Il suo libro continua a vendere e intanto ha creato scompiglio a sinistra e pure a destra. Con lui parliamo degli attacchi che ha subito e dei suoi progetti per il futuro.
Il suo libro continua a vendere e intanto ha creato scompiglio a sinistra e pure a destra. Con lui parliamo degli attacchi che ha subito e dei suoi progetti per il futuro.
Enoch Burke (Getty Images)
Continua la battaglia di Enoch Burke, che rimarrà in un carcere popolato da stupratori pure a Natale. Maltrattato dalla Corte: «È una presenza maligna e minacciosa, un intruso che perseguita la scuola».
Il giudice Brian Cregan ha deciso che Enoch Burke resterà in carcere fino a quando non avrà fatto ammenda, non si sarà mostrato pentito di avere offeso la Corte e non la smetterà di presentarsi nella sua ex scuola, l’istituto che lo ha cacciato ormai nel 2022. Burke è ancora in carcere e potrebbe dunque restarvi fino a Natale. Si trova nella prigione irlandese di Mountjoy, popolata per lo più da stupratori e persino da un killer, passa il tempo a leggere la Bibbia e partecipa in collegamento alle udienze che lo riguardano. Alle stesse udienze non possono invece partecipare i suoi famigliari, che martedì sono stati allontanati dall’aula dallo stesso Cregan. Martedì il tribunale ha discusso l’ennesimo ricorso di Burke, rispedendolo al mittente. E il giudice Cregan non ha usato parole dolci, anzi. A suo dire, Burke «non è in carcere per le sue opinioni sul transgenderismo, che ha pienamente diritto di avere». È detenuto, aggiunge Cregan, per aver offeso l’Alta Corte e per essere entrato più volte nella sua ex scuola.
«Non si limita a violare i locali», ha detto Cregan, «ma entra direttamente nel cuore della scuola, aggirandosi per i corridoi anche quando non ne ha il diritto. È una presenza maligna e minacciosa, un intruso che perseguita la scuola, i suoi insegnanti e i suoi alunni. Ma questa è una strategia deliberata: una strategia di confronto. Confrontarsi con il preside, confrontarsi con il vescovo, confrontarsi con la scuola, confrontarsi con le guardie di sicurezza; confrontarsi con i tribunali». Secondo il giudice, l’insegnante irlandese è in cerca di celebrità, ha addirittura qualcosa da nascondere sulle sue entrate, mente ed è pericoloso.
Probabilmente una affermazione è vera: quella di Enoch Burke è una strategia deliberata, utile a far discutere del suo caso. Una vicenda che ha dell’incredibile e avviene in Europa nel silenzio pressoché totale dei nostri media. Burke è stato sospeso dalla Wilson’s Hospital School nell’Irlanda centrale nell’agosto 2022 perché si è rifiutato di usare i pronomi richiesti da uno studente transgender. L’insegnante ha rifiutato di scusarsi, così la scuola lo ha licenziato e ha ottenuto un’ingiunzione del tribunale che gli impediva di entrare nell’edificio. Che si possa perdere il posto di lavoro perché ci si rifiuta di usare un pronome è decisamente assurdo, oltre che lievemente autoritario. Ma in Europa cose del genere non suscitano scandalo.
Ci si preoccupa e ci si indigna molto, anche in Italia, per la sorte di Géza Buzás-Hábel, attivista omosessuale rom fra gli organizzatori del gay pride svoltosi il 4 ottobre a Pecs, in Ungheria. Géza ha deliberatamente violato la legge ungherese che proibisce le parate dell’orgoglio, e per questo motivo rischia un anno di carcere. Ed è comprensibile che si ritenga ingiusto che qualcuno, nel Vecchio continente, possa rischiare il carcere per avere messo in piedi una manifestazione. Purtroppo la stessa enfasi non è posta sul caso di Burke. Anzi, nei suoi riguardi si scrive di tutto allo scopo di denigrarlo, di farlo passare come un pazzo che si ostina a violare la legge. E non ci si scandalizza se lo portano in tribunale con una catena che pare un guinzaglio, né per questo lo si candida alle elezioni.
