Da Nord a Sud, dessert nostrani deliziano le Feste della tradizione dolce natale italiano
Non esiste una festività che raduni attorno a sé tanti dolci quanto il Natale. Quello più famoso, che potremmo definire l'assoluto imprescindibile natalizio nazionale e svetta su tutte le numerosissime peculiarità dolciarie locali dello Stivale, è certamente il panettone. Profumata torre con cupola di delizioso e morbido impasto puntinato di tocchetti di frutta candita e zibibbo, il panettone è originario di Milano e diventa usanza nazionale negli anni Cinquanta, quando la produzione industriale lo riversa nella Grande distribuzione. Le sue origini non sono sicure, sono varie le leggende, ma tutte hanno in comune questa sorta di Fonzie della panificazione dolce di nome Toni. Secondo alcuni lo inventò Messer Ulivo degli Atellani, un falconiere della Contrada delle Grazie che, innamorato della figlia del fornaio Toni, iniziò a lavorare per quest'ultimo e inventò il pane dolce. Il «pan del Toni» ebbe un enorme successo, come l'innamoramento di Ulivo che, infine, riuscì anche a sposare, ricambiato, l'amata. Secondo altri, il cuoco di Ludovico il Moro dimenticò nel forno il dolce che aveva preparato per il pranzo di Natale, pieno di importanti ospiti. Per una versione, lo sguattero Toni gli propose di utilizzare un dolce che aveva preparato lui. Il cuoco accettò e quando il Moro volle sapere come si chiamava quel pane dolce squisito, spiegò che era «il pan del Toni». Per un'altra versione, invece, il cuoco servì il suo pane con la crosta molto brunita, seguendo il consiglio del solito Toni di dire che la superficie marroncina fosse voluta - Toni genio del pane e del «male» - e gli ospiti si leccarono i baffi, al solito osannando il «pan del Toni». Col tempo si affermò il sostantivo «panettone» (panaton, panatton, panetton e panetùn in lombardo). Il panettone vive addirittura oltre il Natale. Il 3 febbraio a Milano si festeggia san Biagio: pasticceri e fornai offrono a prezzo scontato i cosiddetti panettoni di San Biagio, cioè quelli rimasti invenduti. La tradizione dello sconto si rifà a quella di conservare una fetta di panettone da Natale fino al giorno di San Biagio, per mangiarla a digiuno con scopo propiziatorio contro il mal di gola. C'è anche il detto, «San Bias el benediss la gola e el nas» («San Biagio benedice la gola e il naso»). Se la diffusione del panettone industriale è stata per molto tempo la ragione dell'ombra in cui sempre più versava il panettone artigianale di pasticceri e fornai, con la rinascita del food di qualità anche il panettone in versione artigianale, nonché gourmet, è tornato in auge. Naturalmente, ogni artigiano del panettone opta a sua discrezione per la ricetta ortodossa oppure per la variazione (c'è chi invece di canditi e uvetta usa noci e cioccolato, chi frutta candita sì, ma esotica, chi interviene sull'impasto utilizzando varianti anche audaci della farina di grano o aggiunte che caratterizzano il sapore, dal vino rosso allo zafferano). Il mangiatore di panettone oggi si trova di fronte a un'offerta che per il noto Toni sarebbe stata impensabile. Il pandoro è anch'esso un classico natalizio, una sorta di fratello minore del panettone che con esso costituisce l'accoppiata vincente dei megapani dolci da mangiare a fette, ma nel gusto di molti sono scambievoli: o l'uno o l'altro. In passato, le varianti del panettone senza canditi, senza uvetta, senza entrambi, semplicemente non esistevano. Chi non amava il panettone, poteva affidarsi solo al pandoro, così virginalmente privo di altro oltre alla sua pasta. Ora la cucina è talmente piena di varianti che sono infinite anche le versioni non ortodosse di pandoro, arricchite, com'è per il panettone, con mille tipi di farciture e anche glassature. Ciò rende il confine tra i due sempre più labile, per quanto l'impasto di base e di conseguenza la consistenza della pasta dei due dolci siano diverse. Tornando alla tradizione, il pandoro non ha ripieni, né glassa. È un pane alto come il panettone, a forma di stella ad otto punte, si spolvera di zucchero vanigliato ed è delizioso servito appena appena riscaldato - vale anche per il panettone. Il pandoro che conosciamo oggi deriva dal “pan de oro", un pane dolce veronese mangiato durante le feste natalizie quasi un millennio fa insieme al nadalin. Fu Domenico Melegatti dell'omonima industria dolciaria di Verona a depositare all'ufficio brevetti, nell'ottobre del 1894, la ricetta del pandoro come lo conosciamo oggi. Ma molti veneti ora gli preferiscono il nadalin, pane dolce meno burroso, più basso e compatto, perché ancora legato soltanto alla città di Verona e non assurto a dolce nazionale come il pandoro.
