Roberto Speranza, Luigi Di Maio e Luciana Lamorgese (Ansa)
La caduta del governo ci libera dal ministro della peggior gestione Covid dell’Occidente, da quello ai clandestini e ai rave party e dal politico più trasformista della storia. Alle elezioni gli italiani avranno finalmente modo di dire cosa vogliono davvero.
«Senza Draghi aumenterà la siccità». Pausa. «Senza Draghi non ci sarà il tetto al prezzo del gas». Pausa. Sta per dire: «Senza Draghi non festeggeremo più il Natale», poi si ferma perché nessuno lo ascolta e improvvisamente realizza che senza Draghi dovrà trovarsi un lavoro. Luigi Di Maio è alla disperazione, passare dall’auto blu a una battaglia di civiltà contro le auto blu non sarà facile, potrebbe provocargli il colon irritabile o la sindrome Di Battista. Eppure dovrà abituarsi, la pacchia è finita per il chierichetto di Supermario e per altri due personaggi pirandelliani imbullonati alla poltrona dal Pds, il Partito di Sergio (Mattarella): Roberto Speranza e Luciana Lamorgese. I tre peggiori ministri dai tempi di Scipione l’Africano se ne vanno dopo aver scalzato dal podio anche Danilo Toninelli in monopattino. Game over pure per loro grazie alla doppia «autosfiducia» dell’ex premier. Possiamo confermarlo: «Anche i banchieri hanno un cuore».
In questi anni Di Maio ha girato il mondo a spese degli italiani, ha spaccato in due il M5s, ha mantenuto un’abbronzatura masterclass, ha fondato un partitino di centro e ha dichiarato guerra alla Russia; praticamente un eroe. Di lui ricorderemo lo sguardo perso in adorazione prima di Giuseppi, poi di Draghi, in attesa dei croccantini. Di lui ricorderemo la frase: «Dialogo e deterrenza, doppio binario ma non doppio gioco», pronunciata da ministro degli Esteri prima di andare a Mosca da Sergej Lavrov, che per tutta risposta gli ha fatto semplicemente sapere: «La diplomazia serve per risolvere conflitti, non per fare viaggi a vuoto e mangiare piatti esotici». Un ingrato, Giggino gli aveva anche regalato il suo libro sulla passione per la politica, con dedica. E in tempi non sospetti aveva detto con ammirazione che «la Russia si affaccia sul Mediterraneo».
Non c’era un solo motivo perché il Metternich di Avellino dirigesse la Farnesina se non l’ilarità che riusciva a infondere agli uffici. Nel 2019, durante un viaggio negli Usa, incontrò il consigliere per la sicurezza di Donald Trump, John Bolton. Se lo ricordava così bene da scambiarlo per il cantante Michael Bolton. Abituato ad aggiornarsi sulla piattaforma Rousseau, al culmine di una visita a Shanghai chiamò il presidente cinese Xi Jinping amichevolmente Ping; le diplomazie riuscirono a evitare per un pelo la pacca sulla spalla. Quando era ancora uno steward del San Paolo, in missione per conto di Grillo dichiarò che il dittatore cileno Pinochet «era venezuelano».
Esponente di spicco della corrente del «vaffa gentile», Di Maio ha saputo declinare tutte le sfumature del trasformismo: da populista a diccì, da fautore dell’impeachment per Mattarella a mattarelliano di ferro, da anti piddino a post piddino, da no euro a eurolirico. Così meravigliosamente ortodosso che, prima del varo di Insieme per il futuro, al Nazareno circolò l’ipotesi di un suo ingresso nel partito rosso.