A dirla tutta, le cose stanno in po’ diversamente da come vengono di solito raccontate. È vero, nonostante il divieto l’insegnante irlandese ha continuato a presentarsi nella sua ex scuola. Per questo motivo è stato incarcerato per la prima volta per oltraggio alla corte nel settembre 2022, dato che aveva ignorato l’ordinanza del tribunale. Altre tre incarcerazioni sono seguite, l’ultima di recente. Dal 2024, poi, Enoch viene condannato a pagare 700 euro ogni volta che si presenta a scuola. Ad ora deve allo Stato irlandese circa 225.000 euro.
La sua, con tutta evidenza, è una protesta politica e umanitaria. Una incredibile e caparbia dimostrazione di tenacia nella lotta contro il politicamente corretto fattosi regime che lo ha costretto a perdere il lavoro, lo stipendio e i diritti. Presentandosi davanti alla Wilson’s School lo scorso agosto, Burke ha dichiarato: «Ecco dove dovrei essere oggi. Non solo devo stare in corridoio e non posso insegnare e fare il mio dovere, ma mi stanno anche togliendo lo stipendio. Vengo ancora pagato, ho qui in tasca la mia busta paga, sono ancora in busta paga. Questo è il mio stipendio, questo è ciò a cui ho diritto, ogni centesimo viene dirottato dal mio conto a causa del Procuratore generale di questo governo».
In realtà, a differenza di ciò che afferma il giudice che continua a rimandarlo in prigione, Burke è punito per le sue idee. Se viola le ordinanze del tribunale è per disobbedienza civile nei riguardi di chi lo ha messo alla gogna proprio in virtù delle sue posizioni sul tema trans. Se Burke manifestasse per una causa diversa magari opposta, sarebbe trattato da eroe. Ma è soltanto un cristiano un po’ conservatore, e sappiamo come vanno queste cose. Come del resto accade anche in Italia, la libertà di pensiero vale soltanto per i pochi eletti, per i presunti buoni, non per gli altri. Burke resta in carcere, l’Europa liberale per lui non ha tempo: deve occuparsi di altri attivisti.
Continua a leggere
Riduci
Il maestro Riccardo Muti si rivolge alla politica perché trovi una via per far tornare a Firenze i resti del genio toscano.
iStock
Il provvedimento di Canberra può apparire estremo e potrà anche essere eluso: ma da qualche parte bisogna cominciare. Gli Stati non possono arrendersi di fronte agli aspetti più invasivi della tecnica. L’Ue, che ama i divieti, segua l’esempio.
Ci voleva la remota Australia, coi suoi koala, i suoi canguri e i laburisti al governo, a insegnarci un po’ di buona educazione, anche con maniere rudi. Vietare l’uso dei social ai ragazzi sotto i sedici anni è una piccola, grande rivoluzione, o una controrivoluzione, fate voi. Comunque un ritorno alla realtà, alla vita, al senso del limite e all’umanità. E non importa che a farlo sia un governo «di sinistra».
La reazione di tanti è però ambigua, come è nella natura degli italiani, scaltri e navigati, e di chi ha uso di mondo. Bello in via di principio ma in pratica come si fa? Tecnicamente si può davvero lasciare loro lo smartphone ma col «parental control» che inibisce alcuni social, o ci saranno sotterfugi, scappatoie, nasceranno simil-social selvatici e dunque ancora più pericolosi, e saremo punto e daccapo? Giusto il provvedimento, bravi gli australiani ma come li tieni poi i ragazzi e le loro reazioni? E se poi scappa il suicidio, l’atto disperato, o il parricidio, il matricidio, del ragazzo imbestialito e privato del suo super-Io in display; se i ragazzi che sono fragili vengono traumatizzati dal divieto, i governi, le autorità non cominceranno a fare retromarcia, a inventarsi improbabili soluzioni graduali, a cominciare coi primi distinguo che poi vanificano il provvedimento? E poi, botta finale: è facile concepire queste norme restrittive quando non si hanno ragazzini in casa, o pretendere di educare gli educatori quando si è ben lontani da quelle gabbie feroci che sono le aule scolastiche! Provate a mettervi nei nostri panni prima di fare i Catoni da remoto!