Scesi dal trono dei re e della regina ufficiali del dolce natalizio, panettone e pandoro, troviamo una schiera di dolci al limite del mappabile. Caramelle (i bastoncini di zucchero rossi e bianchi), torte, dolcetti, biscotti, torroni: a Natale, forse anche perché il freddo raggiunge un picco che durerà tutto gennaio e la luminosità delle giornate è ancora ridotta, è come se l'uomo facesse scorta di dolcezza per oltrepassare questo periodo non proprio agevole dal punto di vista fisico. E la bellezza di questo fiorire di ogni tipo di dolciume, come mai negli altri giorni dell'anno, è resa ancora più interessante dal fatto che ogni dolce è identitario di un solo pezzo d'Italia: locale, non nazionale. In Friuli, nelle Valli del Natisone e nella provincia udinese, è un gran classico natalizio la squisita torta chiamata gubana. Il detto «Plen come une gubane» («Pieno come una gubana») lascia intendere quanto sia importante la farcia di questo rotolo di pasta lievitata dolce ripieno e strettamente acciambellato su sé stesso come un guscio di lumaca: noci, uvetta, pinoli, zucchero, grappa (siamo in Friuli), scorza grattugiata di limone. Cugina di putizza (dalla forma a ciambella), presnitz (a forma di ferro di cavallo) e strudel (forma lineare), la grande famiglia dei dolci arrotolati e ripieni del nord Italia ed Europa, la gubana non ha niente da invidiare al panettone. Altro delizioso pane dolce di Natale è lo zelten del Trentino Alto Adige. Nel bel piccolo tomo I piatti delle feste. Sapori e ricette della tradizione per festeggiare a tavola da Carnevale a Natale, le autrici Simona Recanatini e Sonia Sassi spiegano: «Immancabile in Alto Adige nel periodo natalizio, lo zelten è un dolce conviviale di origine mitteleuropea. In passato ogni famiglia preparava il proprio Weihnachtszeltern e dalla ricchezza degli ingredienti e delle decorazioni si poteva intuire il livello di benessere di chi lo aveva realizzato». Sembra che il nome derivi dal lemma tedesco selten che vuol dire raramente, in riferimento all'occasione festiva e non quotidiana della preparazione del dolce che riempie un impasto di farina, miele (o zucchero), acqua e lievito di birra (c'è chi ci aggiunge anche le uova, chi no) di frutta secca e candita, tipicamente disponibili in questo periodo. Il pane dolce - se notate - è il paradigma del dolce di Natale. È un pane arricchito, una versione festosa della pagnotta salata che già di per sé si ricollega al corpo di Cristo e che, durante la celebrazione della nascita di quel Cristo, si addobba e arricchisce di colore e sapore. Pur con tutte le sue varianti, spesso legate ai prodotti consuetudinari in quello specifico territorio, la formula del pane dolce di Natale che svolge il ruolo di torta che la famiglia raccolta in festa condivide sulla tavola, è quasi sempre la stessa. Pasta da pane a lenta lievitazione, addolcita e riempita di frutta secca e candita. Così è anche il pandolce genovese, chiamato anche - appunto - panettone genovese e conosciuto anche oltre confine col nome di Genoa cake. Tradizionalmente alto, con l'avvento del lievito chimico istantaneo si è affermata anche una versione bassa. Altri pani dolci natalizi sono il panforte di Siena, che in origine veniva chiamato anche ufficialmente «pane natalizio»: la preparazione era compito dell'Arte dei Medici e Speziali di Siena. Ricco anche di spezie, allora costosissime, ne erano destinatari nobili e ricchi. Ricoperto di pepe nero, si dicotomizza con la versione bianca nel 1879, quando in occasione della visita della regina Margherita alla città venne preparato senza concia di melone, nella frutta candita di farcitura, e spolverizzato di zucchero. Era il panforte bianco o Margherita: ancor oggi a Siena il panforte può essere nero oppure bianco. Il pangiallo di Roma, anche chiamato pangiall'oro, ha origine durante l'età imperiale dell'antica Roma: durante la festa del solstizio d'inverno questi pani, fatti di miele, farina e frutta secca, venivano ricoperti da una pastella d'uovo a imitazione del colore del sole per evocarne il ritorno con la primavera e l'estate. Notevole è il parrozzo di Pescara. O meglio, di Gabriele D'Annunzio, infatti è anche chiamato Parrozzo dannunziano. Ispirandosi al Pane rozzo, una pagnotta sapida dei contadini, il pasticcere Luigi D'Amico inventò questo dolce semisferico di farina di semola (si fa anche con il semolino) ricoperto di cioccolato. Per l'inaugurazione del suo locale, Ritrovo del parrozzo, molto vicino alla casa pescarese del Vate, scrisse a D'Annunzio domandandogli di aprire l'Albo d'Oro degli ospiti (che gli mandò) per l'inaugurazione: «Spero non mi troverete troppo pretenzioso se amassi aver Voi Comandante ne la prima pagina. Dopo di Voi ho già da tempo una lusinghiera fotografia di S.E. Mussolini con dedica; appresso verranno tutte le prime personalità d'Italia». Il 21 luglio 1927 D'Annunzio ci scrisse: «“Colui che ha abitazione in cielo, è visitatore e adiutore di quello luoco" dice l'Antico. “Colui che abitazione ha nel ritrovo del parrozzo, è visitatore e perdutissimo goditore di quello parrozzo" dico io Gabriele d'Annunzio», firmandosi Gabriele d'Annunzio parrozzàno. Il poeta era davvero un parrozzano. Scrisse anche dei versi, che cominciano così: «È tante 'bbone stu parrozze nove». Va detto che «tante 'bbone» è davvero ogni pane dolce di Natale. Una variante particolare per la forma composta sono gli struffoli di Napoli, uno squisito dolce strutturato (a cupola o a ciambella) da dadini di impasto fritti e mescolati a miele e frutta candita - la ricetta era su La Verità del 19 novembre. Ugualmente gustoso è il buccellato siciliano, un pane a ciambella fatto di pasta frolla ripiena di frutta secca e canditi golosamente decorato con frutta candita in fette che ricorda le decorazioni di pietre preziose delle corone regali. Immancabile il pane di sapa sardo. La sapa è mosto di uva cotto e conferisce al pan'e saba (del quale l'isola è piena di varianti locali e personali, a Berchidda e dintorni, per esempio, il pan'e saba diventa pan'e s'abbamele perché si sostituisce la sapa con l'idromele) un sapore particolare, insieme coi pinoli, le mandorle, le noci e i chiodi di garofano, e un bellissimo colore marrone violaceo. E voi, che pane dolce di Natale mangerete stasera e domani?