Chi sta per fare il salvifico passo è Speranza, consapevole che potrebbe essere l’unico modo per evitare qualche inchiesta giudiziaria in agguato. Disastroso ministro della Salute durante la pandemia; firmatario di protocolli dall’evidenza scientifica traballante; tifoso eccitato di lockdown («Mi turba il rumore di un’auto per strada») e green pass («per una nuova egemonia culturale»), presto non potrà più terrorizzare gli italiani. L’ex portaborse di Pier Luigi Bersani è stato imposto a Draghi dal Pd, da Conte e dai reduci tardomarxisti di Leu; verrà ricordato come il baluardo di quella via «improvvisata, caotica, creativa» alla gestione del Covid descritta dal ricercatore dell’Oms Francesco Zambon nel dossier veneziano fatto misteriosamente scomparire.
Titolare dello slogan rap «tachipirina e vigile attesa», Speranza non è medico, operatore scientifico, infermiere, portantino, tecnico di laboratorio, rappresentante di medicinali, vaccino, provetta, microscopio, vetrino. È laureato in Scienze politiche e l’unica peste di cui ha sentito parlare è (forse) quella descritta da Albert Camus. Ma per due lunghissimi anni ha tenuto in scacco un Paese con restrizioni cinesi che hanno portato a 2.800 morti di Covid per milione di abitanti, una percentuale superiore alla media internazionale e di Paesi dove le chiusure sono state l’eccezione.
Mentre scende la sera lo sguardo corre all’ultima finestra in alto al Viminale. È illuminata, la Lamorgese presto farà gli scatoloni e un po’ dispiace. L’immaginifico ministro dell’Interno, «tecnico» fortemente voluto dal Quirinale, non potrà più deliziarci con lampi di Metaverso, una realtà parallela che ne ha caratterizzato l’azione. Esempio supremo: per spiegare la presenza di poliziotti infiltrati in corteo disse che misuravano «la resistenza oscillatoria dei furgoni». L’ex prefetto «due pesi e due misure» non ha avuto pietà per i portuali triestini che (inginocchiati con il rosario) protestavano contro le iniquità del pass e li ha dispersi con gli idranti. Ma non ha avuto niente da dire agli 8.000 protagonisti del rave abusivo sul lago di Mezzano, uno spaccio di droga a cielo aperto, mandando la polizia con quattro giorni di ritardo dopo che c’era scappato il morto. Gentile con Leonardo Bonucci, che ha imposto il giro per Roma sul pullman scoperto dopo la vittoria della Nazionale agli Europei, durissima con i no vax. Teorica dell’accoglienza diffusa fin da quando era rappresentante del governo a Milano, è riuscita a quadruplicare i flussi di clandestini in due anni: da 5.000 a 20.000. Il suo capolavoro diplomatico fu l’accordo di Malta: «Abbiamo ottenuto dall’Europa la redistribuzione dei migranti e la rotazione dei porti». Solo che la prima riguardava l’1% dei disperati e i porti che ruotavano erano solo i nostri, per la felicità delle Ong. Più facile far inseguire i runner dai poliziotti sulle spiagge deserte durante i lockdown. Con loro nessuna pietà.
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Roberto Speranza, Luigi Di Maio e Luciana Lamorgese (Ansa)
La caduta del governo ci libera dal ministro della peggior gestione Covid dell’Occidente, da quello ai clandestini e ai rave party e dal politico più trasformista della storia. Alle elezioni gli italiani avranno finalmente modo di dire cosa vogliono davvero.
Mario Draghi (Ansa)
Di Mario Draghi abbiamo una grande stima e per questo, dal giorno del suo insediamento a Palazzo Chigi, siamo un po' meno pessimisti sul futuro del nostro Paese. Quando serve, l'ex governatore della Banca centrale europea sa tirare diritto senza piegarsi alle convenienze politiche, ma soprattutto senza lasciarsi trascinare nel gorgo delle ambiguità partitiche.
Mariastella Gelmini (Ansa)
Gli esponenti del governo sembrano ormai viaggiare su altre frequenze rispetto alle loro sigle di appartenenza. Ha funzionato la tattica del premier di scegliere gli oustsider dei movimenti.
