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2022-06-21
Tobruk 1942: l'ultima vittoria di Rommel
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Deserto nei pressi di Tobruk, 21 giugno 1942 (Getty Images)
Alla fine del 1941 le forze italo-tedesche erano state respinte dalla piazzaforte di Tobruk, segnando uno dei punti di maggior debolezza per il Regio esercito in guerra, in grave difficoltà anche sul fronte greco-albanese. Pochi mesi prima, nella primavera del 1941, dopo una disperata resistenza anche le colonie dell’Africa Orientale italiana erano cadute in mani britanniche. La Libia, colonia italiana dal 1912, pareva essere sul punto di cadere quando gli Inglesi del generale Claude Auchinleck sfondarono nel territorio della quarta sponda, aggiungendo così un tassello importante per il controllo del Mediterraneo. Caddero Bardia, Gollum, Halfaya e Tobruk. Alla fine dell’anno il fronte libico si assestò e gli Inglesi, logorati da mesi di combattimenti, si asserragliarono nelle roccaforti conquistate minando e fortificando la via di accesso verso Tobruk. I generali di Churchill commisero tuttavia un grave errore di sottovalutazione delle capacità del nemico di riorganizzarsi, cosa che fu portata a termine nei mesi successivi dalle divisioni di panzer guidate dalla volpe del deserto, il maresciallo Erwin Rommel. Per rendere ancora più dificoltosi gli approvvigionamenti britannici, la Luftwaffe intensificò le azioni nel Mediterraneo meridionale in concorso con la Regia Aeronautica, al fine di colpire con continui bombardamenti l’isola di Malta (che tuttavia resisterà) e le postazioni Inglesi in Libia. Per tale scopo i Tedeschi fecero largo impiego dei cacciabombardieri a tuffo Junkers Ju-87 «Stuka» e dei bimotori Ju-88. Gli Italiani usarono i biplani Fiat Cr-42 attrezzati per il medesimo scopo. Durante i mesi di assestamento Rommel rafforzò in modo significativo la 15 e la 21-Panzer Division con nuovi carri armati giunti dall’Algeria. Nel gennaio 1942, mentre il generale Auchinleck discuteva con Churchill sull'opportunità o meno di una imminente controffensiva, Rommel chiuse a tenaglia le difese britanniche attaccando di sorpresa da ovest e da sud. L’impatto fu devastante e nulla poterono la 4a Divisione indiana e alla 1a Divisione corazzata, costrette improvvisamente ad abbandonare il terreno conquistato pochi mesi prima e ad attestare il nuovo fronte sulla linea Ain-El-Gazala/Bir Hakeim, a soli 65 km. dalla fortezza Tobruk. Il 26 maggio 1942 la Deutsche Africa Korps sferrò l’offensiva, assieme al 20°Corpo d’Armata Italiano per un totale di circa 90 mila uomini con 556 carri armati, di cui 228 italiani tra M-14 e M-13. protetti da circa 500 velivoli che inflissero pesanti danni ai mezzi corazzati e alle batterie britanniche a terra.