«Il Me too? Due pezzi grossi della politica ci provarono con me. Ma basta dire di no»
«Quest'anno il Natale mi ha già stufato». Un'uscita controcorrente, che certo non ti aspetti dalla rassicurante Rita Dalla Chiesa, storico e popolare volto televisivo che sul contegno cortese ha ricamato la sua vita professionale e familiare. «A Roma c'erano le luminarie già a ottobre, ormai il Natale è diventato una follia collettiva. Gente che sfreccia in auto per l'ultimo regalo, tutti più arroganti che nel resto dell'anno». Insomma, stiamo smarrendo il senso di questa festa? «Sarà banale dirlo, ma sì: non bisogna rinunciare agli sfizi, ma per me il senso del Natale resta il presepe, il bambino nella mangiatoia e quel piccolo momento di preghiera, in solitudine, la sera della vigilia. Ma a Roma, purtroppo, i problemi li abbiamo tutto l'anno».
Quali problemi?
«L'altro giorno esco di casa e mi si presenta davanti un topo enorme. Sono animalista convinta, ma fino a un certo punto. D'altronde qui svuotano i cassonetti ogni quattro giorni e queste bestie arrivano. La bolletta della spazzatura invece non tarda mai».
Ma Roma con questi problemi ha sempre convissuto. O no?
«No, mi creda. Vivo qua dal 1976 e non ho mai visto una gestione del genere. Sulle strade, sai quando parti e non sai quando arrivi. Le radici degli alberi hanno sollevato il manto stradale e rischi di inciamparci sopra. Ci sono interi quartieri senza illuminazione, e hai paura a metterci piede. Vogliono mobilitare l'esercito per le buche nell'asfalto. No, non è normale».
Lei ha votato il sindaco Virginia Raggi?
«No. E non ne faccio una questione di partiti, ma di persone. A Roma di simpatizzanti 5 stelle ne incontro tanti, alcuni di grandissima levatura mentale e morale. Forse per il Comune hanno scelto le persone sbagliate».
Il governo sta lavorando bene?
«Sento parlare di tante cose di cui sinceramente capisco poco. Credo che le priorità per gli italiani siano due: la sicurezza e le tasse eccessive. La sicurezza è un'emergenza vera: persino io, che vivo in un buon quartiere, sto pensando di acquistare lo spray urticante, quello antiaggressione. Invece le tasse stanno causando tragedie: conosco tanti imprenditori che devono scegliere se pagare le imposte o i propri operai».
Apprezza il premier Giuseppe Conte?
«Non è un uomo di potere. Sicuramente è una persona perbene, ma spesso non basta: per fare politica bisogna anche avere pelo sullo stomaco e sporcarsi le mani. Anche facendo cose impopolari, se occorre».
Oggi quale politico stima di più?
«Affettivamente sono rimasta molto legata a Silvio Berlusconi, che ho conosciuto ben prima dell'avventura politica. Nessuno potrà mai togliergli un merito: quello d'aver creato un impero con le sue forze, dando a tante persone la possibilità di lavorare».
Oggi lo frequenta ancora?
«L'ultima volta l'ho sentito qualche mese fa. Uno scambio di pura cortesia, sempre con grande rispetto. Pensi che ci diamo ancora del lei, e ancora oggi non possiedo il suo numero di cellulare».
E gli altri?
«Apprezzo Giorgia Meloni, grintosissima, non si ferma davanti a niente. Mentre Matteo Salvini è un uomo che, quando non deraglia, ha i titoli per diventare un punto di riferimento carismatico. Gli italiani sentono un gran bisogno di certezze».
Da pochi giorni lei ha una certezza in più: è stata appena restituita la scorta a protezione del Capitano Ultimo, che contribuì, tra le altre cose, ad arrestare Totò Riina.
«È stata una mia battaglia personale, sono felicissima. Sono uomini costretti a vivere nell'anonimato, che sacrificano tutto per un intimo principio di legalità. Se diamo la scorta a Roberto Saviano, possiamo forse non garantirla al Capitano Ultimo?».
La scorta gli era stata sottratta il 3 settembre, giorno dell'anniversario dell'omicidio di suo padre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Come interpreta questo gesto?
«Un segnale volgarmente immorale. E non credo sia stata una coincidenza, ma una scelta consapevole. Non so, è una delle mie sensazioni di pancia che raramente mi tradiscono. Ultimo, del resto, era molto vicino a mio padre».
La mafia non è più così potente?
«Al contrario. Molti pensano che morto Riina, la mafia abbia abbandonato il campo. Sbagliato: è ancora lì. Lo dimostra l'ultima operazione guidata a Palermo dal colonnello Antonio Di Stasio. La cupola è ancora solida».
Siamo distratti da altre priorità?
