Ivan Rizzi, Presidente dell’Istituto di alti studi strategici e politici (Iassp)
Ottobre 1962. Un brivido di paura percorse il mondo. Una flotta sovietica stava facendo rotta verso la Cuba di Fidel Castro, a bordo trasportava missili Mrbm in grado di trasportare testate nucleari. Tra Usa e Urss vigeva, in una logica di diffidenza reciproca, un sistema di deterrenza basato sul fantasma apocalittico del conflitto nucleare. L’equilibrio, pur precario, resse, le nostre vite lo testimoniano. La vicenda come noto si concluse con l’ordine di Nikita S. Khrushchev di invertire la rotta. John F. Kennedy, poco prima, aveva lanciato un appello agli americani: «Non rischieremo prematuramente e senza necessità una guerra nucleare mondiale dopo di cui anche i frutti della vittoria sarebbero cenere sparsa sui nostri cadaveri; ma nemmeno indietreggeremo di fronte a un tale rischio». La logica fa capolino in quel «senza necessità» che lumeggia ancora l’attualità.
Ragioni e conseguenze
Per gli storici non è ancora chiara la motivazione prevalente dell’accaduto. Forse fu un tentativo da parte sovietica di recupero del gap missilistico rispetto alle dotazioni Usa (almeno dieci volte superiori) che contraddiceva i successi ottenuti nello spazio (l’anno prima Yuri Gagarin sulla Vostok 1 aveva volato nello spazio cosmico). Anche se Cuba era costantemente minacciata dalle avances destabilizzanti delle amministrazioni americane, per il Pentagono era una specie di fissazione (operazione Mongoose), sembra sproporzionata la scelta di armare l’isola con armi così estreme. O, forse, proprio la risoluzione finale degli accordi era ciò che Khrushchev voleva dopo la grande esibizione delle performances tecnologiche e tattiche sovietiche. Una riduzione degli esperimenti e delle testate nucleari, troppo onerose per una potenza in ascesa; una relazione paritetica, il «filo rosso», tra il Cremlino e la Casa Bianca; lo smantellamento dei missili Jupiter in Italia e Turchia; infine, una specie di ammissione di colpa da parte americana nell’impegno di non invadere l’isola più spavalda della terra.
C’è, però, un precedente molto meno noto. Kennedy, in piena crisi, convocò, nell’ambito di consultazioni multilaterali, il cancelliere tedesco Konrad Adenauer per condividere lo stato della crisi. La Germania Occidentale era sul filo della Cortina di ferro e avrebbe subìto la prima, devastante, ondata dell’attacco nucleare in caso di conflitto. Il cancelliere, dopo il primo incontro in cui si palesava la possibilità di una escalation militare, si rifiutò di proseguire il colloquio e rientrò in patria. A pochi anni dalla sconfitta dell’Asse e in un Europa che si stava ancora leccando le ferite, nessuno avrebbe accettato di sacrificarsi per la convenienza strategica degli Stati Uniti, il che, credo, servì a depotenziare il fervore belluino del Pentagono. A fianco della Germania Ovest c’era tutta l’Europa continentale, in particolare il IV governo di Amintore Fanfani che investì tutta la prerogativa diplomatica disponibile per la rimozione dei missili Icbm dislocati in Puglia e Basilicata. Oggi la scuola realista sta affidando ancora a un premier tedesco, Olaf Scholz, di fatto già riluttante a potenziare il supporto militare all’Ucraina, le poche speranze di scompigliare la marcia entusiasta dei paesi della Ue verso un’alta probabilità di uno scontro terminale.
il raffronto con oggi
Quel pericolo non è affatto più improbabile rispetto alla crisi del 1962: allora il vis à vis vedeva due paesi vittoriosi con un surplus di potenzialità distruttiva e simbolica. L’attualità contempla una nuova potenza in ascesa entrata prepotentemente in partita, la Cina, paradossalmente anche grazie alla professione di strategia unilaterale statunitense nella presunzione di allineare il mondo e allevare il futuro a proprio piacimento.
La potenza affermata è ora costretta a rilanciare tutto il suo egemonismo nel bel mezzo di una estenuante crisi valoriale ed economica, con dentro la bomba ad orologeria di un deficit commerciale micidiale. Mentre la Russia sta scivolando fuori orbita, la sua potestà e credibilità sono ogni giorno più compromesse.
