Dopo la caduta di Bashar al-Assad e l’ascesa di Ahmad al-Sharaa, lo Stato Islamico riemerge dalle rovine della Siria. Nelle province orientali, tra Deir Ezzour e l’Eufrate, i jihadisti tornano a colpire approfittando del vuoto di potere e del caos politico.
In Siria, lo Stato Islamico è tornato a farsi sentire. Non più come califfato territoriale, ma come un’insurrezione mobile e frammentata, capace di muoversi tra le pieghe di un Paese in disgregazione. La caduta del regime di Bashar al-Assad, deposto da Ahmad al-Sharaa-Abu Mohammad al Jolani, e la graduale ritirata americana hanno aperto nuovi spazi che i jihadisti stanno riempiendo con rapidità sorprendente. Lo confermano ufficiali curdi e comandanti statunitensi ancora presenti nell’area, sempre più preoccupati dal ritmo crescente degli attacchi.
Negli ultimi mesi il gruppo ha saccheggiato arsenali militari abbandonati dopo la fuga delle forze lealiste e dei loro alleati iraniani. Non controlla più territori vasti, ma impone una sensazione diffusa di instabilità che mina la fragile autorità del nuovo governo. Secondo i dati delle Forze Democratiche Siriane (SDF), fino alla fine di agosto i miliziani hanno condotto 117 azioni armate nel nord-est, quasi il doppio rispetto al 2024. Alcuni attentati sarebbero stati pianificati persino contro Damasco, a oltre 400 chilometri dalle roccaforti orientali.
La provincia di Deir Ezzour, un deserto grande quasi all’intero Centro Italia messo insieme, se si considerano le aree desertiche e scarsamente popolate che la caratterizzano, è tornata a essere il cuore dell’insurrezione. Qui vivono la maggior parte dei tremila combattenti stimati ancora attivi nel Paese. Viaggiare tra le città dell’area significa attraversare un territorio dove la paura è tornata a essere moneta corrente. Il gruppo colpisce funzionari locali, estorce denaro, semina panico. «Il ritiro americano sta ispirando Daesh», spiega Goran Tel Tamir, comandante delle SDF. «Stiamo vedendo un aumento degli attacchi e un peggioramento del morale della popolazione».
Un convoglio del Wall Street Journal ha seguito Tel Tamir lungo la strada che porta a Hajin, un tempo roccaforte dello Stato Islamico. Vetri in frantumi, case sventrate e sguardi ostili: mentre i veicoli curdi attraversano la città, uomini e ragazzi osservano con rancore dalle vetrine. Le donne, avvolte nel niqab nero, scompaiono al passaggio delle pattuglie. Dalle rovine dell’Iraq del 2003 alla Siria della Primavera Araba, la parabola dello Stato Islamico sembra non avere fine. Dopo aver proclamato il califfato nel 2014 e dominato milioni di persone, è stato sconfitto militarmente nel 2019 con la battaglia di Baghuz ( Siria), ma non distrutto. I superstiti si sono rifugiati tra le tribù sunnite di Deir Ezzour, mischiandosi ai civili e ricostruendo lentamente una rete clandestina. Oggi i combattenti si muovono in piccoli gruppi di quattro o cinque uomini. Usano motociclette, ordigni artigianali e imboscate. Molti non portano più divise né le note bandiere nere. Sono cittadini siriani, conoscono ogni villaggio e parlano i dialetti locali: invisibili, e per questo più pericolosi.
La riduzione delle truppe americane – circa cinquecento soldati in meno da aprile – ha lasciato vaste aree senza copertura. Il Pentagono, per bocca del portavoce Sean Parnell, parla di «riduzioni dovute al successo operativo», ma sul terreno il vuoto si sente. I rapporti interni del comando USA ammettono che le cellule jihadiste stanno approfittando della fragilità politica e della corruzione per radicarsi nuovamente. Le SDF, costrette a pattugliare migliaia di chilometri di deserto e a sorvegliare i campi dove restano rinchiusi quasi cinquantamila ex combattenti e familiari del califfato, sono ormai allo stremo. «Siamo pochi e isolati», ammette Tel Tamir. «Ogni giorno perdiamo uomini. E la gente ha paura di denunciare».
Tra i caduti di quest’anno figura Khabat Shaydi, comandante del consiglio militare di Hajin. A marzo il suo convoglio è finito in un’imboscata: i miliziani hanno gridato «Allahu akbar» e lanciato granate da un gruppo di case. Due soldati sono morti, lui è rimasto ferito. Più tardi, una voce familiare lo ha chiamato al telefono: «Infedele, la prossima volta ti uccideremo». Era un membro della sua stessa tribù, gli Al-Shaitat, massacrata dallo Stato Islamico nel 2014.
Nelle città del medio Eufrate il copione si ripete: intimidazioni, estorsioni, vendette personali. Muhammad Al Bou Herdan, imprenditore petrolifero, racconta di essere stato costretto a pagare mille dollari di zakat ai miliziani. Quando ha rifiutato di pagare una seconda volta, la sua raffineria è stata attaccata. «Mi osservavano in silenzio», dice. «Conoscevano tutto di me, anche dove vivevano i miei figli». L’attacco lo ha costretto alla fuga. Oggi vive nascosto ad Hajin, armato e scortato dai cugini. Le SDF confermano decine di casi simili. Il califfato, pur privo di uno Stato, continua a imporre la sua legge nell’ombra, alimentando un’economia sotterranea fatta di paura, riscatti e religione. Sebbene le SDF controllino gran parte del nord-est della Siria, le loro truppe sono ridotte al minimo. Oltre a pattugliare il territorio, sono responsabili della sorveglianza di campi e prigioni che ospitano quasi 50.000 ex combattenti dello Stato Islamico, insieme alle loro mogli e figli. Le SDF hanno chiesto ai paesi stranieri di rimpatriare i loro cittadini, ma la maggior parte non l'ha fatto. Mentre il nuovo governo di Ahmad al-Sharaa tenta di consolidarsi a Damasco, la Siria orientale resta una terra senza pace. Gli americani riducono la presenza, i curdi resistono a fatica e i jihadisti tornano a seminare morte nel silenzio del deserto. L’ombra nera del califfato, mai davvero svanita, torna a stendersi sulla Mezzaluna fertile.