Avete ragione su tutto, ma alla fine se volete tentare di guidare un po’ il futuro, se volete aiutare davvero i ragazzi, se volete dare e non solo subire la direzione del mondo, dovete provare a non assecondarli, a non rifugiarvi dietro il comodo fatalismo dei processi irreversibili, e dunque il fatalismo dei sì, perché sono assai più facili dei no. Ma qualcosa bisogna fare per impedire l’istupidimento in tenera età e in via di formazione degli uomini di domani. Abbiamo una responsabilità civile e sociale, morale e culturale, abbiamo dei doveri, non possiamo rassegnarci al feticcio del fatto compiuto. Abbiamo criticato per anni il pigro conformismo delle società arcaiche che ripetevano i luoghi comuni e le pratiche di vita semplicemente perché «si è fatto sempre così». E ora dovremmo adottare il conformismo altrettanto pigro, e spesso nocivo, delle società moderne e postmoderne con la scusa che «lo fanno tutti oggi, e non si può tornare indietro». Di questa decisione australiana io condivido lo spirito e la legge; ho solo un’inevitabile allergia per i divieti, ma in questi casi va superata, e un’altrettanto comprensibile diffidenza sull’efficacia e la durata del provvedimento, perché anche in Australia, perfino in Australia, si troveranno alla fine i modi per aggirare il divieto o per sostituire gli accessi con altri. Figuratevi da noi, a Furbilandia. Ma sono due perplessità ineliminabili che non rendono vano il provvedimento che resta invece necessario; semmai andrebbe solo perfezionato.
Il problema è la dipendenza dai social, e la trasformazione degli accessi in eccessi: troppe ore sui social, e questo vale anche per gli adulti e per i vecchi, un po’ come già succedeva con la televisione sempre accesa ma con un grado virale di attenzione e di interattività che rende lo smartphone più nocivo del già noto istupidimento da overdose televisiva.
Si perde la realtà, la vita vera, le relazioni e le amicizie, le esperienze della vita, l’esercizio dell’intelligenza applicata ai fatti e ai rapporti umani, si sterilizzano i sentimenti, si favorisce l’allergia alle letture e alle altre forme socio-culturali. È un mondo piccolo, assai più piccolo di quello descritto così vivacemente da Giovannino Guareschi, che era però pieno di umanità, di natura, di forti passioni e di un rapporto duro e verace con la vita, senza mediazioni e fughe; ma anche con il Padreterno e con i misteri della fede. Quel mondo iscatolato in una teca di vetro di nove per sedici centimetri è davvero piccolo anche se ha l’apparenza di portarti in giro per il mondo, e in tutti i tempi. Sono ipnotizzati dallo Strumento, che diventa il tabernacolo e la fonte di ogni luce e di ogni sapere, di ogni relazione e di ogni rivelazione; bisogna spezzare l’incantesimo, bisogna riprendere a vivere e bisogna saper farne a meno, per alcune ore del giorno.
La stupida Europa che bandisce culti, culture e coltivazioni per imporre norme, algoritmi ed espianti, dovrebbe per una volta esercitarsi in una direttiva veramente educativa: impegnarsi a far passare la legge australiana anche da noi, magari più circostanziata e contestualizzata. L’Europa può farlo, perché non risponde a nessun demos sovrano, a nessuna elezione; i governi nazionali temono troppo l’impopolarità, le opposizioni e la ritorsione dei ragazzi e dei loro famigliari in loro soccorso o perché li preferiscono ipnotizzati sul video così non richiedono attenzioni e premure e non fanno danni. Invece bisogna pur giocare la partita con la tecnologia, favorendo ciò che giova e scoraggiando ciò che nuoce, con occhio limpido e mente lucida, senza terrore e senza euforia.
Mi auguro anzi che qualcuno in grado di mutare i destini dei popoli, possa concepire una visione strategica complessiva in cui saper dosare in via preliminare libertà e limiti, benefici e sacrifici, piaceri e doveri, che poi ciascuno strada facendo gestirà per conto suo. E se qualcuno dirà che questo è un compito da Stato etico, risponderemo che l’assenza di limiti e di interesse per il bene comune, rende gli Stati inutili o dannosi, perché al servizio dei guastatori e dei peggiori o vigliaccamente neutri rispetto a ciò che fa bene e ciò che fa male. È difficile trovare un punto di equilibrio tra diritti e doveri, tra libertà e responsabilità, ma se gli Stati si arrendono a priori, si rivelano solo inutili e ingombranti carcasse. Per evitare lo Stato etico fondano lo Stato ebete, facile preda dei peggiori.
Continua a leggere
Riduci
Ecco #DimmiLaVerità dell'11 dicembre 2025. Con il nostro Fabio Amendolara commentiamo gli ultimi sviluppi del caso Garlasco.