Carro italiano M-14 in azione nei pressi di Bir-Hakeim (Getty Images)
All’offensiva dalla zona a sud di Ani Ben Gazala parteciparono assieme alla 15 e 21 Panzer le meccanizzate Ariete e la motorizzata Trieste. I piani strategici prevedevano l’aggiramento delle linee difensive britanniche con una manovra che avrebbe portato rapidamente a conquistare un tratto di costa a pochissima distanza da Tobruk. L’operazione Venedig (Venezia) ebbe esito inizialmente positivo, ad eccezione di forti difficoltà riscontrate dalla 15a Panzer Division che ebbe a che fare con i primi carri armati M-3 Grant di fabbricazione statunitense, che grazie al potentissimo cannone da 75mm. riuscivano a colpire i Tiger tedeschi da grande distanza, provocando seri danni alla formazione germanica. Proprio l’azione dei Grant vanificò l’esito di un’azione-lampo, costringendo Rommel a fermarsi anzitempo rimanendo esposto all’azione della Raf in un vasto campo minato ribattezzato «il calderone», dove i Panzer e i carri italiani subirono pesantissimi bombardamenti, tanto che in Gran Bretagna i giornali già iniziavano a parlare della imminente disfatta di Rommel e del suo alleato italiano, il generale Ettore Bastico. Un’altra volta fu un errore di valutazione delle forze in campo che spinse i comandi britannici a ritenere che fosse imminente la sconfitta per Rommel. L’operazione Aberdeen, lanciata nel calderone contro le forze italo-tedesche, non aveva calcolato la capacità strategica del generale che fu tra i fautori della disfatta di Caporetto ai danni di quelli che saranno poi i suoi alleati nel deserto. Rommel attaccò il 5 giugno 1942 uscendo in forze dal calderone e annientando in poche ore le forze dell' Armata britannica, che persero circa seimila uomini e numerosi mezzi. Gli italiani della Ariete e della Trento si trovavano invece in serie difficoltà dopo essere stati destinati alla conquista della roccaforte di Bir-Hakeim, che resisteva forte dei quasi quattromila soldati della Francia Libera e delle postazioni controcarro. dal cielo, sui blindati italiani, piovve fuoco dalle pance degli aerei della Desert Air Force. La situazione si sbloccò con l’arrivo in forze della 15 Panzer Division e degli aerei italo-tedeschi. L’avanzata inattesa delle forze corazzate dell’Asse tuttavia racchiudeva in sé alcune storture strategiche che costeranno care a Rommel e Bastico nei mesi successivi. I comandi supremi militari italiani e tedeschi, nelle figure del generale Ugo Cavallero e Albert Kesselring, non approvavano fino in fondo la strategia della volpe del deserto Rommel. Erano infatti preoccupati che l’impegno continuo in Cirenaica avrebbe potuto procrastinare o addirittura vanificare il colpo decisivo su Malta a causa della durata delle operazioni e dei suoi costi in termini di mezzi e uomini. Avrebbero preferito che la linea italo-tedesca si fosse assestata sulla linea Ain-el Gazala/Bir Hakeim. Ma Rommel, mostrando ancora un volta il proprio carattere caparbio e fuori dagli schemi, decise di proseguire nell’attacco alla città di Tobruk, la cui via di accesso, con la caduta di Bir Hakeim, era ormai aperta per i panzer. Tobruk, ormai isolata per il ripiegamento delle forze britanniche, fu investita da Rommel bramoso di controllarne il porto e le infrastrutture e mostrare al mondo la potenza dei carri armati dell’Afrika Korps. Assieme alla divisione Ariete, dotata di carri armati deboli ma di una ottima artiglieria semovente a cui si aggiunsero le forze fresche della Divisione Littorio, le forze dell’Asse cinsero d’assedio la capitale della Cirenaica difesa da un contingente sudafricano. L’assalto definitivo fu sferrato il 20 giugno 1942 e vide il concorso dei carri e dei cacciabombardieri a ondate continue. L’intenso fuoco di artiglieria tedesco creò la prima breccia dalla quale penetrarono i genieri e quindi le divisioni corazzate. Il porto fu bombardato da bombardieri italiani Cant z 1007bis e le postazioni difensive all’interno della cinta di Tobruk dagli Stukas e dai Bf 109 della Luftwaffe. La resa da parte del comandante della piazza di Tobruk, il sudafricano Klopper, avvenne poco fuori la città alle 9,30 del 21 giugno 1942. 33.000 britannici furono fatti prigionieri. Era il più grande trionfo dell’Asse in Nordafrica, anche se l’operazione che pesò sul morale degli Inglesi e dei loro alleati, non ebbe l’esito strategico sperato per le forze dell’Asse. La resistenza di Tobruk ottenne come contropartita il mancato inseguimento dei nemici passati oltre la frontiera parte dell’Afrika Korps, le cui schiere avranno nei mesi successivi la possibilità di riorganizzarsi e riarmarsi con mezzi molto più potenti. Lo sforzo per Tobruk inoltre permise all’isola fortificata di Malta di resistere più a lungo vanificando i progetti di sbarco elaborati dai comandi dell’Asse. L’appuntamento con la battaglia finale era soltanto questione di poco tempo, e si sarebbe sviluppato in tutta la sua drammaticità nello scontro definitivo ad El-Alamein.