Proprio qui sta il punto, all’elegante simmetria della trappola di Tucidide che fatalizza lo scontro tra due potenze, Usa e Cina, la Russia rappresenta per gli Stati Uniti, nella visione infausta di una alleanza tra Cina e Russia, l’anello debole da rendere inerte il prima possibile, depotenziando sul nascere quella eventualità. La guerra scatenata dalla Russia è solo l’acme di un contenzioso tra la Casa Bianca e il Cremlino più o meno sotterraneo e iniziato dagli anni Novanta. La reattività russa, messa alle strette, rischia di essere ancora più pericolosa di quella della potente Unione Sovietica del 1962. Vi è, al di là del regime assolutistico di Vladimir Putin, la tenuta spirituale e simbolica del popolo russo, che fa rendere temibile una resistenza ad libitum alle sofferenze, impensabile per l’Occidente.
Della stessa natura è fatta la resistenza della popolazione ucraina, oggi sottoposta a martirio nell’epica opposizione all’invasione che ha sorpreso le stesse previsioni dell’intelligence russa e di quella tedesca. Le sanzioni, pur deprimendo la vita e le consuetudini quotidiane, avranno bisogno di troppo tempo per piegare l’humus di quelle genti, le stesse che ritroviamo nel Tolstoj di «Guerra e pace» o nei lunghi supplizi dei «Racconti di Kolyma» di Salamov. La storia antiliberale della Russia è il suo humus sociale, fatto di silenzio e remissività, di fede e incantamento, come lo furono nella profezia redentiva della dittatura del proletariato, nonostante quell’incanto smentisse costantemente ogni promessa di libertà per il proprio popolo.
il ruolo dell’europa
Anche dopo l’evaporazione dell’Urss, la Madre Russia ha collezionato troppi errori strategici (non ammissibili nemmeno se indotti dalla «manina» degli apparati più bellicisti della controparte storica) a cominciare dalla pochezza creativa, dall’incapacità di imporsi quale soggetto imprescindibile del consolidamento della pace globale attraverso alleanze e prassi testimoniali di influenza. Furono disattesi dialettica e contraddittorio con l’economia di mercato, ogni ipotesi sperimentale di democrazia e del suo fine epistemologico più profondo: l’emancipazione dei più. Non l’insana uguaglianza, l’ipocrisia ideologica del medesimo, ma il libero dispiegamento della differenza ontologica degli esseri, ossia della vera ricchezza dell’umano celata nell’intima possibilità di autodeterminazione e nel mistero di esistere.
E l’Europa? È in stallo economico e culturale, un luogo dell’attesa, un parco delle rimembranze senili. Priva di disegno prospettico unitario e di spirito tensivo, a differenza della povera Europa del 1962, vive ma sopravvive a se stessa abdicando all’idealità insieme alla sua determinazione aggressiva che pure la fecero grande. Appiattita su arrocchi interni demodè mentre copia alla lettera l’etica censoria della Critical race theory, della cancel culture e del verbo militante di Washington. La gente sembra in attesa di una soluzione salvifica. La guerra ci porta solo la soluzione recessiva, una nuova edizione della stagflazione, recessione produttiva più inflazione, omettendo la possibilità di una escalation geografica del conflitto. Intanto, mentre si fraseggia apertis verbis di razionamenti energetici e alimentari, dal contingentamento delle scorte di materie prime, sono partiti i rincari di tutti i beni, comprese le medicine salva vita. Prepariamoci a una simmetrica riduzione dell’attesa di vita, selettiva come sempre. L’inflazione in aprile è del 6,2%, in piena ascesa. Il Pil promesso al 4,7%, nel primo trimestre precipita a meno 0,2%. L’oneroso contributo alla militanza pro Kiev non può bastare. Ancor più se i costi degli embarghi e del potenziamento militare dell’Ucraina per il suo vantaggio tattico sono finalizzati a intensificare il conflitto per logorare la Russia. Fino a quando?
Un algoritmo in politica
La logica e la forza dell’istanza morale dovrebbero padroneggiare i due tropismi della paura, da un lato quello che ci paralizza, dall’altro ciò che accompagna l’avvedutezza, l’attenzione verso ciò che ci potrebbe danneggiare e la cura per ciò che esiste a cominciare dal sé, l’amor proprio. Sto appellandomi a una sana paura, alla precauzione. Il sentimento che può contraddire l’assolutismo delle scelte unilaterali, a partire dall’intensificazione della militarizzazione dello scontro, delle parole sempre più brutali e sguaiate nella demonizzazione dell’avversario. Non c’è solo insensatezza e avventatezza al comando del mondo, è in funzione l’algoritmo ontologico che acceca il senso del limite dinnanzi alla presunzione di essere nel giusto come in tutte gli universalismi militanti. Troppe volte finiti nell’ossimoro delle guerre umanitarie, le «guerre giuste».