«Fa comodo parlarne meno, ma gli atteggiamenti mafiosi si moltiplicano. Prendiamo la storia delle sorelle Napoli a Mezzojuso: stanno resistendo alla malavita che voleva mettere le mani sull'azienda agricola lasciata dal padre. Quelle donne hanno il volto della Sicilia perbene, e la gente gli ha tolto il saluto. Perché lo Stato non le difende?».
Che rapporto aveva con suo padre?
«Abbiamo passato tutta la vita, diciamo così, in allarme rosso. Prima con la paura delle Brigate Rosse, e poi della mafia. Abbiamo vissuto a Palermo in due momenti diversi: quando comandava la legione dei Carabinieri erano anni bellissimi, godevamo ancora di una certa libertà».
Poi nel 1982, da prefetto, la guerra a Cosa Nostra.
«Il clima cambiò all'improvviso. La strage della Circonvallazione, le lettere anonime. Mi veniva a trovare a casa, spesso in maniera furtiva. Poi rilasciò quell'ultima intervista a Giorgio Bocca: “La mafia colpisce chi è solo". Negli ultimi giorni era totalmente isolato. Non gli rispondevano più neanche al telefono».
Al funerale c'erano assenze importanti.
«Non c'era Giulio Andreotti. Quell'assenza per me ha rappresentato un affronto enorme. Non c'è mai stato un chiarimento, ho fatto in modo di non incontrarlo. Ricordo sulla bara una corona di fiori inviata della Regione Sicilia, che con mio padre non c'entrava niente. La tolsi di mezzo, e chiesi a un capitano dei carabinieri di recuperare i suoi oggetti più preziosi: il berretto, il tricolore e la sciabola di papà».
Da figlia, ci sono stati momenti perduti?
«Mio padre non ci ha mai fatto mancare la sua presenza, o anche solo la sua voce. Telefonava ogni sera a tutti e tre i fratelli. Ci è sempre stato vicino, soprattutto dopo la morte di nostra madre. Ed è stato anche un grande nonno: mi spiace che alcuni nipoti non abbia potuto conoscerli».
L'ultima volta che vi siete sentiti?
«Mi ha telefonato in redazione, lavoravo a Gioia. Frasi semplici, come stai. Mi fece gli auguri per l'esame di giornalista che stavo preparando. E che purtroppo ho dovuto rimandare».
Si possono perdonare gli assassini?
«No, non perdonerò mai».
Quest'anno, in particolare, non è stato facile per lei. La scomparsa di Fabrizio Frizzi ha commosso tutta Italia.
«Sono stati mesi pesanti, come fossi stata picchiata sul ring. Mi hanno messo all'angolo, ma non mi sono piegata. Anche se, con il passare degli anni, ogni colpo alla tua serenità fa più male. Avverti una solitudine diversa, che devi esorcizzare cercando di farti forza e stando il più possibile in mezzo alla gente».
Del resto è stata una persona fondamentale nella sua vita.
«Lo conoscevo da 36 anni. Era un marito, un amico, un confidente, il secondo papà di mia figlia Giulia. A volte su tante cose che mi incuriosiscono mi chiedo: cosa penserebbe Fabrizio? Avrei bisogno di confrontarmi con lui anche oggi. E con il cuore, dentro di me, ci parlo ancora. Così come parlo ancora con i miei genitori».
Un personaggio come lei, così amato dal pubblico televisivo, cosa ama guardare alla tv?
«Documentari, i viaggi, musica, sono una vera canzonettara. Sullo schermo mi fa paura la volgarità, la finzione urlata. Se vedo due politici che litigano, d'istinto cambio canale. Considero la televisione comunque un'espressione culturale: si può essere popolari conservando l'educazione».
È molto attiva anche sui social network. Ci sono effetti collaterali?
«Se usati male, soprattutto sui giovani, possono diffondere valori sbagliati. E oggi molti genitori scivolano nel lassismo. Piuttosto che vedere i ragazzi abbandonati davanti al telefonino, preferisco quando scendevano in piazza, magari un po' ideologizzati, ma con qualcosa in cui credere».
Che ne pensa della strage nella discoteca di Corinaldo?
«Penso che le mamme non possono portare bambini di undici anni ad aspettare il divo in discoteca, quello che prima dell'una di notte non arriva. Io accetto tutti i tipi di famiglie, antiche o moderne, tutte con pari dignità. Ma i paletti con i figli bisogna metterli sempre».
È stato anche l'anno del Me too, il grande movimento femminista antimolestie. Che consiglio vuol dare alle giovani donne che si incamminano nel mondo del lavoro?
«Che le molestie vanno sempre denunciate. Ma anche che siamo dotate di parola: spesso basta dire un no. E non accettare appuntamenti di lavoro in luoghi che con il lavoro hanno poco a che fare».
A lei è capitato?
«Ci sono stati inviti altamente equivoci da parte di un paio di politici importanti della prima Repubblica. Ero giovane, e in un caso anche sposata. Una donna capisce bene quando dietro un invito c'è qualcosa che non va. Allora sa cosa ho fatto? Ho sfoderato un gran sorriso e ho risposto “no grazie"».
Babbo Natale osservò quel cumulo di neve sotto la quercia, sospirò, tirò fuori dalla giubba rossa una fiaschetta, bevve un sorso abbondante e prese la pala.
Dieci giorni prima, mentre stava mettendo a punto i carburatori della sua moto Guzzi V75 rossa e bianca (manco a dirlo) degli anni Ottanta, aveva ricevuto un messaggio sul suo vecchio palmare. Arrivava dal Norad, che dal 1955 era diventato il suo quartiere generale. D'altronde se la modernità metteva a disposizione satelliti, radar, aerei e tante altre cosucce divertentissime e segretissime perché non approfittarne? Il messaggio era da parte della Sezione Crimini.
