«Credo che l'autopsia sul cadavere di Raffaello Bucci non sia servita a niente. Era già stata fatta, ma soprattutto lui era arrivato ancora vivo in ospedale, quindi esiste una Tac che ci è utilissima. È fuor di dubbio che Bucci si sia buttato volontariamente dal cavalcavia, ci sono testimoni che lo confermano, ma dire che l'autopsia sia in grado di accertare se poco prima di farla finita abbia ricevuto qualche ceffone o delle minacce è pura fantasia. Era doveroso farla, ma penso che il problema a questo punto si sposti altrove: è soltanto una questione di indagine, per capire se fosse ricattato o sotto stress, cose che l'autopsia non potrà mai svelare». Sono le parole di Roberto Testi, il medico legale incaricato dalla Procura di Cuneo che ieri ha condotto l'autopsia sul corpo di Bucci, ultras dei Drughi della Juventus la cui salma era stata riesumata poche ore prima dal cimitero di Cuneo.
Bucci era fra i protagonisti delle polemiche legate all'esposizione in curva di striscioni sulla tragedia di Superga in occasione del derby con il Torino nel febbraio 2014. Report ha reso note delle intercettazioni in cui il responsabile della sicurezza Alessandro D'Angelo, sempre difeso dal presidente Andrea Agnelli, parlava di striscioni proprio con Bucci («No ti prego, non Superga…»).
Paolo Verri, avvocato di Gabriella Bernardis, ex compagna di Bucci, ieri ha commentato «Al momento c'è poco da dire: attendiamo la relazione e gli esiti dell'esame autoptico, ma sinceramente non ci aspettiamo molto. Le condizioni della salma non hanno permesso di effettuare tutti gli approfondimenti che avremmo voluto: ci sono riscontri su macrolesioni ma non era più possibile accertare la natura delle ferite più piccole».
In qualche modo erano state premonitrici le parole di Lorenzo Varetto, il perito di parte che ha affiancato il dottor Testi nell'autopsia: nei giorni scorsi aveva confidato che tutto sarebbe dipeso dallo stato di conservazione del corpo. A tre anni di distanza dalla morte poteva essere difficile ipotizzare a priori se il cadavere dell'ex capo ultrà sarebbe riuscito a fornire indizi utili.
Bucci si era ucciso il 7 luglio 2016, buttandosi da un cavalcavia della A6, all'altezza di Fossano, nel cuneese. Una morte inizialmente archiviata come suicidio, ma che si è tinta di giallo quasi subito: poche ore prima di farla finita, il collaboratore per i rapporti con gli ultrà della Juve era stato sentito in Procura, a Torino, come persona informata dei fatti in merito a presunti rapporti e infiltrazioni tra 'ndrangheta e tifoseria passati sotto la lente nel corso del processo Alto Piemonte.
A non credere al suicidio è stata proprio Gabriella Bernardis, la sua compagna: «Non si è tolto la vita, qualcuno l'ha spinto a farlo. Non era il tipo da buttarsi giù da un ponte. L'ha fatto per salvare la cosa più preziosa che aveva, nostro figlio Fabio, minacciato di morte se lui non si fosse tolto di mezzo: sapeva troppo, era diventato scomodo».
Una morte che ha un corollario di piccoli e grandi misteri: ci sono occhiali e borselli che scompaiono per poi ricomparire, amici che raccontano del terrore negli occhi di Bucci nei giorni immediatamente precedenti al tragico volo, ci sono (anzi, mancano) foto del cadavere, ci sono strani legami con i servizi segreti, un blackout del server della Procura, e soprattutto fratture che sembravano non avere nulla a che fare con la modalità scelta da Bucci per farla finita: escoriazioni e tumefazioni sulla parte sinistra del volto e un taglio all'altezza del naso che si era ipotizzato non fossero riconducibili alla caduta. Quanto è bastato per far leva sul procuratore di Cuneo Onelio Dodero, che ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio disponendo la riesumazione del corpo di Bucci.
«A questo punto siamo nelle mani della Procura», conclude l'avvocato Verra, «lasciamo a loro il proseguo dell'inchiesta. Abbiamo suggerito la riapertura del fascicolo e fornito nuove ipotesi e idee per ulteriori indagini, ma ovviamente sul caso c'è il massimo riserbo».
«Bisogna amare qualsiasi cosa che sia una violenta reazione contro le norme». Non è un proclama di un gruppo estremista e neanche il fine pensiero di un ideologo del passato, ma una frase di Jim Morrison, il leader dei Doors passato a miglior vita nel 1971, ma soprattutto mai transitato da Torino. Eppure, quel principio di Jim - efficacemente ridotto all'osso - in Piemonte ha messo radici. L'anarchismo all'ombra della Mole, come nelle vallate che si spingono verso le montagne, ha una lunga storia e un'ancor più lunga teoria di nomi e ideali consumati fra bombe, morti, processi e arresti.