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il 21 giugno le forze italo-tedesche riconquistavano la città occupata l'anno precedente dagli Inglesi, dando l'illusione di una vittoria totale. Prima dello scontro decisivo a El-Alamein.Alla fine del 1941 le forze italo-tedesche erano state respinte dalla piazzaforte di Tobruk, segnando uno dei punti di maggior debolezza per il Regio esercito in guerra, in grave difficoltà anche sul fronte greco-albanese. Pochi mesi prima, nella primavera del 1941, dopo una disperata resistenza anche le colonie dell’Africa Orientale italiana erano cadute in mani britanniche. La Libia, colonia italiana dal 1912, pareva essere sul punto di cadere quando gli Inglesi del generale Claude Auchinleck sfondarono nel territorio della quarta sponda, aggiungendo così un tassello importante per il controllo del Mediterraneo. Caddero Bardia, Gollum, Halfaya e Tobruk. Alla fine dell’anno il fronte libico si assestò e gli Inglesi, logorati da mesi di combattimenti, si asserragliarono nelle roccaforti conquistate minando e fortificando la via di accesso verso Tobruk. I generali di Churchill commisero tuttavia un grave errore di sottovalutazione delle capacità del nemico di riorganizzarsi, cosa che fu portata a termine nei mesi successivi dalle divisioni di panzer guidate dalla volpe del deserto, il maresciallo Erwin Rommel. Per rendere ancora più dificoltosi gli approvvigionamenti britannici, la Luftwaffe intensificò le azioni nel Mediterraneo meridionale in concorso con la Regia Aeronautica, al fine di colpire con continui bombardamenti l’isola di Malta (che tuttavia resisterà) e le postazioni Inglesi in Libia. Per tale scopo i Tedeschi fecero largo impiego dei cacciabombardieri a tuffo Junkers Ju-87 «Stuka» e dei bimotori Ju-88. Gli Italiani usarono i biplani Fiat Cr-42 attrezzati per il medesimo scopo. Durante i mesi di assestamento Rommel rafforzò in modo significativo la 15 e la 21-Panzer Division con nuovi carri armati giunti dall’Algeria. Nel gennaio 1942, mentre il generale Auchinleck discuteva con Churchill sull'opportunità o meno di una imminente controffensiva, Rommel chiuse a tenaglia le difese britanniche attaccando di sorpresa da ovest e da sud. L’impatto fu devastante e nulla poterono la 4a Divisione indiana e alla 1a Divisione corazzata, costrette improvvisamente ad abbandonare il terreno conquistato pochi mesi prima e ad attestare il nuovo fronte sulla linea Ain-El-Gazala/Bir Hakeim, a soli 65 km. dalla fortezza Tobruk. Il 26 maggio 1942 la Deutsche Africa Korps sferrò l’offensiva, assieme al 20°Corpo d’Armata Italiano per un totale di circa 90 mila uomini con 556 carri armati, di cui 228 italiani tra M-14 e M-13. protetti da circa 500 velivoli che inflissero pesanti danni ai mezzi corazzati e alle batterie britanniche a terra. Carro italiano M-14 in azione nei pressi di Bir-Hakeim (Getty Images)All’offensiva dalla zona a sud di Ani Ben Gazala parteciparono assieme alla 15 e 21 Panzer le meccanizzate Ariete e la motorizzata Trieste. I piani strategici prevedevano l’aggiramento delle linee difensive britanniche con una manovra che avrebbe portato rapidamente a conquistare un tratto di costa a pochissima distanza da Tobruk. L’operazione Venedig (Venezia) ebbe esito inizialmente positivo, ad eccezione di forti difficoltà riscontrate dalla 15a Panzer Division che ebbe a che fare con i primi carri armati M-3 Grant di fabbricazione statunitense, che grazie al potentissimo cannone da 75mm. riuscivano a colpire i Tiger tedeschi da grande distanza, provocando seri danni alla formazione germanica. Proprio l’azione dei Grant vanificò l’esito di un’azione-lampo, costringendo Rommel a fermarsi anzitempo rimanendo esposto all’azione della Raf in un vasto campo minato ribattezzato «il calderone», dove i Panzer e i carri italiani subirono pesantissimi bombardamenti, tanto che in Gran Bretagna i giornali già iniziavano a