La Sezione Crimini era stata creata da quando le letterine venivano scansionate e lette attraverso il software che gestiva Echelon. Si era scoperto che attraverso le richieste di regali a Babbo Natale venivano denunciati molti crimini. Crimini che non arrivavano mai sui tavoli delle polizie del mondo perché i bambini non potevano prendere l'automobile e andare all'ispettorato di polizia a fare denuncia, e, in molti casi, se parlavano di crimini in famiglia si prendevano un ceffone e l'invito a non usare così tanto la fantasia: al Norad lo chiamavano «allerta Goonies». Babbo Natale sbuffò.
Quell'allerta crimine era localizzata nella sua zona, e quindi avrebbe dovuto pensarci lui in persona, non gli altri Babbo Natale, quelli finti, che lo aiutavano ad essere in più posti contemporaneamente. La sua zona era l'Etna.
«Caro Babbo Natale», diceva la letterina, «io come rijalo di natale vorrei che torna il mio maestro. È scomparso da una simana. Lui era molto affettuoso con tutti noi bambini. Per favore, trovalo e fallo tornare a scuola. Firmato: Peppino».
Dal Norad gli mandavano l'indirizzo dell'ultima localizzazione del cellulare del maestro Spampinello. La polizia catanese aveva avviato le indagini, ma le sparizioni - soprattutto in questo periodo in cui il comune era andato in default, c'era la crisi, le persone avevano debiti - prima di destare preoccupazioni, dovevano essere protratte nel tempo: tanti erano quelli che si dissolvevano senza lasciare tracce per andarsene in qualche paese dove i loro poveri risparmi potevano essere considerati un buon «capitale».
Babbo Natale posò il carburatore e si grattò la testa striando i capelli lunghi e bianchi con un segno di grasso. Poi con le manone digitò il seguente messaggio: «Fare controllo incrociato. Nel luogo dell'ultima localizzazione del cellulare del maestro abitano famiglie i cui figli sono suoi allievi?».
Il Norad rispose in venti secondi.
«Famiglia Fiorenzo. Al civico 36 di Via ***».
Babbo Natale annuì a sé stesso e cominciò a rimontare il carburatore al suo posto. La motocicletta avrebbe scoppiettato, ma questa faccenda era più urgente. D'altronde era il suo lavoro. Babbo Natale arrivò in moto. La via era incassata tra due file di casermoni di palazzine popolari. Solito giro di spaccio per le strade.
«Zio ti serve qualcosa?».
Babbo Natale guardò l'adolescente in tuta: «No, devo fare una commissione».
«Zio, mi sa che non è legale che cammini vistuto di Babbo Natale».
«La barba e i capelli sono miei, originali».
«Ma davvero mi stai dicendo zio?».
Babbo Natale annuì scendendo dalla moto e mettendo il cavalletto. Indossava pantaloni di cuoio nero, stivali da motociclista, la giubba rossa col pelo bianco d'ordinanza, un cappello rosso e uno zaino rosso decorato con gli alberi di natale.
Trovò il portone di alluminio anodizzato. Citofonò.
«Cu jè?».
«Devo fare una consegna».
«Non aspettiamo nessuna consegna».
«Ho dei torroncini, se non li vuole me li porto a casa mia e me li mangio».
«Torroncini? E ccu 'i manda?».
«Signora, credo che siano da parte di un politico. Forse lei ci ha dato il voto e quello si vuole sdebitare».
Il portone scattò.
«Acchianassi. Terzo piano. L'ascensore se lo sono fottuto deve prendere le scale».
Babbo Natale entrò nell'androne. C'era odore di cavolfiore bollito e melanzane fritte. L'odore di ogni androne di quella città. Passò davanti l'ascensore, un vano vuoto e nero con due strisce di plastica per evitare che qualcuno ci cadesse dentro. Gli aprì una trentenne che probabilmente doveva essere stata una bella donna. Poi i figli, la situazione siciliana, le file davanti alle porte chiuse della classe politica, i voti venduti in cambio di trenta euro, la mancanza di ogni speranza, la dieta poco salutare, le preoccupazioni, gli avevano tagliato la faccia. Indossava una pesante vestaglia sintetica bruciacchiata in più punti. Lo guardò con diffidenza: «Vestito da Babbo Natale lo mandano in giro?»
Babbo Natale annuì: «Signora, c'è malura, anzi che ho attrovato un lavoro per questo natale!».
La signora annuì stringendosi nella sua vestaglia.
Babbo Natale si tolse lo zaino e si chinò dicendo «Ahiahiahiai… che dolore di carina». Tirò fuori dallo zaino una scatola di torroncini: «Scusasse, signora, sugnu anziano per calarmi. Ciaiu 'a schienza ca mi doli».
«E lei camina con la moto!».
Babbo Natale la guardò.
«L'ho vista dal balcone».
«Signora, e che la posso permettere l'assicurazione della macchina secondo lei?». Babbo Natale porse alla signora la scatola di torroncini.
La signora guardò Babbo Natale con tenerezza: «Senta, se vuole ci posso offrire un caffè e…» guardò la scatola «e un torroncino. Altro a casa non ne abbiamo. La invito soltanto perché c'è mio fratello a casa, altrimenti… lo sa com'è…».
