si era presentato a casa sua chiedendogli un passaggio per la clinica. All’arrivo dei carabinieri Luppino avrebbe chiesto a Francesco: «Cercano te?». E alla domanda il boss avrebbe risposto «sì, è finita». Agli inquirenti, però, questo racconto deve essere apparso come una supercazzola.
«La versione dei fatti fornita dall’indagato è macroscopicamente inveritiera», valuta il gip Fabio Pilato, «non essendo credibile che qualcuno, senza preavviso, si presenti alle 5 del mattino a casa di uno sconosciuto per chiedergli la cortesia di accompagnarlo in ospedale per delle visite programmate». E Luppino non deve aver tenuto in conto che i carabinieri hanno ritrovato nella sua automobile due telefoni cellulari «in modalità aereo», ovvero senza segnale, prima di spegnerli. Particolare che suggerisce come «fosse talmente consapevole dell’identità di Messina Denaro», sottolineano gli inquirenti, «da ricorrere a un contegno di massima sicurezza per evitare possibili tracciamenti telefonici».
Inoltre, nell’ordinanza, viene evidenziato che era armato di coltello serramanico. Secondo il gip, «può senz’altro presumersi che egli sia custode di segreti e prove che farebbe certamente sparire se lasciato libero. A ciò si aggiunga che occorre svolgere degli accertamenti sui pizzini dal contenuto sospetto rinvenuti al momento della perquisizione».
Un concetto esplicitato anche dal pm Piero Padova: «Nessun elemento può allo stato consentire di ritenere che una figura che è letteralmente riuscita a trascorrere indisturbata circa 30 anni di latitanza si sia attorniata di figure inconsapevoli».
E infatti gli investigatori da tempo girano attorno a Campobello e a Castelvetrano. Nel 2010, per esempio, la Procura fece piazzare delle telecamere davanti alle abitazioni di alcune persone considerate vicine al boss, nella speranza di riuscire a localizzare il superlatitante. Ma alcune sparirono all’improvviso. Rubate. Due in particolare: quella che monitorava il fratello Salvatore Messina Denaro e tale Franco Luppino. Ma anche i pizzini, che servivano per comunicare le decisioni importanti, giravano tra Castelvetrano e Campobello, stando a quanto si è scoperto nel 2021. Il pentito Antonino Pipitone ha svelato che le comunicazioni da Palermo arrivavano prima a Castelvetrano e poi venivano consegnate proprio a Campobello di Mazara. Nonostante le attività investigative abbiano lambito i nascondigli del capobastone, però, Messina Denaro deve essersi sentito comunque protetto, proseguendo la sua latitanza nei luoghi attenzionati. Fino a lunedì scorso.
La saletta per la videoconferenza era già pronta. Ma quando dall’aula bunker di Caltanissetta hanno fatto l’appello, il cancelliere del carcere di massima sicurezza dell’Aquila ha spiegato che l’imputato Matteo Messina Denaro, accusato di essere uno dei mandanti delle stragi del 1992 e, per questo, condannato in primo grado all’ergastolo, «ha rinunciato a presenziare». L’ex Primula rossa, oggi definito dalla Procura antimafia di Palermo come «il custode di verità inerenti le pagine più cupe della storia repubblicana», per scelte difensive ma anche mediche (ha dovuto rinviare la prima seduta di chemioterapia) lascia vuota la sedia sulla quale era puntata la telecamera e tutti col fiato sospeso fino alla prossima udienza. Con il procuratore generale facente funzione Antonino Patti che spera di ottenere da Messina Denaro «un contributo in grado di squarciare veli sulla stagione stragista».
Sulle coperture che gli hanno permesso 30 anni di latitanza e sui complici con i quali sarebbe riuscito a fare affari dal suo ultimo quartier generale di Campobello di Mazara, invece, gli inquirenti di Palermo stanno stringendo il cerchio. Dopo il covo in cui Messina Denaro si nascondeva, scoperto dai carabinieri del Ros, in via Cb 31 di Campobello, e dopo il bunker dalla particolare planimetria, al quale si poteva accedere tramite una finta parete nascosta da un armadio, individuato dagli investigatori del Gico della Guardia di finanza in via Maggiore Toselli, ieri, per la terza base logistica del capobastone, è entrato in azione lo Sco della polizia di Stato. E si è subito scoperto che quella di via San Giovanni 260, a 300 metri dall’abitazione comprata da Messina Denaro tramite il suo alias Andrea Bonafede, il geometra indagato a piede libero per associazione mafiosa e favoreggiamento che gli ha prestato la carta d’identità per consentirgli le cure, è la precedente casa scelta dal boss per la sua latitanza. L’alloggio è vuoto e risulta in vendita. Gli investigatori hanno controllato, oltre all’abitazione, anche tre garage. Il proprietario vive in Svizzera e ad aprire i locali è stato un suo familiare. Sarebbero stati i facchini che hanno eseguito il trasloco verso via Cb 31 agli inizi di giugno a indicare alla polizia l’indirizzo dell’edificio. E se dall’appartamento di ieri gli investigatori sono usciti a mani vuote, comincia a filtrare il contenuto delle scatole recuperate nel bunker: appunti e qualche documento da interpretare, oltre a monili e pietre apparentemente preziose, ma anche a pezzi di argenteria. Vanno a sommarsi all’agenda con appunti, nomi, numeri di telefono e spese di viaggio (considerato un «libro mastro»), al Viagra, ai preservativi, agli occhiali da sole e ad alcune fotografie trovati nell’appartamento di via Cb 31.