Sembrano storie d'altri tempi, da relegare agli anni peggiori di questo Paese strano, ma non è così. Torino vive una nuova stagione di proteste e violenze che hanno fatto scattare l'allarme di Procure e forze dell'ordine. Perché al fianco dei soliti volti di antagonisti ben conosciuti dalle questure, stanno emergendo nomi nuovi, una generazione di «anarcomillennials» all'apparenza inserita nella società civile. Gente con mestieri rispettabili e dalla cultura discreta che sembra voler raccogliere il credo di ideologi come Alfredo Maria Bonanno, 82 anni, catanese, ex cassiere in banca e autore di La gioia armata, un manuale considerato il testo base della lotta armata.
Nelle carte dell'ordinanza che convalida l'arresto di un gruppo di anarchici accusati di aver inviato 21 pacchi esplosivi e incendiari ad altrettante aziende e imprese in qualche modo legate al funzionamento dei Cie, i centri di identificazione ed espulsione, nel 2017 rinominati Cpr, centri di permanenza per i rimpatri, in tanti a Torino sono rimasti senza parole. Degli otto anarchici finiti in manette l'unica vecchia conoscenza degli archivi della Questura è Niccolò Blasi, 30 anni, pesarese: dopo il diploma a pieni voti allo scientifico Marconi di Pesaro arriva a Torino per studiare filosofia all'università, dove sceglie di sposare la lotta armata. È stato condannato per un raid incendiario al cantiere Tav di Chiomonte nell'aprile 2013 ed è uscito da poco di galera. Poi ci sono gli altri, i nomi nuovi che nessuno conosceva, entrati negli obiettivi delle forze dell'ordine ma per cui al momento non esistono profili e curriculum di imprese criminali. È il segnale che una nuova generazione di antagonisti sta alzando la testa e aggiustando la mira: gente reclutata con un massiccio uso delle piattaforme online per attirare chi era idealmente disposto a saltare il fosso della protesta moderata verso quella dura & pura. Molti, nella vita precedente della lotta, erano più «cittadinisti» e cacciatori di consenso popolare, altra post-ideologia convinta che spetti ai cittadini autogovernarsi, concentrata su battaglie sociali e temi popolari come la lotta agli sfratti e agli sgomberi, che hanno trovato terreno fertile nel quartiere Aurora di Torino, un triangolo di storia e vecchie case fra la Dora e Porta Palazzo. Ma anche nel Cie di corso Brunelleschi, uno dei 13 centri aperti 2002 dalla Bossi-Fini, da anni epicentro di proteste, eletto a simbolo di una campagna ossessiva e martellante.
Si chiamano Giuseppe De Salvatore, 35 anni, Manuela Muriello, 33, Antonio Rizzo, 33, Silvia Ruggeri, 32, Lorenzo Salvato, 31, Carla Tubeuf, 32, Giada Volpacchio, 32. Accanto a loro, a testimonianza di un processo di internazionalizzazione della protesta violenta, spuntano altri nomi come quello di Toshi, nome d'arte di Toshiyuki Hosokawa, giapponese, figlio di un maestro di arti marziali, Cam, al secolo Camille Casteran, 28 anni, francese di Bordeaux, habitué della protesta già segnalata su vari fronti, e Fran, soprannome di Francesco Javier Tosina Esteban, 33 anni, spagnolo.
Di cosa sono capaci lo sanno dimostrando in questi giorni, quando nelle pieghe dell'inchiesta sui pacchi esplosivi, le forze dell'ordine hanno messo a segno un blitz per lo sgombero del centro sociale L'Asilo di via Alessandria 12, a Torino, una struttura da quasi un quarto di secolo requisita dagli antagonisti. Si scatena la guerriglia urbana e l'ex capitale subalpina sembra ripiombare negli anni peggiori della sua storia: devastazioni, autobus e vetture date alle fiamme, gente incappucciata per le strade, fumogeni, danni, rabbia. Come se il tempo fosse tornato indietro di colpo fino al 1998, l'anno del doppio suicidio di Sole e Baleno, i due anarchici coinvolti nell'indagine di Ros e Procura sui Lupi grigi.
Al termine dei disordini undici persone finiscono in manette, e la soddisfazione è palpabile: «Lo sgombero dell'Asilo è un'operazione esemplare sia dal punto di vista investigativo sia per l'ordine pubblico della città. Il gruppo esercitava un atteggiamento di controllo del territorio ed è spesso stato protagonista di proteste violente, di aggressioni alle forze dell'ordine, blocchi stradali e cortei improvvisati», commenta Franco Messina, il questore di Torino. Più lapidario ma ugualmente soddisfatto il vicepremier Matteo Salvini, che in un tweet manda i suoi saluti ai centri sociali a cui ha dichiarato guerra: «È finita la pacchia».