parlare della imminente disfatta di Rommel e del suo alleato italiano, il generale Ettore Bastico. Un’altra volta fu un errore di valutazione delle forze in campo che spinse i comandi britannici a ritenere che fosse imminente la sconfitta per Rommel. L’operazione Aberdeen, lanciata nel calderone contro le forze italo-tedesche, non aveva calcolato la capacità strategica del generale che fu tra i fautori della disfatta di Caporetto ai danni di quelli che saranno poi i suoi alleati nel deserto. Rommel attaccò il 5 giugno 1942 uscendo in forze dal calderone e annientando in poche ore le forze dell' Armata britannica, che persero circa seimila uomini e numerosi mezzi. Gli italiani della Ariete e della Trento si trovavano invece in serie difficoltà dopo essere stati destinati alla conquista della roccaforte di Bir-Hakeim, che resisteva forte dei quasi quattromila soldati della Francia Libera e delle postazioni controcarro. dal cielo, sui blindati italiani, piovve fuoco dalle pance degli aerei della Desert Air Force. La situazione si sbloccò con l’arrivo in forze della 15 Panzer Division e degli aerei italo-tedeschi. L’avanzata inattesa delle forze corazzate dell’Asse tuttavia racchiudeva in sé alcune storture strategiche che costeranno care a Rommel e Bastico nei mesi successivi. I comandi supremi militari italiani e tedeschi, nelle figure del generale Ugo Cavallero e Albert Kesselring, non approvavano fino in fondo la strategia della volpe del deserto Rommel. Erano infatti preoccupati che l’impegno continuo in Cirenaica avrebbe potuto procrastinare o addirittura vanificare il colpo decisivo su Malta a causa della durata delle operazioni e dei suoi costi in termini di mezzi e uomini. Avrebbero preferito che la linea italo-tedesca si fosse assestata sulla linea Ain-el Gazala/Bir Hakeim. Ma Rommel, mostrando ancora un volta il proprio carattere caparbio e fuori dagli schemi, decise di proseguire nell’attacco alla città di Tobruk, la cui via di accesso, con la caduta di Bir Hakeim, era ormai aperta per i panzer. Tobruk, ormai isolata per il ripiegamento delle forze britanniche, fu investita da Rommel bramoso di controllarne il porto e le infrastrutture e mostrare al mondo la potenza dei carri armati dell’Afrika Korps. Assieme alla divisione Ariete, dotata di carri armati deboli ma di una ottima artiglieria semovente a cui si aggiunsero le forze fresche della Divisione Littorio, le forze dell’Asse cinsero d’assedio la capitale della Cirenaica difesa da un contingente sudafricano. L’assalto definitivo fu sferrato il 20 giugno 1942 e vide il concorso dei carri e dei cacciabombardieri a ondate continue. L’intenso fuoco di artiglieria tedesco creò la prima breccia dalla quale penetrarono i genieri e quindi le divisioni corazzate. Il porto fu bombardato da bombardieri italiani Cant z 1007bis e le postazioni difensive all’interno della cinta di Tobruk dagli Stukas e dai Bf 109 della Luftwaffe. La resa da parte del comandante della piazza di Tobruk, il sudafricano Klopper, avvenne poco fuori la città alle 9,30 del 21 giugno 1942. 33.000 britannici furono fatti prigionieri. Era il più grande trionfo dell’Asse in Nordafrica, anche se l’operazione che pesò sul morale degli Inglesi e dei loro alleati, non ebbe l’esito strategico sperato per le forze dell’Asse. La resistenza di Tobruk ottenne come contropartita il mancato inseguimento dei nemici passati oltre la frontiera parte dell’Afrika Korps, le cui schiere avranno nei mesi successivi la possibilità di riorganizzarsi e riarmarsi con mezzi molto più potenti. Lo sforzo per Tobruk inoltre permise all’isola fortificata di Malta di resistere più a lungo vanificando i progetti di sbarco elaborati dai comandi dell’Asse. L’appuntamento con la battaglia finale era soltanto questione di poco tempo, e si sarebbe sviluppato in tutta la sua drammaticità nello scontro definitivo ad El-Alamein.
Sara Kelany
Funzionano i centri?