Cresce anche il numero dei fiancheggiatori individuati. Insieme a Bonafede è finito nei guai Giovanni Luppino, il broker di olio d’oliva che faceva da autista al super boss. Al momento dell’arresto (che ieri è stato convalidato) aveva con sé un coltellaccio a serramanico con lama da 18,5 centimetri. E ieri, durante l’interrogatorio di garanzia, quando il gip Fabio Pilato gli ha chiesto come mai girasse armato, Luppino ha risposto candidamente: «Lo porto sempre con me. Anche per andare all’ospedale». Negli archivi dei carabinieri Luppino veniva definito «di buona condotta in genere, essendo immune da pregiudizi di polizia agli atti d’ufficio». Un insospettabile, insomma, che «in pubblico» godeva «di normale stima e reputazione». Ora, invece, secondo la Procura, «ha certamente contribuito, in senso materiale e causale, alla prosecuzione della latitanza di Messina Denaro. Facendogli da autista e accompagnatore personale, infatti, ha certamente garantito a questi possibilità di spostamento in via riservata senza necessità di dovere ricorrere a mezzi di locomozione direttamente condotti dallo stesso latitante o mezzi di locomozione pubblici o privati che potessero in qualche modo esporlo alla cattura».
Nella rete degli investigatori sono poi rimasti impigliati due medici, l’oncologo Filippo Zerilli e il medico di base in pensione Alfonso Tumbarello, il cui nome è stato congelato dall’elenco degli iscritti alla loggia «Valle di Cusa» del Grande Oriente d’Italia. D’altra parte, ha spiegato il capo della Procura di Palermo Maurizio De Lucia, «il Trapanese è da sempre permeato di rapporti fra mafia e pezzi di ambienti che io chiamo genericamente della borghesia mafiosa. Ma lo faccio per non dare specificazione a elementi che invece riguardano particolari settori, dall’imprenditoria al mondo della sanità». Ed è a questo punto che il magistrato introduce un altro tema: «Certamente va considerato che la provincia di Trapani è la seconda in Sicilia, dopo quella di Messina, per presenza di logge massoniche. Tutti questi elementi ci inducono a spingere i nostri accertamenti e le nostre verifiche fra il materiale che abbiamo e la rilettura di quello che avevamo».
C’è un secondo covo a Campobello di Mazara. Si trova a meno di un chilometro dall’abitazione scoperta l’altro giorno e pare sia stato trovato su segnalazione di un confidente. Una soffiata chirurgica, spifferata agli investigatori del Gico, il reparto della Guardia di finanza che si occupa delle indagini sulla mafia. L’ipotesi di un ulteriore nascondiglio, utilizzato dal latitante Matteo Messina Denaro, rimbalzava già da lunedì, ma soltanto ieri è stato individuato. Il sospetto nasceva dal «bottino» folkloristico sequestrato nella casa di via Cb31, intestata al geometra Andrea Bonafede, lo stesso che aveva prestato al boss la carta d’identità. Preservativi e vestiti di lusso a parte, da quella perquisizione non è emerso altro che un’agenda, con appunti, numeri telefonici e memorie desolate sulla figlia che non ha mai potuto incontrare.
Il secondo covo, che si trova in via Maggiore Toselli, invece, viene descritto come un bunker, con una parete posticcia rivestita di ferro che nascondeva un lungo tunnel, alla fine del quale, in una piccola stanza, c’erano due scatole piene di materiale da analizzare. Partendo dalla segnalazione, gli investigatori del Gico hanno individuato l’esatta posizione del secondo covo incrociando dati catastali, utenze e anagrafe tributaria: l’insieme «dell’attività informativa» e di «quella investigativa», insomma. Il proprietario è Errico Risalvato, più volte indagato per aver fatto parte del network che avrebbe garantito la latitanza di Messina Denaro, con un passato da consigliere comunale a Castelvetrano, paese natale e mandamento dell’ex Primula rossa. Nome già presente in alcuni atti ingialliti della lunga caccia, sin dagli anni Novanta, quando era titolare di un’impresa di calcestruzzi, ma nonostante tante accuse è sempre stato assolto. Il fratello, Giovanni, da poco scarcerato, invece, è stato condannato a 14 anni. Insomma, non proprio un insospettabile. Tanto che nel 2019 la polizia aveva perquisito la sua casa, alla ricerca di informazioni su Matteo Messina Denaro. Quindi, almeno fino a quella data, in quell’abitazione pare che del boss non ci fosse traccia. L’amicizia tra Errico Risalvato e il fratello del capomafia, Salvatore Messina Denaro, al contrario, era arcinota. Così come il link tra il maggiore dei Messina Denaro e il dottore Alfonso Tumbarello, il medico di base che aveva in cura i due Andrea Bonafede: quello vero e quello fasullo. Era lui a occuparsi delle ricette mediche per il boss, ma ai carabinieri ha detto di non essersi accorto dell’identità duplicata. Anche per questo i pm di Palermo lo hanno indagato, così come l’oncologo Filippo Zerilli, che lunedì, come raccontato in anteprima dalla Verità, aveva subito una perquisizione. Pure il Grande Oriente d’Italia è intervenuto, sospendendo dalla fratellanza il dottore Tumbarello e congelando il suo nome dall’elenco degli iscritti della loggia «Valle di Cusa». Ed ecco spuntare, in questo ultimo segmento di latitanza, anche la massoneria, che potrebbe spiegare parte del mistero trentennale.