L’algoritmo politico ha sostituito la dialettica democratica del contraddittorio e della tolleranza, lo vediamo in Italia dove il parlamento è sospeso ad interim, gelato da un nuovo «stato di eccezione» che oggi contempla solo la scelta eterodiretta dell’escalation bellica. Tutto ciò non crea solo dipendenza e consuetudine nelle menti, ma l’automatismo si infila anche nelle prassi collettive e soprattutto in quelle delle stanze dei bottoni. È la matrice dell’algoritmo che impone sequenza, procedura e finalità, il suo perfettismo eccede la nostra imperfezione e i vaghi sentimenti, ispira l’orizzonte transumano. La certezza di un nuovo determinismo attraversa il pensiero, una volta stabilito l’obbiettivo esso si tramuta in verità. Legge e desiderio si identificano. Tutto diviene coazione a ripetere, automatismo paranoico dell’escalation estraneo alle conseguenze. Pare di sentire le parole del fisico Julius Robert Oppenheimer. «Quando vedi che qualcosa è tecnicamente attraente, vai avanti e la fai e ragioni circa il da farsi solo dopo che hai avuto il tuo successo tecnico. Questo è stato il nostro approccio con la bomba atomica».
Ivan Rizzi è Presidente e docente dell'Istituto di Alti Studi Strategici e Politici (IASSP)
È il mercato bellezza! Che disegna la differenza tra chi ha e chi non ha, tra la ricchezza che via via si concentra in pochi eletti - quasi in un minuscolo puntino in mezzo a cerchi concentrici di proseliti - e la miseria di molti reietti, sudditi assistiti che non hanno che la facoltà di scegliersi il padrone.
È la mentalità servile parassitaria che oggi ci domestica di fronte all'insostenibilità del welfare che come si sa si regge sulla vita attiva cioè produttiva, è l'infelice mentalità del "voto di scambio", oggi però basta anche una promessa che è sempre meglio di niente. Ritorna il detto del tardo Cinquecento, con la Francia o con la Spagna purché se magna. Peccato che così il servo rinunci alla gioia di credere di essere autore di sé e del mondo. Lo sapeva anche la classicità. Non c'è felicità senza libertà, non c'è libertà senza coraggio. Lo si può dire anche con Sant'Agostino: è felice l'individuo che ama la propria volontà buona.
Il post Covid-19 forse non vedrà le migrazioni di disperati in cerca di scampoli di lavoro come nelle pagine di Steinbeck e forse nemmeno la cieca ira dei miti ma qualcosa dovrà accadere.
Si sa da tempo che persino le civiltà possono morire e che quando va bene si fanno due passi avanti e uno indietro, il fatto è che forse ne stiamo facendo più d'uno dalla parte sbagliata. Del resto chi sa solo sperare non avrà la forza per dire la sua nella dialettica del concreto cioè degli interessi. Solo chi spera si può di- sperare.
Di quei 80 trilioni di dollari che è fumo per gonzi, i più, e invece è ricchezza sonante per chi sa muoversi in quell'opacità, una parte consistente si trova nella pancia dei paesi virtuosi o frugali, il blocco centrocontinentale europeo, istituti che vorrebbero attualizzare le antiche razzie magari verso il risparmio italico. Del resto è quella la via breve per la riproduzione della ricchezza, così se l'Europa ha perduto il primato nel mondo ai più intraprendenti non resta che riversare al proprio interno le brame dell'umana avidità.
È qui che si sta disegnando la nuova linea gotica tra paesi vincenti e perdenti, inutile dire dove siamo collocati, siamo persino appellati con impudenza derisoria, piigs-maiali, ma si sa che persone semiserie accettano tutto, basta ottenere una potestà di cortile e persino un vicerè sarà felice.
Però non crediate che la vicenda della scarcerazione dei vertici delle cupole mafiose appena consumata (e non di presunti colpevoli, quelli sì rimasti in carcere, ma di condannati definitivi) sia una storia al limite del ridicolo tanto è stupefacente.
Il fatto è legittimato dalla pietas nell'incalzare di un contagio a caccia di immunodepressi e di vecchietti iperpatologizzati che com'è noto affliggono endemicamente le caste dei clan.
Tutto il sistema levantino di guardie e ladri, di stato e antistato, dove vige l'antropologia negativa la sfiducia nell'altro è in pieno risveglio, si fa per dire.
