«Se alcuni giudici vogliono governare si candidino»: Giorgia Meloni ha fatto pieno centro. Il vero tema, nello scontro che vede settori della magistratura contrapporsi alle decisioni dell’esecutivo, è infatti «chi risponde a chi?». I governanti rendono conto agli elettori; coloro che amministrano la giustizia, compiendo sempre più spesso scelte politiche, non rispondono a nessuno.
Nel nostro ordinamento in magistratura si entra per concorso. Il pm, cioè colui che fa le indagini e poi sostiene l’accusa in giudizio, è collega del giudice che decide; a causa di un patologico connubio creatosi tra il primo e i media, le ipotesi formulate all’inizio delle investigazioni assurgono così a sentenza di colpevolezza, ancor prima di approdare al vaglio del giudice.
Il governo sta portando avanti una riforma per separare le carriere delle due figure di magistrato. Ma basterà, qualora una volta approvata superasse il vaglio del referendum, a scongiurare le iniziative di pm quali, ad esempio, arrestare un presidente di Regione e subordinarne la liberazione alle sue dimissioni? Inquisire un ex ministro degli Interni per avere bloccato sbarchi di immigrati in coerenza con le determinazioni dell’allora governo? Indagare i vertici dell’attuale esecutivo per avere rimpatriato, in nome della ragione di Stato, un accusato di gravi crimini nel suo Paese?
Difficilmente la separazione delle carriere, contrastata dal sindacato della magistratura, impedirà il ripetersi degli eventi a cui stiamo assistendo; trattasi, beninteso, di una riforma sacrosanta - siamo l’unico Paese tra le democrazie occidentali ad avere accusatori e giudici che coabitano sotto lo stesso tetto - la quale tuttavia sconta due difetti strutturali e un limite culturale. I primi consistono, da un lato, nell’avere pensato un Csm per i pm che renderà costoro ancora più autoreferenziali di quanto lo siano già oggi, dall’altro nel non avere introdotto la discrezionalità dell’azione penale (che avrebbe allineato la Costituzione - la quale prevede oggi l’obbligatorietà - a quanto accade nella prassi delle indagini, dove il pm sceglie chi indagare, quando e come). Il secondo palesa mancanza di coraggio nell’iniziativa governativa, ovvero lasciare intatto l’assetto della magistratura, evitando di trasformare la figura del pm in quella conosciuta in altri ordinamenti nei quali l’accusatore, che esercita (come in Italia) un enorme potere discrezionale, ne rende conto o all’esecutivo (cioè al ministro della Giustizia, che riferisce poi al Parlamento sulle modalità con cui è coltivata l’azione penale), o all’elettorato. Proprio così: ci stiamo riferendo al pm elettivo. Un progetto non inedito, ipotizzato a suo tempo da Gianfranco Miglio, che avrebbe avuto il pregio di conferire piena trasparenza alle scelte inerenti all’esercizio della pubblica accusa, rendendo così indissolubile il rapporto tra discrezionalità dell’agire e responsabilità politica. In altre parole, l’essenza di una vera democrazia. Una configurazione tipica degli Usa, dove il procuratore distrettuale è inserito nella lineare logica dell’evoluzione della carriera politica: a fine mandato si presenta alla cittadinanza locale illustrando le ragioni per le quali ha perseguito certe tipologie di reati (e non altre), i risultati delle sue indagini in termini di successi processuali (condanne ottenute) e, su questa base, chiede i voti per essere eletto sindaco.
Per porre rimedio alla deriva del «governo dei giudici» ci si deve liberare, anzitutto, dall’orizzonte artificiale della magistratura intesa come corpo unico e indissolubile. Il pm non deve avere nulla a che spartire con chi pronuncia la sentenza; non essere più contiguo alla magistratura (che resterà solo quella giudicante); connotato come semplice parte nel processo, non più collega del giudice (a cui si rivolgerà con il «lei», come già ora fa con l’avvocato difensore), separato - anche dal punto di vista della collocazione fisica dell’ufficio - dalle sedi dei tribunali.
*Ordinario di procedura penale nell’università di Brescia
Ordinario di procedura penale nell’Università di Brescia
Ha dunque vinto l’assedio giudiziario. Un presidente di Regione, eletto dal popolo, costretto a dimettersi a causa di un’indagine penale, cioè di una pura ipotesi accusatoria.
