Competitività, Foti: «L'Ue non deve descrivere i suoi problemi ma risolverli»
2025-12-10
I nodi dell'Ue
Il grilletto della pistola del fisco è rimasto lì, ballerino. Forse inceppato dalle troppe polemiche che hanno frenato in questi mesi il presidente del Consiglio Mario Draghi, ma comunque puntato dal ministro dell'Economia Daniele Franco e pronto a sparare.
A svelarlo in modo sicuramente non voluto è, come capita in questi casi, un piccolo errore, di quelli che fanno inciampare. E che dimostra al contrario di tutte le dichiarazioni e rassicurazioni come la riforma del catasto con quell'adeguamento delle rendite previsto dalla delega fiscale avesse in sé l'obiettivo di fare cassa con il mattone dei cittadini. Certo, tutti hanno negato e rassicurato.
E dopo che l'intero centrodestra era insorto in commissione chiedendo chiarimenti al premier il ministro dell'Economia ha voluto scrivere nel documento sulle riforme allegato al Def 2022 che effettivamente la riforma prevede «nuovi strumenti atti a facilitare l'individuazione e il corretto classamento degli immobili non censiti e l’integrazione delle informazioni attualmente presenti nel catasto dei fabbricati».
Ma anche che «le nuove informazioni rilevate hanno obiettivi di trasparenza ma non dovranno essere utilizzate per la determinazione della base imponibile dei tributi e non saranno utilizzate, comunque, per finalità fiscali». Solo che il ministro Franco all'Unione europea ha inviato anche un corposo allegato di tabelle e di infografica per segnalare la marcia inarrestabile delle riforme italiane che la commissione di Bruxelles da anni reclamava. E siccome la richiesta era quella di riformare il catasto proprio per aumentare il prelievo fiscale sugli immobili, ne è restata traccia indelebile e inequivoca.
Il titolo del cronoprogramma della riforma fiscale che contiene la riforma del catasto a pagina 52 del primo allegato del Def è: «Spostare la pressione fiscale dal lavoro, in particolare riducendo le agevolazioni fiscali e riformando i valori catastali non aggiornati». Non ci vuole un interprete per capire, anche perché è il cuore di una tesi sostenuta da molti economisti fin dall'epoca del governo di Mario Monti: la migliore riforma fiscale possibile è quella che sposta parte della tassazione dalle persone fisiche alle cose.
La si proponeva anche a destra, immaginando di sostituire parte dell'Irpef con aumenti selezionati di aliquote Iva che dessero analogo incasso. Ma a sinistra il refrain era proprio quello: abbassare le tasse sul lavoro (il cuneo fiscale), compensandolo con la tassazione sui patrimoni, in primis gli immobili. Un chiodo fisso, che si specchia proprio nel titolo di questa parte di allegato al Def. Ed è proprio il capitolo che contiene la contesta revisione delle rendite catastali.
Il cronoprogramma di Franco la identifica come misura numero 3 dove è citato lo stato di avanzamento dei lavori previsti dalla delega fiscale, sostenendo che tutto il pacchetto di revisione del valore catastale «è finalizzato a razionalizzare e ad assicurare una gestione omogenea dei database dell'Amministrazione finanziaria sugli immobili, anche al fine di identificare correttamente le unità immobiliari, la base fiscale e gli intestatari».
Anche qui il riferimento alla «base fiscale» mette in crisi la retorica dell'esecutivo sulla neutralità dell'aggiornamento dei valori. Quel diavoletto tassatore ha lasciato le sue impronte indelebili nelle promesse che il governo italiano ha fatto all'Europa. Ma rischia di creare qualche problema nell'aula che ancora deve approvare quella delega sul catasto...
Lo ha detto il Ministro per gli Affari europei in un’intervista margine degli Ecr Study Days a Roma.
Un autogol di quelli più divertenti e nello stesso tempo più pesanti, un gollonzo in piena regola: la partita del Mondiale che avrebbe dovuto celebrare l’orgoglio Lgbtq+ sarà… Egitto-Iran. Ben gli sta, e scusate la franchezza. L’idea che i Mondiali debbano celebrare un pride game per omaggiare l’omosessualità (nel senso più largo del termine, comprendendo perciò anche le politiche contro omofobia e quant’altro) è la solita forzatura retorica dove per certi temi sono previste corsie preferenziali. Tra l’altro i temi «pride» sono sempre gli stessi e - guarda caso - coincidono con fasce di consumatori big spender. Insomma i pride Lgbtq+ sono un business ed è per questo che conviene a tutti inserirli nelle manifestazioni.
Ed è quel che ha pensato il gran capo della Fifa, l’imbarazzante Infantino, dopo aver intestato a Trump un neonato riconoscimento Fifa. Solo che stavolta lo show diventa un caso diplomatico e rischia di diventare imbarazzante e difficile da gestire perché, come dicevamo, la partita celebrativa dell’orgoglio Lgbtq+ sarà Egitto contro Iran, due Paesi dove gay, lesbiche e trans finiscono in carcere o addirittura condannate a morte.