Il giustizialismo mediatico, sempre epico ed etico puntualmente impegnato per ben altro, non ha notato nulla e quindi semplicemente non ha avuto niente da ridire.
Così il Consiglio Superiore della Magistratura, oggi sottosopra e in crisi di identità per lo scandalo Palamara-Auriemma dove un semplice Trojan ha sollevato il velo su un sistema di potere indaffaratissimo sul fronte politico interno per "cancellare" non tanto l'ingiustizia in Italia quanto gli avversari politici. Un tempo non si sarebbe parlato di istituzioni deviate?
Ci vuol poco a convenire con De Rita: «L'Italia è meglio della magistratura che si precipita nelle Rsa nel pieno della tragedia Covid-19».
Un governo che di fronte all'insipienza della catena di comando del Ministro di Giustizia che apre le porte dell'Ucciardone ha dato prova di grande abilità coreografica da dramatis personae, pur di restare in scena.
Mentre la borghesia settentrionale che non ha mai voluto dare nessun figlio alla patria ora patisce l'alterità della meridionalizzazione delle istituzioni e si scopre in trappola.
Altro che dramma semiserio, ci vuole competenza perché nulla accada davanti all'intollerabile. Nessun paese al mondo può competere con funiculì funiculà al potere.
Tuttavia c'è chi messo alle strette dalla nuova crisi mentre fa i conti sulle necessità e sulle convenienze resta allibito di fronte alla pur biasimevole efficienza delle mafie, alla loro tempestività operativa e alle public relation, e qui non insisto sull'infamia, si è già detto. Si resta perplessi anche dinnanzi al linguaggio rispettoso dei media nei confronti dell'élite delle cosche, si descrivono genealogie quasi nobiliari, famiglie storiche e rami cadetti, comandamenti come signorie. Ci si mette anche la letteratura, con ottime intenzioni però, dopotutto Camilleri fa gestire dal Commissario nazionale con osservanza diplomatica i rapporti col vero potere locale. Sembra di risentire in una perversione da sindrome di Stoccolma il sussurro delle stasi: tutto cambi perché nulla cambi.
È già agli atti giudiziari questa conversazione tra un commissario della Polizia di Stato e un altro esponente della finanza internazionale della quale riporto alcuni passaggi sfuggiti, credo intenzionalmente, dal secretamento.
«Siamo i rappresentanti del denaro sporco, signor commissario. Vogliamo capire se riusciamo a sviluppare la nostra imprenditorialità collaterale, sotterranea, oscura se preferisce, finanziando un paese e portandolo allo sviluppo senza utilizzare neppure un centesimo di denaro pulito». […]
Sia il denaro pulito che quello sporco sono egualmente opachi e a nessuno interessa sapere da dove provengono. […]
«Si sente sempre parlare di riciclaggio del denaro sporco. Nessuno però dice che il riciclaggio è al tempo stesso un investimento, signor commissario. Il modo più sicuro per trasformare il cosiddetto denaro illegale in denaro lecito è investirlo. A quel punto, non ci sarà più nessuno a parlare di riciclaggio, ma tutti parleranno di investimenti. È questa l'essenza dell'esperimento che stiamo conducendo in Grecia: legalizzare il denaro sporco attraverso gli investimenti. Per spiegarlo con un vecchio proverbio greco: "nella lotta siamo uniti, nella massa separati", che in questo caso potremmo riformulare così: "Nell'opacità siamo uniti, nella legge separati". Il riciclaggio tramite gli investimenti ci unisce anche di fronte alla legge».
«Il mondo crede che ci servano dittature e paesi canaglia per svolgere indisturbati le nostre attività, ma non è così. Anzi, è un grosso errore. Tutti tengono gli occhi puntati su questi paesi e ne controllano e ne commentano ogni singola azione. Per noi è un problema, perché diventiamo facili bersagli e non possiamo più restare nell'ombra, là dove è, effettivamente, il nostro posto. Al contrario in un paese normale, con un governo e delle istituzioni, nessuno presta attenzione a noi, perché, come le dicevo, a nessuno interessa l'origine del denaro. Basta che esista e che garantisca lo sviluppo». […] «e noi non vogliamo uscire dai nostri limiti».
Forse qualcosa di non molto dissimile ebbe a dire il pirata Drake alla regina Elisabetta, e fu così convincente -voglio dire il denaro sporco- che fu insignito di un titolo nobiliare. Attenzione però, non fu solo ipocrisia, è la legge dei mercati si vince con le razzie (oggi finanziarie) o con l'export ma è sempre questione di politica estera come avrebbe detto Bismark. La conversazione ovviamente immaginaria è tratta dal romanzo di Petros Markaris, «Il prezzo dei soldi», Edizioni Gedi, 2018.