Qualche ora dopo arriva la doccia fredda, con la velocissima scarcerazione degli 11 decisa dal gip del tribunale di Torino, seguita subito dopo una rovente polemica a cui Paolo Borgna, il procuratore vicario di Torino, ha scelto di staccare la spina: «Commenti inaccettabili e affermazioni irrispettose nei confronti del lavoro del Tribunale».
Ma Torino, per quanto in materia di lotta armata non si sia mai fatta mancare nulla, non si può definire tout court la capitale italiana del braciere anarchico. È più un laboratorio transnazionale in grado di influenzare i movimenti di altre regioni come Umbria, Lazio, Campania, Sardegna e Sicilia. Perfino la lotta alla Tav è un esperimento di infiltrazione, per testare le capacità dello Stato di fronte all'aria di una rivolta partita spontaneamente dal basso, almeno nella prima fase, senza coperture politiche istituzionali.
Scendendo nel dettaglio, sono tre le anime anarchiche all'ombra della Mole: la Fai (federazione anarchica italiana) di corso Palermo, il gruppo storico dell'anarchismo italiano, che si identifica nei temi e nella guida di Umanità nova, settimanale fondato nel 1920 da Errico Malatesta, e sempre in prima linea nella lotta, Tav compresa. Una frangia dalla violenza moderata che raccoglie fra i 500 e le 1000 aderenti, con un'età media decisamente alta.
Quindi l'area anarcoinsurrezionalista che invece ha il suo ideologo nel trentino Massimo Passamani, 46 anni, (anche lui frequentatore della Val Susa No Tav), fra tutte la frangia più propensa a utilizzare azioni violente come strumento politico, pur cercando il consenso dell'area antagonista sulle battaglie popolari come gli sfratti, gli sgomberi, il caro vita e le complicità di varie aziende che usa l'arma della «repressione». È il gruppo che ha tenuto a battesimo i centri sociali torinesi, o meglio le «case occupate», fra cui L'Asilo e il Barocchio, spesso usati come struttura logistica e centri di accoglienza per attivisti dei movimenti europei e black bloc di passaggio in Piemonte. La succursale torinese ha un forte epicentro in Valsusa, dove ha sposato la lotta all'alta velocità.
Per finire con chi ha scelto la violenza su tutta la linea: la Fai/Fri, la federazione anarchica informale che ha in mente soltanto di colpire con armi ed esplosivi ogni espressione dello Stato. Nelle sue file ex terroristi rossi (con il fondato sospetto che alcuni arsenali mai ritrovati delle Br siano finiti a loro) e un nucleo di attivisti passati alla clandestinità, una cinquantina, di cui non si sa più nulla e che secondo una recente informativa dei servizi segreti avrebbero scelto come rifugio comunità anarchiche fra Grecia, Spagna e Irlanda, rappresentando l'Italia in una Internazionale anarchica a cui aderiscono anche gli animalisti di Alf e altre sigle. Su quelle orme, in Italia, ci sono il pescarese Alfredo Cospito e la torinese Anna Beniamino, due dei 23 anarchici attualmente sotto processo per Scripta manent, dal nome dell'operazione che raccoglie un'enorme quantità di documenti cartacei e digitali di diversi esponenti del Fai/Fri fra cui Cospito e Nicola Gai, il Nucleo Olga che nel 2012 ha gambizzato Roberto Adinolfi, manager dell'Ansaldo nucleare.
In tutto, contando i tre segmenti in cui si frammenta l'area anarchica piemontese, il numero di militanti-attivisti va compreso in una forbice fra le 3 e le 5.000 persone. Il numero in realtà sale e scende in base alle occasioni, agli obiettivi e alle manifestazioni di lotta. Un mix di umanità varia di età media, fra i 35 e i 45 anni: universitari, studiosi e professionisti, qualche avvocato e soprattutto insegnanti, la faccia più proletaria della società, mescolata con ex tossicodipendenti e immigrati clandestini, perché la marginalità - per una volta - è una ricchezza, non un aspetto negativo.
Ma non è solo lotta, sia chiaro: l'area anarchica produce anche cultura, inneggia alla musica techno estrema, al rap o trap, una volta al punk, e ama rispolverare ritmi etnici dell'Occitania o musiche celtiche, che mettevano in musica le rivolte medievali contro signori e preti. Una sorta di celebrazione pagana dell'agognata terra libera, il cui spirito ancora sopravvive nelle comunità anarchiche della Val Pellice e dell'Alta Val Susa, da Exilles a Chiomonte: non a caso dove c'è il cantiere pluriattaccato della Tav. Nulla si crea, semmai si distrugge.