«Stanno cambiando cose. In meglio. Oggi sono Cpr ordinari. Il nostro obiettivo era ed è quello di renderli centri per l’espletamento delle procedure accelerate di frontiera. Sentenze ideologizzate di alcuni giudici italiani hanno incagliato la dinamica. Col pretesto dei Paesi sicuri. Sottolineo che nessuna delle ordinanze emesse ha trattato la posizione dei singoli migranti rispetto al loro diritto di ottenere protezione. Stabilivano che non è lo Stato che può individuare i Paesi sicuri. Ma può esserlo un giudice. Ritenevano che Egitto e Bangladesh non fossero Paesi sicuri».
Lo sono?
«Premesso che sono anche egiziana, ora in Europa la situazione si è finalmente ribaltata. Optando per accelerare sul Patto per la migrazione e l’asilo. Nel Consiglio dei ministri dell’Interno si è approvato un regolamento. Si è fatta una lista dei Paesi sicuri e, guarda caso, sono ricompresi Egitto e Bangladesh. L’Ue dà ragione alle politiche migratorie del governo Meloni, quindi quando entrerà in vigore questo regolamento i centri potranno ritornare pienamente in attività».
Tempistiche?
«Verosimilmente tra gennaio e febbraio il Parlamento Ue dovrà esprimersi. I regolamenti sono direttamente applicabili dagli Stati membri, non abbiamo bisogno di fare direttive di recepimento».
La parola remigrazione rimane un tema. E il 2023 rimane «annus horribilis» in termini di sbarchi.
«Uso più volentieri il termine “rimpatrio”. Il problema dei rimpatri è diffuso in tutta Europa. Abbiamo aumentato e stiamo aumentando del 100% l’anno i rimpatri forzosi. E abbiamo un grandissimo numero di rimpatri volontari assistiti con l’ausilio di Unhcr. Stanno alleggerendo di molto la posizione italiana. Con riferimento al 2023, i dati erano connessi a motivi esogeni. Il conflitto russo-ucraino, disordini e colpi di Stato nel Sahel, tensioni in Libia e Tunisia. Nel 2024, a seguito anche delle politiche di questo governo, che si basano sui controlli delle frontiere, sulla lotta ai trafficanti e sulla esternalizzazione della gestione dei flussi migratori irregolari in partnership coi Paesi terzi, segnatamente Albania, abbiamo registrato un meno 57% di sbarchi sul territorio nazionale. Sulla base di questi dati l’Europa ha guardato con occhi completamente diversi all’Italia e infatti si sta spostando sulle nostre politiche. Governi anche di estrazione diametralmente opposta a quella italiana ci prendono ad esempio. Vedi la Danimarca. Non parliamo di Ue ma di Europa. La Gran Bretagna è laburista. Starmer è venuto in Italia a chiedere alla Meloni: “Come hai fatto?”».
Come spiegarsi il rapporto speciale che c’è fra Italia e Albania?
«Si fonda su due basi. L’autorevolezza del nostro presidente del Consiglio e la personale empatia tra i due presidenti. Il presidente Rama è un socialista ma indipendentemente dall’estrazione politica, quando un premier è autorevole agli occhi del mondo, non può cambiare un rapporto con lo Stato solo e unicamente perché si viaggia su linee politiche differenti».
Zelensky è andato a Londra e ha incontrato Macron, Starmer e Merz. Dopodiché è venuto a Roma. Quei tre non sono stati in grado di dargli delle garanzie e lui è venuto a chiederle a Giorgia Meloni?
«Per l’Ucraina l’Italia è un partner fondamentale nella risoluzione del conflitto. Siamo sempre stati al suo fianco. Siamo sempre stati convinti che difendere l’Ucraina fosse una questione anche di principio, per la difesa di principi democratici europei. Kyev è vittima di un’orrida guerra di aggressione da parte della Russia. L’Italia, oltre ad avere questo tipo di approccio nei confronti dell’Ucraina, è anche una delle nazioni con il miglior rapporto gli Stati Uniti. Non ci dobbiamo dimenticare che gli Usa sono fondamentali affinché si arrivi a una risoluzione. Ed è ineliminabile l'apporto di Donald Trump in questa faccenda, così come lo è stato e lo sarà nelle questioni mediorientali. Giorgia Meloni è il leader, tra questi che mi hai menzionato, più forte e più stabile in Europa. Macron, Starmer e Merz sono più deboli. La loro debolezza interna si riflette anche in politica estera».
Il documento pubblicato sul sito della Casa Bianca è motivo di imbarazzo o di orgoglio per voi?