Babbo Natale fece la faccia come a dire «e certo che un caffè non mi dispiacerebbe». La casa era povera ma pulitissima (a parte quell'odore di cavolfiori bolliti).
«Si accomodi! Lui è Cosimo, mio fratello. Cosimo, questo signore è venuto a portarci una scatola di torroncini da parte di… a proposito, quale politico me lo manda?».
«Non lo so signora, io faccio solo le consegne. Lei il voto a chi ce lo dato?».
«Ah sì. Vabbè. Lo so io. Cornuto lui e chi non ce lo dice».
Cosimo, il fratello della signora, era il ritratto della sconfitta e della sopportazione. Indossava un vecchio cardigan di lana spessa sopra una canottiera ingiallita. Sedeva alla tavola coperta da una tovaglia di plastica a quadretti rossi e blu, guardando su un piccolo televisore una televendita. Davanti a lui una bottiglia di vino anonimo e un bicchiere mezzo vuoto.
«Prego, si accomodi», disse Cosimo guardandolo con gli occhi arrossati.
«Grazie, la sua signora è stata molto gentile. Sono fatto vecchiarello e ho trovato questo lavoro per il natale».
Cosimo annuì.
«Senta, signora. Ma se al posto del caffè mi offre un bicchiere di vino?»
«Ma certo!». Prese un bicchiere dal lavandino, lo sciacquo e lo mise sulla tavola. «È vino genuino, non è di marca ma è genuino».
«E io quello cercavo!», disse Babbo Natale. «Così non apriamo i torroncini e glieli può fare trovare sotto il presepe a suo figlio».
La donna divenne all'istante sospettosa: «E lei come lo sa che ho un bambino?».
«Signora, ho visto i soldatini per terra».
La signora guardò due vecchi soldatini di plastica per terra e si tranquillizzò. Sorrise.
«L'idea è bella. Grazie che ci ha pensato. In effetti una bella scatola di torroncini a Matteo ci piacerebbero. Lo sa, come vede non ce la stiamo passando bene. Mio marito… mio marito è… non c'è. A lavorare fuori».
Babbo Natale sapeva benissimo cosa significava. Il marito era a pizza Lanza, in prigione.
«A me i torroncini quando ero piccolo mi piacevano tantissimo!». Disse Babbo Natale. «Quanti anni c'ha Matteo?».
« Sette, un picciriddu».
«E che fa, studia? È bravo?».
«È la mia anima è! Studioso, bravo e non fa mai i capricci. Pare che capisce tutto alla sua età!»,
Babbo Natale annuì pensieroso: «A volte uno vorrebbe che i picciriddi non capissero tante cose, è vero signora?».
La signora sorrise triste: «Se lo prende un altro bicchiere? Gliel'ho detto, genuino è! Non ci viene il mal di testo con questo. Vero Cosimo? Diccelo tu al signore che è genuino!». Cosimo annuì, completamente perso nella contemplazione della televendita.
«Signora, come si dice? Chi non accetta non merita!».
«Bravo!», disse la signora riempiendo il bicchiere a Babbo Natale.
Babbo Natale diede un sorso a quel vino come se fosse un Barolo Riserva: «E dove va a scuola Matteo?»
Il silenzio calò sulla cucina anche se c'erà già silenzio. Fu un silenzio ancora più silenzioso del silenzio.
Babbo Natale toccò finalmente duro con la pala. Il cadavere era lì: duro come un baccalà. Diede un altro sorso alla fiaschetta. Lì, sull'Etna, in mezzo alla neve, faceva freddino anche per lui.
Cosimo aveva spento il televisore e si era irrigidito guardando la sorella. Poi aveva finito il suo vino con un solo sorso. Anche la signora aveva stretto gli occhi diventando scorbutica all'improvviso: «Se ha finito… Sa, io e mio fratello abbiamo un appuntamento con un avvocato».
Babbo Natale li guardò entrambi con assoluta calma. Prese il bicchiere e diede un sorso lentissimo.
Posò il bicchiere ancora mezzo pieno e annuì: «Avete sentito di quel maestro scomparso? Voi cosa ne pensate? Se n'è fuggito a Santo Domingo? O gli è successo qualcosa?».
L'atmosfera si caricò di ansia e rabbia e preoccupazione e terrore.
Babbo Natale sorrise. Finì il bicchiere di vino e disse: «Me ne offrite un altro? Voi lo sapete no? Se fossi uno che vuole mettervi nei guai non berrei così tanto! Qualunque cosa voi vogliate dirmi la state dicendo a un vecchio arteriosclerotico vestito da Babbo Natale e ubriaco! Anzi facciamo così!». Babbo Natale tirò fuori dallo zaino una bottiglia di whisky. La stappò e verso un bicchiere intero per sé, riempì il bicchiere di Cosimo e disse: «Signora, prenda un bicchiere anche per lei. E stia tranquilla. So tutto».
Babbo Natale finì di disseppellire il cadavere. Indossava una giacca di velluto blu, pantaloni di fustagno, mocassini. Duri e ghiacciati come il cadavere. Babbo Natale non poté farne a meno e si mise a ridere. Il professore congelato era ridicolo.
«Ma lei chi è?», chiese Cosimo. «E cosa vuole da noi?».