Dal Lingotto ai lingotti: è curioso come ogni tanto il caso, il destino - o forse tutti e due insieme - riescano a ironizzare. Al Lingotto di Torino c'è il quartier generale di Eataly, la celebre creatura di Oscar Farinetti ormai diventata uno dei più efficaci veicoli di esportazione del made in Italy, mentre i lingotti sono quelli che hanno scatenato una massiccia operazione dei carabinieri di Torino in collaborazione con quelli di Cosenza, Milano e Vercelli.
Fra i due, Eataly Lingotto e in lingotti, sia chiaro, non c'è alcun tipo di legame, se non che l'Hamburgheria di Eataly ospitata all'outlet village di Settimo Torinese, costola in franchising della casa madre, risulta fra le società finite nelle maglie di un'inchiesta che ha portato all'arresto di cinque persone su 31 indagati.
Tutto inizia a fine gennaio durante un controllo finalizzato al traffico di stupefacenti in un deposito self storage di corso Giulio Cesare, estrema periferia di Torino: è la prima volta che l'attenzione punta verso magazzini in genere affittati a lungo termine e utilizzati per conservare mobili, attrezzature e materiali. In accordo con i responsabili, i militari effettuano dei controlli con i cani antidroga del nucleo cinofili di Volpiano ed è Jackye, un pastore tedesco, a fiutare un odore che segnala un box come sospetto. All'interno, i carabinieri scovano un tesoretto nascosto in numerosi borsoni: 75 lingotti d'oro, per un totale di circa 20 chili, e 675.000 euro in banconote di taglio diverso, opportunamente sigillate in buste termosaldate.
Poco dopo finisce agli arresti domiciliari l'intestatario del box, Giuseppe Soldano, 47 anni, imprenditore della ristorazione piuttosto conosciuto a Settimo Torinese ed ex presidente dell'associazione commercianti cittadina: colui che era riuscito a portare il primo marchio «Eataly» nella cittadina dell'hinterland torinese.
È l'inizio dell'operazione «Avatar» che in queste ore ha portato al sequestro di 79 conti correnti bancari, 25 fra carte Postepay e prepagate, 6 auto fuoriserie, 8 immobili, 75 lingotti d'oro e 29 società coinvolte, fra cui l'Hambugheria di Eataly di Settimo Torinese, per un giro d'affari valutato in 2,5 milioni di euro nel solo 2017. Un universo parallelo su cui splendeva il sole, creato attraverso una fitta rete di società fantasma specializzate in consulting finanziario e nel settore energetico, ovviamente intestate a nomi falsi, creata per truffare istituti bancari e lo Stato attraverso anticipi di fatture false, finanziamenti e la possibilità di attingere a fondi pubblici.
Su 31 indagati, oltre ai domiciliari per Soldano, sono quattro le persone al momento finite in manette: Elio Miegge, 59 anni; Luca Villata, 49; Simone Marietta, 40 e Luca Pifferi, di 50, tutti residenti nella prima cintura di Torino e fermati dai carabinieri poco prima di fuggire, si presume in Svizzera: in alcune intercettazioni si dicono «è tempo di acqua dolce».
A loro sono contestati, fra gli altri, i reati di riciclaggio, truffa, trasferimento fraudolento di valori, frodi fiscali e intestazioni fittizie di beni. Le indagini dovranno chiarire la provenienza e la destinazione del denaro e dei lingotti: il sospetto è che si tratti del frutto di furti e rapine.
Non è stato possibile contattare telefonicamente l'avvocato Gaetano de Perna del foro di Foggia, difensore delle quattro persone arrestate: è assente fino alla prossima settimana.
Poche ore dopo la conclusione dell'operazione, Eataly ha diffuso una nota in cui la società prende fermamente le distanze dal caso: «In merito all'inchiesta giudiziaria che ha coinvolto il signor Giuseppe Soldano, gestore del locale “Hamburgheria di Eataly" di Settimo Torinese, Eataly intende chiarire la sua totale estraneità alla vicenda. L'Hamburgheria di Settimo fa parte di una rete di locali in franchising alla quale Eataly ha concesso in licenza il proprio marchio. Abbiamo provveduto alla richiesta di immediata cessazione dell'utilizzo del marchio e all'interruzione di qualsivoglia legame di affiliazione commerciale tra il locale di Settimo Torinese e la rete di franchising. Naturale amarezza e contrarietà nel vedere l'associazione del marchio Eataly ad una vicenda che benché sia tuttora oggetto di indagini risulta gravemente lesiva dell'immagine aziendale. Eataly si riserva in ogni caso il diritto di intraprendere, nelle opportune sedi, tutte le azioni necessarie a proteggere la reputazione del marchio Eataly e dei soggetti ingiustamente coinvolti».