Molti confidano che la riforma Nordio scongiurerà, con la separazione delle carriere della magistratura, il ripetersi di una così grave alterazione del rapporto tra il potere politico, espressione della volontà democratica, e l’ordine giudiziario, che a nessuno risponde. Il vero problema, spesso trascurato, concerne l’azione penale e chi la esercita, cioè il pubblico ministero. Se guardiamo agli assetti dei Paesi più evoluti, c’è da dubitare che le proposte del Guardasigilli saranno risolutive.
Il ministère public nasce in Francia; il suo ufficio è fortemente gerarchizzato, collocato sotto l’autorità del ministro della giustizia; ciò viene giustificato dal fatto che la politica penale è «della nazione», per la quale la Costituzione prevede il meccanismo della responsabilità parlamentare. Soluzione simile è quella belga. L’accusatore tedesco, ritagliato sul paradigma francese, gode di uno stato giuridico diverso dal giudice: è organizzato in una duplice struttura, in ossequio a un principio di sottoposizione gerarchica al potere esecutivo analogo a quello transalpino; Stato federale o Länder sono le autorità cui il funzionario che esercita l’accusa riporta (e la sua carriera dipende dal ministero).
In Spagna i pm hanno carriere separate dai giudici; sono organizzati gerarchicamente in una struttura al cui vertice si trova il procuratore generale dello Stato, nominato dal governo. In Inghilterra la pubblica accusa è demandata a una pluralità di organismi che hanno in comune la struttura gerarchica: rispondono al governo. Quanto all’esercizio dell’azione penale l’Italia, con il principio di obbligatorietà, si conferma essere un «caso». Perché?
La discrezionalità dell’azione penale connatura le scelte di Francia, Belgio, Inghilterra, Svizzera, Danimarca, parzialmente della Germania. In quasi tutti gli States nordamericani, il capo della pubblica accusa viene scelto con elezione diretta: un meccanismo che instaura un forte legame con la comunità locale; «morte e tasse sono le uniche certezze nella vita» e, nel solco di questo vecchio adagio, al termine del proprio mandato il rappresentante della Procura distrettuale si presenta agli elettori illustrando i successi ottenuti nella lotta al crimine: in altre parole, come sono stati impiegati i denari versati dai contribuenti nelle decisioni su quali delitti concentrare gli sforzi investigativi e quali risultati hanno prodotto tali opzioni. Chiedendo, poi, il voto per essere eletto sindaco della città. Dunque, negli Stati Uniti la posizione di public prosecutor è il trampolino di lancio per la carriera politica. Discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale e responsabilità politica del proprio operato connotano selezione e carriera del pubblico accusatore Usa.
In conclusione, l’unico sistema in cui il pm è formalmente obbligato a porre in essere l’azione penale ed è al contempo irresponsabile circa il suo operato, è quello italiano. Con un’aggravante. La Costituzione cartacea sancisce il principio di obbligatorietà, quella materiale attesta che l’azione penale è discrezionale. Il nostro pm sceglie contro chi e come utilizzare il suo temibile arsenale (intercettazioni, carcerazione preventiva); non risponde a nessuno dell’esercizio di questo immenso potere. Poco male se, dopo anni, una sentenza di assoluzione stabilirà che quella indagine non stava in piedi; vita, carriera e immagine dell’imputato erano già state distrutte; e laddove si trattasse di un politico con responsabilità di governo locali, la sua giunta fatta saltare.
Separare le carriere tra giudici e pm, creare due Csm distinti per gli uni e per gli altri, non sarà sufficiente - come vorrebbe la riforma Nordio - a sanare questa inaccettabile distorsione.
Occorre più coraggio da parte del legislatore. In tre direzioni. In primo luogo, introdurre la discrezionalità dell’azione penale, rimuovendone l’obbligatorietà. E chi esercita un potere discrezionale dovrà rendicontarne pur a qualcuno (corpo elettorale, oppure ministro della Giustizia, come in Francia).
In secondo luogo, il pm non deve avere nulla a che spartire con il giudice; seguendo gli esempi inglese e tedesco, egli deve essere inquadrato come un funzionario senza contiguità costituzionale con la magistratura (che resterà solo quella giudicante); privo di legami strutturali con essa; connotato, in termini di sociologia della professione, come semplice parte nel processo (non più collega, in quanto magistrato, del giudice, a cui si rivolgerà con il «lei», come già ora fa con l’avvocato difensore).
Infine, di conseguenza, venga espunto dal progetto di riforma Nordio il Csm per i pm; ad altri organi istituzionali costoro dovranno fare riferimento per carriera e responsabilità disciplinari.