Babbo Natale guardò in controluce il whisky: «Sapete cosa è? È un whisky scozzese di sessant'anni. Non vi dico quanto cosa a bottiglia perché non è questo l'importante. L'importante è la gioia che vi dà ad ogni sorso. Bisogna bere pochissimo e bene! Dico io. Fatemi una cortesia, assaggiatelo insieme a me. Ah sì, mi avete domandato chi sono. Cos'è non si vede? Sono Babbo Natale. E in vita mia non ho mai messo nei guai nessuno, anzi, ho aiutato sempre la brava gente. C'è chi non crede che io esista. Ma cose da pazzi!».
«Ma che m****ia sta dicendo!».
Babbo Natale fece una risata fragorosa.
Babbo Natale tirò fuori il cadavere del professore e lo appoggiò alla quercia. Bel problema. Era così congelato che stava dritto in piedi. Pensò se fosse il caso di accendere un fuoco per scongelarlo. Se scongeli un professore ghiacciato torna morbido o il rigor mortis lo lascia comunque della consistenza dello stoccafisso? Babbo Natale pensò allo stoccafisso alla messinese e gli venne l'acquolina in bocca. Sì doveva dimagrire. Sì lo sapeva. Ma le diete si cominciano sempre a gennaio e a lui il freddo gli metteva appetito.
Babbo Natale si versò un altro bicchiere di whisky. Sorrise. Aveva questo sorriso caldo e strano. Quasi magico. Babbo Natale sorrideva e nell'aria era come se si spandesse odore di pasta di mandorla calda e di vaniglia, di zucchero a velo, era come se si accendessero i riscaldamenti, anzi no, un camino… Babbo Natale sorrideva e si sentiva calore e odore di legna che arde… o forse era solo quel whisky che era veramente buono…
La signora si sedette al tavolo, nella sedia di formica. Guardò suo fratello. Anche lui era rilassato, come non lo vedeva da qualche giorno a questa parte, come non lo vedeva da quel giorno. «Forse il whisky era drogato?», pensò la signora? Questo pensiero in qualche maniera e stranamente la tranquillizzò. Se quel fantastico liquore era drogato allora voleva dire che Babbo Natale non era uno sbirro, e se fosse stato uno che voleva vendicare il professore, bé, forse meglio finirla così, che vivere ancora in quell'incubo che li aveva tormentati negli ultimi giorni. I pensieri della donna furono interrotti dalla voce di Babbo Natale. Quella voce aveva lo stesso effetto della sua risata. Era diversa dalla voce che aveva usato fino a quel momento. Sembrava davvero la voce di Babbo Natale. Sì, quel whisky doveva essere drogato, ma oramai era troppo tardi.
«Facciamo così», disse Babbo Natale. «Facciamo che voi non credete che io sia davvero Babbo Natale. Chi può dirlo. Intanto ascoltatemi. Un compagno di classe di Matteo mi ha scritto una letterina. O almeno l'ha scritta a Babbo Natale e io ho avuto la possibilità di leggerla. Mi ha parlato di questo maestro che è scomparso. Di questo maestro “affettuoso". Adesso, non so voi, ma io voglio che un maestro sia bravo, competente, empatico… empatico vuol dire che capisca le emozioni del bambino, se è spaventato, confuso oppure felice ed entusiasta, ma non “affettuoso". Quell'aggettivo mi ha fatto pensare. Ora vi chiedo: quel maestro era troppo “affettuoso" con Matteo?».
Cosimo prese il bicchiere e lo lanciò contro il frigorifero.
Perché non si portava un'accetta? Ah sì, perché la legge italiana non ti permetteva di farlo, soprattutto se andavi in moto. Ma se uno vuole farsi una bella passeggiata sull'Etna, sarebbe logico portarsi un'accetta. Metti che l'auto non ti parte, che ti perdi, che vuoi restare a passare la notte nella natura innevata, devi affidarti alla fortuna per trovare un po' di legna da ardere? Cosa pensavano? Che uno se ne andasse in giro con l'accetta per commettere crimini? Tra le tante armi di sicuro nessuno avrebbe scelto di portarsi dietro un'accetta. Babbo Natale sbuffò guardandosi intorno. I rami erano tutti saldamente attaccati agli alberi. Che fatica fare Babbo Natale!
«Mi scusi», disse Cosimo, stupendosi di se stesso. Aveva tutte le ragioni per quell'accesso di rabbia. Eppure quel signore anziano stava portando… sì, non c'era altro termine, stava portando serenità.
«Si figuri», disse Babbo Natale, «deve vedere me quando faccio le risse! Sa, sono abbastanza vichingo di origine. Volete raccontarmi cosa è successo? In maniera che io possa risolvere la situazione facendovi passare un natale sereno?».
La signora guardava il vecchio con la bocca aperta. Le veniva voglia di dire: «Ma lei perché fa questo? Chi la manda? Come sa queste cose? Chi è? Che sta succedendo? Sto sognando?». Invece disse: «Matteo capisce tutto, per la sua età».
«E questo lo avevamo capito», disse Babbo Natale. «E dopo cosa è successo?».
«È successo che ho perso la testa, ecco quello che è successo», disse la signora. «Mio fratello non c'entra nulla». Babbo Natale annuì e si verso ancora un whisky. La signora guardò la bottiglia e decise di riempirsi il bicchiere. Succeda quel che deve succedere.
Babbo Natale si mise a scuotere un albero di abete per cercare di strappare un ramo. Gli arrivò addosso qualche decina di chili di neve. «Vabbè, ho capito». Lasciò il cadavere appoggiato alla quercia, salì in moto, e si diresse verso Nicolosi, il paese più vicino.