«Non è né motivo di imbarazzo né motivo di orgoglio. È una fotografia. Naturalmente la grammatica politica degli Stati Uniti non è la nostra. Noi non possiamo guardare la politica statunitense con i nostri occhi. Non siamo abituati ai loro toni. Ciò non significa che noi non dobbiamo continuare a conservare un rapporto privilegiato. Saldamente ancorato all’Occidente. Perché io mi chiedo e chiedo alle sinistre italiane: l’alternativa qual è? La Cina? Noi non vogliamo avere come alternativa la Cina. Finché ci saremo noi al governo».
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Elly Schlein e Stefano Bonaccini (Ansa)
L’assemblea dem non incorona Schlein come candidata premier Gori si fa portavoce dei riformisti: «Il Green deal va ripensato».
Suggerimento, gratis, per i talk televisivi: si sottopongano Elly Schlein e i dirigenti del Pd, tipo l’economista Francesco Boccia, al test della michetta. Ieri la segretaria che sperava di cambiare lo statuto – tentativo fallito – per farsi incoronare candidata unica alla presidenza del Consiglio e che sta tentando di rinviare il congresso (cade a marzo 2027 e se per caso lo perdesse non riuscirebbe neppure ad avvicinarsi a Palazzo Chigi), se n’è uscita con una battuta alimentare: «Meloni festeggia l’Unesco, ma il frigo degli italiani è sempre più vuoto, la sua calcolatrice è rotta: vada nei supermercati e guardi quanto sono aumentati i prezzi». Chissà se Elly Schlein sa quanto costa il pane al chilo e un etto di mandorle. Lei è vegetariana e chiederle del prosciutto sarebbe indelicato.
L’assemblea del Pd, convocata ieri a Roma in concomitanza con Atreju per non lasciare troppo spazio a Giorgia Meloni, ha ricordato, se ancora ce ne fosse bisogno, che per i dem vale tutto. Ma soprattutto ha lasciato in sospeso le polemiche interne: congelate perché si doveva tentare di offuscare la comunicazione Fdi. La Schlein ha evitato qualsiasi voto e qualsiasi argomento divisivo. Ha fatto un po’ di propaganda e nulla più. Così vale che Stefano Bonaccini, dopo averne dette di ogni contro la segretaria annunci che la sua corrente Energia popolare rientra in maggioranza e porti solidarietà ai giornalisti del gruppo Gedi così come l’hanno data alle vittime ebree di Bondi Beach. A Repubblica e alla Stampa al massimo cambiano padrone, in Australia gli amici di Hamas, non così distanti dai pro Pal e da Francesca Albanese a cui i sindaci Pd consegnano le chiavi delle città, hanno ammazzato. Ma è brutto dirlo nel giorno in cui Elly Schlein s’ingegna a sfidare Giorgia Meloni su tutto. «Anche tanti di coloro che hanno votato per questa destra capiscono che non ha fatto nulla per la crescita; Arianna Meloni ci ha detto che loro priorità sono il premierato e la legge elettorale perché hanno paura di perdere». La Schlein si sente già al governo e annuncia: «Metteremo 3 miliardi in più sulla sanità, faremo il salario minimo a 9 euro, abbatteremo il prezzo dell’energia scollegandolo da quello del gas». Il fatto è che per battere «queste destre che delegittimano l’Onu, il diritto internazionale e facendo i vassalli non difendono l’interesse nazionale» ci vogliono i voti. Elly Schlein azzarda: «I voti assoluti della nostra coalizione e di quella del governo sono sostanzialmente pari ma siamo il primo partito con i voti reali, non nei sondaggi, nei voti veri». A essersi rotta deve essere la sua calcolatrice, non quella della Meloni.