Il regno della quantità in cui viviamo non può che partorire un’era neomalthusiana
Non so se Angela Merkel abbia letto Guénon, ma di certo ha dimostrato di sapere dove stiamo andando, e si può solo ammirare se pure a denti stretti il principio di lucidità della Realpolitik.
«Quando eccede la quantità si cambia la qualità». Il regno della quantità in cui viviamo non può che partorire un'era neomalthusiana. La più lucida interprete del reverendo inglese alla prova dei fatti del covid-19 è la Germania. Non so se la signora Merkel abbia letto Guénon, ma di certo ha dimostrato di sapere dove stiamo andando, e si può solo ammirare se pure a denti stretti il principio di lucidità della Realpolitik. Inutile dire che ci sono stati molti indizi e molti preveggenti, ma credo che pochi come lei abbiamo saputo istituire una linea guida e soprattutto abbiano saputo comunicarlo: "Dobbiamo aspettarci 50/60 MLN di contagiati", l'80% della popolazione, dobbiamo prepararci senza panico sapendo che la tenuta economico produttiva del paese dev'essere garantita prioritariamente stante lo stato della nuova Guerra fredda e dell'infowar, ciò che conta è ancora il primato nazionale, U tacendo.
Di conseguenza se dobbiamo accettare, visto che pare inevitabile, una selezione generazionale (stavolta non razziale, non dimentichiamo) dopotutto in linea con la legge naturale, non è invece accettabile fermare le macchine, anzi dovrà tacere, come si imponeva nello stato di eccezione, e non si dovrà contare tra le vittime del Covid-19 chi muore per un carico fatale di patologie pregresse anche se ha contratto il virus.
Infatti tra le ipotesi di concause addotte non può essere significativo il lieve primato di anzianità dell'Italia a determinare la differenza elevatissima del tasso di mortalità tra i due paesi, né il livello delle polveri sottili equamente ripartito tra Italia del Nord e centro Europa.
Ma si sa che la verità non esiste, la parola è appunto indeterminata, esistono solo interpretazioni, a detta di un filologo prussiano. Interpretazioni quasi sempre al servizio di una potestà. Rispetto alla cronaca del massacro pandemico restiamo perplessi non solo per il basso numero di decessi in Germania, che non ha paragoni rispetto agli altri paesi occidentali anche in considerazione della diversa tempistica del contagio, ma anche per la coincidenza numerica (casuale) con la Cina.
A differenza delle "interpretazioni" tedesche la Cina ha apertamente mentito in linea con i presupposti posturali del comunismo totalitario, niente di nuovo. Ma per noi sarebbe fatale confidare troppo in un paese che dissimula i dati della vicenda che ha scatenato, tenendo nascosto a tutti i paesi del mondo l'inizio della pandemia più contagiosa della storia danneggiando l'intera specie umana. La sua propaganda interna si spinge perfino ad addebitarci la corresponsabilità del contagio globale nel tentativo di discolpare il regime (il PCC).
Mentre la maggioranza degli stati sta già pianificando una modalità internazionale sulla base di un decoupling potenziato nei confronti della Cina per limitarne la capacità di proiezione globale e si prepara a disporre una rivalsa formale in base al diritto internazionale nei suoi confronti. Da noi paradossalmente il sondaggio SWG, dopo gli storitelling pro Cina, ha rilevato una netta preferenza degli italiani verso la Cina (36%) rispetto agli Stati Uniti (30%) relativamente alla disponibilità di aiuto prestato da quei paesi all'Italia, potenza del plagio!
Prepariamo dunque anche noi un dopo, siamo ancora in tempo nella speranza che Roma disdica il vezzo di essere solo la capitale del Mezzogiorno.
Abbiamo dimostrato una tenuta sociale e una maturità comportamentale invidiabili soprattutto nelle aree più colpite del paese. Ora per il dopo dobbiamo fare nostre quelle parole pronunciate da un'antica stirpe proprio a Roma: "Bisogna essere retti altrimenti saremo sorretti e raddrizzati da altri".
P.S. su Malthus e sulla grande selezione economica delle genti il criterio già in atto è quello dettato da kenneth Galbraith: "la maggioranza ha sempre torto". Sul piano invece della selezione che si profilain base al rapporto tra vita (sopravvivenza) e ricchezza personale la letteratura è molto più profetica della saggistica. Tra un po' dovremo fare i conti con la criogenesi, la clonazione o la telomerizzazione.