«Ho telefonato al maestro Spampinello. Gli ho detto che Matteo mi aveva detto cose strane e che volevo andare a parlare con la preside. Lui mi ha detto che stava venendo a casa mia. Che si trattava senz'altro di un equivoco. Io lo sapevo che non c'era nessun equivoco. Matteo è…».
«È intelligente per la sua età e capisce tutto…».
«Esatto. Ma io ero così arrabbiata che volevo vederlo in faccia a questo malato!».
Babbo Natale annuì.
«Ed è venuto quel disgraziato. Tutto gentile, tutto viscido, tutto che usava parolone, tipo “disguido", tipo “i bambini si sa come sono, vedono troppa televisione"… e più mi diceva queste cose più io diventavo un animale. Mio marito è in carcere per una rapina fatta con la pistola finta, e uno di questi invece gira a piede libero e fa pure il maestro!».
«Mi sembra logico…».
«Ecco… quando ha detto “però Matteo a volte è strano non deve dare credito a tutto quello che dice"… e poi ha aggiunto “e siccome è un bambino strano io cerco di seguirlo di più..." ecco non ci ho visto più dagli occhi… Matteo strano? Matteo? Un maestro pedofilo che mi dice che mio figlio è strano? Avevo questa bottiglia di spumante dolce che mi hanno regalato in farmacia e gliel'ho dato sulla testa. Mi è morto qui, in cucina. Poi ho chiamato mio fratello e lo abbiamo portato sull'Etna con la sua Fiat Panda.
Babbo Natale annuisce. Sta qualche secondo in silenzio. Poi dice: «Signora, senta, io le dovrei dire che non si fa così, che questo è giustizialismo, che lei doveva avvisare le forze dell'ordine, le dovrei dire che forse il maestro era malato, che aveva bisogno di cure…».
«E lo so, ma io non ci ho visto più dagli occhi…».
«E infatti oramai la frittata è fatta. Meglio che non ci pensiamo più. Esattamente, dove lo avete portato?».
«Cosimo, dove lo abbiamo portato?».
«Le faccio una piantina», dice Cosimo.
«E me la faccia», dice Babbo Natale, che non vede altra soluzione.
Babbo Natale torna con una motosega comprata in una ferramenta di Nicolosi. Taglia alcuni rami di abete, poi, con lo Zippo, accende un falò davanti al cadavere congelato del professore. Si accende una sigaretta e aspetta. Dopo mezz'ora il professore Spampinello si sgonfia come una ruota bucata e scivola per terra. Nessun rigor mortis. Bello fresco come se fosse stato appena ucciso.
Babbo Natale prende dallo zaino un cesto di vimini pieno di funghi. Sistema il maestro in posizione fetale. Gli mette un masso accanto la testa. Sfrega la testa contro il masso per lasciare tracce di sangue. Guarda la natura morta che ha appena composto. È sufficientemente soddisfatto del lavoro compiuto. Torna sulla strada provinciale. Mette in moto la Guzzi. Torna al suo rifugio pensando alle letterine di risposta.
«Caro Peppino, gli elfi hanno ricevuto la tua letterina di Natale. Purtroppo il tuo maestro affettuoso non tornerà in classe. Era fissato coi funghi. Pazienza. Come regalo ti mando un nuovo maestro. Non è affettuoso ma è bravo. Peppino, l'affetto non si dimostra con l'affetto. Conserva questa lettera e quando sarai grande riflettici. Per adesso fidati. Troverai una Playstation sotto il presepe. Spero possa servirti come risarcimento».
A casa Fiorenza sono stati giorni strani.
Chi era quello? Perché era riuscito a farli parlare? La bottiglia di whisky è ancora sul tavolo a dimostrazione che non era stato un sogno.
La signora Fiorenza ha nascosto la scatola di torroncini. Matteo sta giocando con i soldatini. La cena della vigilia è una scacciata presa a credito al panificio: tuma e acciughe.
La signora addobba la tavola con la tovaglia di plastica, mette una candela al centro. Accende le lucine del presepe.
Suona il campanello.
L'indomani, mentre Matteo troverà i suoi torroncini, il piccolo televisore della cucina darà la notizia che il maestro scomparso si è perso andando a funghi. L'ipotermia lo ha ucciso. Una tragedia. La scuola piange un maestro esemplare.
Cosimo sorride sentendo la notizia e si riempie il bicchiere di whisky.
La signora Fiorenza era andata ad aprire la porta. Chi poteva essere alla vigilia di Natale? Forse il portinaio per fare gli auguri.
Apre la porta e vede suo marito.
Piange: «Che ci fai qui?».
«Non lo so. Mi hanno scarcerato».
Matteo sente la voce di suo padre.
Non sa se ridere o piangere.
È un bambino intelligente per la sua età e capisce tutto.
Babbo Natale sale sulla moto. Mette in moto. La serata sarà lunga. Migliaia di sue copie saranno al lavoro stasera. Ma lui è l'originale. Accelera. La moto prende velocità sulla strada e poi s'innalza in volo. Dietro di lui centinaia di elfi con i loro sacchi pieni di regali bevono whisky dalle fiaschette. I satelliti di www.noradsanta.org tracciano i loro spostamenti. Babbo Natale dà gas. Il rumore del bicilindrico fabbricazione italiana fa vibrare i cuori.
La signora Fiorenza e suo fratello guardano Matteo in braccio al padre. Scartano i torroncini.
Si guardano.
Chi era quel vecchio?
Se non era il vero Babbo Natale, ci andava molto vicino.
Sentono come il rumore di un bicilindrico nel cielo.