Comunque la prospettiva – anche se Giuseppe Conte proprio da Atreju le ha fatto sapere che i 5 stelle non sono alleati col Pd – è «confrontiamoci anche aspramente, ma costruiamo l’alternativa: è tempo che l’Italia ricominci a sognare e a sperare». Così da gennaio lei parte per un tour programmatico. Doveva andare in giro a parlare del Pd, ma meglio dare addosso alla Meoni che fare i conti con i suoi. Che ieri hanno disertato la direzione nazionale che ha solo votato la relazione della segretaria (225 voti a favore e 36 astenuti) per evitare di palesare le fratture che invece ci sono. L’ala dura dei riformisti ha scelto di rinviare il confronto salvo Giorgio Gori, eurodeputato ex sindaco di Bergamo che all’assemblea ha scandito: «Il Pd ha perso la fiducia, sia della maggioranza degli operai, ma anche degli imprenditori. La sinistra è considerata lontana dal mondo dell’impresa. Serve il riformismo concreto e coraggioso di cui parla Prodi. Il Green deal fatica a tenere insieme obiettivi ambientali e tutele sociali, dobbiamo avere il coraggio di dirlo e promuovere un nuovo e diverso Green deal», ha concluso Gori, «proporre un patto fra istituzioni, imprese e lavoro. La destra porta il Paese al declino, il Pd può presentarsi e vincere le elezioni come partito della crescita e della redistribuzione». La Schlein per ora si occupa dei supermercati, la grande distribuzione.
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 15 dicembre con Flaminia Camilletti
Meloni ha poi lanciato un altro attacco all’opposizione a proposito di Abu Mazen, presidente della Palestina: «La sua bella presenza qui ad Atreju fa giustizia delle accuse vergognose di complicità in genocidio che una sinistra imbarazzante ci ha rivolto per mesi». E ancora contro la sinistra: «La buona notizia è che ogni volta che loro parlano male di qualcosa va benissimo. Cioè parlano male di Atreju ed è l’edizione migliore di sempre, parlano male del governo, il governo sale nei sondaggi, hanno tentato di boicottare una casa editrice, è diventata famosissima. Cioè si portano da soli una sfiga che manco quando capita la carta della Pagoda al Mercante in fiera, visto che siamo in clima natalizio. E allora grazie a tutti quelli che hanno fatto le macumbe». L’altra stilettata ironica a proposito del premio dell’Unesco che riconosce la cucina italiana come bene immateriale dell’umanità: «A sinistra non è andato bene manco questo. Loro non sono riusciti a gioire per un riconoscimento che non è al governo ma alle nostre mamme e nonne, alle nostre filiere, alla nostra tradizione, alla nostra identità. Hanno rosicato così tanto che è una settimana che mangiano tutti dal kebabbaro. Veramente roba da matti». Ricordando l’unità della coalizione, Meloni ha sottolineato che questa destra «non è un incidente della storia» rivendicando le iniziative adottate in tre anni di esecutivo. Il premier ha poi toccato i temi di attualità e a proposito dell’equità fiscale rivendicata dall’opposizione ha scandito: «Non accettiamo lezioni da chi fa il comunista con il ceto medio e il turbo capitalista a favore dei potenti. Oggi il Pd si indigna perché gli Elkann vogliono vendere il gruppo Gedi e non ci sarebbero garanzie per i lavoratori però quando chiudevano gli stabilimenti di Stellantis ed erano gli operai a perdere il posto di lavoro, tutti muti. Anche Landini sul tema fischiettava». Non sono mancati i riferimenti ai temi caldi del centrodestra: immigrazione, riforma della giustizia, guerra in Ucraina ed Ue con il disimpegno di Trump e il Green Deal.
Sul palco anche i due vicepremier. «La mia non vuole essere solo una presenza formale, ma una presenza per riconfermare un impegno che tutti noi abbiamo preso nel 1994» ha detto il leader di Fi Antonio Tajani. «Ma gli accordi di alleanze fatte soprattutto di lealtà e impegno, devono essere rinnovati ogni giorno. La ragione di esistere di questa coalizione è fare l’interesse di ciascuno dei 60 milioni di cittadini italiani. E lo possiamo fare garantendo, grazie all’unità di questa coalizione, stabilità politica a questo Paese». Per il leader leghista Matteo Salvini “c’è innanzitutto l’orgoglio di esserci dopo tanti anni. Ci provano in tutti i modi a far litigare me e Giorgia. Ma amici giornalisti, mettetevi l’anima in pace: non ci riuscirete mai». Poi il ministro dei Trasporti ha assicurato che farà «di tutto» per avviare i lavori per il Ponte sullo Stretto, ha rilanciato sull’innalzamento del tetto del contante e sull’impegno anti maranza e infine ricordato come il governo stia facendo un buon lavoro nella tassazione delle banche.
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