Ora, delle due l’una: o censuri chi non si adegua a certe regole oppure imporre le proprie regole diventa ingerenza negli affari altrui. E non si può. Com’è noto il match del 26 giugno a Seattle, una delle città in cui la cultura Lgbtq+ è più radicata, era stata scelto da tempo come pride match, visto che si giocherà di venerdì, alle porte del nel weekend dell’orgoglio gay. Diciamo che la sorte ha deciso di farsi beffa di Infantino e del politically correct. Infatti le due nazioni hanno immediatamente protestato: che c’entriamo noi con queste convenzioni occidentali? Del resto la protesta ha un senso: se nessuno boicotta gli Stati dove l’omosessualità è reato, perché poi dovrebbero partecipare ad un rito occidentale? Per loro la scelta è «inappropriata e politicamente connotata». Così Iran ed Egitto hanno presentato un’obiezione formale, tant’è che Mehdi Taj, presidente della Federcalcio iraniana, ha spiegato la posizione del governo iraniano e della sua federazione: «Sia noi che l’Egitto abbiamo protestato. È stata una decisione irragionevole che sembrava favorire un gruppo particolare. Affronteremo sicuramente la questione». Se le Federcalcio di Iran ed Egitto non hanno intenzione di cedere a una pressione internazionale che ingerisce negli affari interni, nemmeno la Fifa ha intenzione di fare marcia indietro. Secondo Eric Wahl, membro del Pride match advisory committee, «La partita Egitto-Iran a Seattle in giugno capita proprio come pride match, e credo che sia un bene, in realtà. Persone Lgbtq+ esistono ovunque. Qui a Seattle tutti sono liberi di essere se stessi». Certo, lì a Seattle sarà così ma il rischio che la Fifa non considera è quello di esporre gli atleti egiziani e soprattutto iraniani a ritorsioni interne. Andremo al Var? Meglio di no, perché altrimenti dovremmo rivedere certi errori macroscopici su altri diritti dei quali nessun pride si era occupato organizzando partite ad hoc. Per esempio sui diritti dei lavoratori; eppure non pochi operai nei cantieri degli stadi ci hanno lasciato le penne. Ma evidentemente la fretta di rispettare i tempi di consegna fa chiudere entrambi gli occhi. Oppure degli operai non importa nulla. E qui tutto il mondo è Paese.
È donna e, benché nata in una famiglia modesta, è riuscita ad affermarsi come una delle tenniste più vincente di sempre, portandosi a casa 64 prove del Grande Slam: 24 in singolare, 19 in doppio e 21 in doppio misto. Avrebbe insomma tutte le carte in regola - tanto più in tempi in cui l’empowerment femminile attira tanta attenzione culturale e mediatica - per essere indicata a modello delle giovani di tutto il mondo, l’australiana Margaret Court. Eppure la leggendaria campionessa, che oggi ha 83 anni, ai giorni nostri è come dimenticata; di più: è evitata quasi come la peste. Tanto che, quando Oliver Brown del Telegraph ha scelto di dialogarci nei giorni scorsi, lei era quasi incredula: «Sei il primo giornalista ad intervistarmi in questo modo da anni. Gli australiani preferirebbero che il mio nome sparisse». Curiosamente, perfino il mondo del tennis sembra averla rimossa.
Il francese Patrick Mouratoglou, allenatore di Serena Williams, ha liquidato i suoi 24 titoli dello Slam come appartenenti a un’«era diversa», con il tennis ancora amatoriale fino al 1968 e meno giocatori internazionali disposti a viaggiare. Che la Court godesse però pure di molti meno privilegi rispetto alle atlete odierno, appoggiandosi ad alberghi ad una stella e non avendo certo un team di massaggiatori e psicologi, a quanto pare, conta nulla. Il pensiero di Mouratoglou non deve essere solo il suo, dato che la leggendaria tennista non è stata più invitata né al Roland Garros né agli Us Open - tornei che ha vinto cinque volte ciascuno - negli ultimi 15 anni. «Per qualunque altro campione di pedigree simile, un trattamento così sprezzante sarebbe impensabile», osserva Brown. Ed è vero.
Ma come mai Margaret Court è così dimenticata, snobbata, perfino evitata quasi avesse la peste? La sua non più verde età non basta certo a spiegare un simile atteggiamento. Che, come ben sottolinea il Telegraph, ha una radice ben precisa: la sua contrarietà alle rivendicazioni Lgbt - in primo luogo alle nozze gay. Era difatti l’anno 2013 quando l’ex tennista, a proposito del figlio della tennista australiana Casey Dellacqua e della sua compagna Amanda Judd, commentò: «Mi rattrista vedere che questo bambino è apparentemente privato di un padre». Non l’avesse mai detto. Attorno alla vincitrice di 64 Slam s’è creato il gelo. E la cosa è peggiorata quattro anni dopo, quando ha annunciato il boicottaggio di Qantas Airways Limited, la compagnia di bandiera australiana, per via del suo sostegno alla causa arcobaleno. La tennista - diventata, dopo il ritiro, pastore d’una congregazione - ha confidato a Brown anche la sua preoccupazione per l’educazione oggi data ai giovani: «I valori cristiani sono stati eliminati dalle scuole. Alcuni bambini non sanno nemmeno più se sono maschi o femmine. E questo è ciò che mi turba, perché guardo alla mia vita e da giovane ero un maschiaccio».
Quest’indole non ha però mai instillato nella Court nessun dubbio circa la sua identità sessuale: «Giocavo a football e a cricket, e battevo tutti i ragazzi. Ma sapevo comunque che i miei due fratelli erano diversi da me. Ora ci sono bambine che dicono: “Mi sento un ragazzo”». Forte, per questo motivo, la contrarietà della donna alle terapie ormonali sui ragazzi affetti da disforia di genere: «Restano intrappolati nei loro corpi e non possono tornare indietro. Cosa stiamo facendo ai nostri giovani?». Margaret Court è trattata come una reietta in patria così come anche nel mondo dello sport, probabilmente, pure per il suo punto di vista sull’Islam, che ricorda quello di Oriana Fallaci: «Ci sono moschee ovunque in Inghilterra. Pensiamo di non avere nulla di cui preoccuparci? Dobbiamo intervenire presto». Un peccato non sia più ascoltata, una che nonostante l’età è ancora capace di simili colpi di racchetta.