Mario Draghi (Ansa)
I nomi dei ministri dell'ex banchiere danno l'idea di una squadra fatta per accontentare le segreterie dei partiti. Rivedere le stesse facce che hanno appena fallito non è rassicurante, nonostante l'autorevolezza del presidente.
Confesso: conoscendo da lunga data Mario Draghi ho sperato che avesse il coraggio di cambiare e di mandare a casa una maggioranza di incompetenti che da oltre un anno occupa le istituzioni. Pensavo che con la sua esperienza, come direttore del ministero del Tesoro prima e come governatore di Banca d'Italia e della Bce dopo, fosse sufficientemente scafato da sapere di essere forte solo all'inizio, se fosse riuscito a tenere alla larga i partiti dalle leve di comando del convoglio che si appresta a pilotare. Da quel che mi pare, leggendo la lista dei ministri che è stata presentata ieri sera, non mi sembra che ci sia riuscito. Anzi, mi pare che, usciti dalla porta, alcuni personaggi siano rientrati dalla finestra, al punto che il Draghi uno somiglia molto al Conte ter, con qualche spruzzata leghista e forzista a coprire la vergogna.
Quando la scorsa settimana annunciò il fallimento della mediazione affidata al presidente della Camera, anticipando di avere intenzione di tentare la formazione di un governo istituzionale che evitasse lo scioglimento della legislatura, il presidente della Repubblica parlò di un esecutivo composto da figure di alto profilo. E dove è possibile rintracciare questo alto profilo se Luigi Di Maio rimane ministro degli Esteri? Davvero è pensabile che in Italia, dal punto di vista culturale, non ci fosse nessuno meglio di Dario Franceschini? E che dire del ministro che ha debellato il coronavirus, ma solo a parole, scrivendo un libro che è stato costretto a ritirare a seguito della seconda ondata dell'epidemia? Spiace dirlo, ma rivedere le stesse facce che hanno fallito e hanno dato pessima prova nei mesi precedenti non è di alcuna rassicurazione, nonostante l'autorevolezza del presidente del Consiglio. È difficile poter digerire che la ministra alle Politiche giovanili sia Fabiana Dadone, la stessa persona che ha ricoperto a nome dei 5 stelle l'incarico di ministro della Pubblica amministrazione: per 17 mesi gli italiani hanno ignorato la sua esistenza ai vertici di uno dei dicasteri più importanti per il Paese, perché da esso dipende l'efficienza della macchina burocratica. Ma non avendo dimostrato di essere in grado di migliorare il servizio pubblico al servizio dei cittadini, Dadone è stata spostata alle Politiche giovanili come nella prima Repubblica facevano i democristiani per sistemare qualcuno che per ragioni di corrente non potevano lasciar fuori dalla rosa dei ministri.
Ma se a Fabiana Dadone, ministro trasparente (nel senso che come un vetro nessuno si è accorto di lei), è toccato di dover traslocare a un dicastero senza portafoglio e senza peso, a Elena Bonetti è andata meglio. In quota Italia viva, alla professoressa che si era dimessa su ordine di Matteo Renzi per mettere in crisi Giuseppe Conte è toccato in premio la riconferma alle Pari opportunità. Meno bene è andata a Teresa Bellanova, pasionaria renziana, anch'ella indotta alle dimissioni con promessa di ritornare più forte di prima: il suo posto all'Agricoltura è stato preso da Stefano Patuanelli, un grillino che ha già dato ampia prova di incompetenza ai Trasporti.
Ci sono poi dei ritorni, non del Conte bis, ma dei governi che furono. Torna Andrea Orlando, da tempo in astinenza da ministero dopo essere stato Guardasigilli: a lui è stato assegnato il Lavoro. Torna un triumvirato di Forza Italia, ossia Renato Brunetta, Maria Stella Gelmini e Mara Carfagna. Il primo riconquista il suo vecchio ministero, quello dei dipendenti pubblici, alla seconda vanno le Autonomie e gli affari generali, alla terza il Sud. C'è spazio naturalmente per i leghisti e anche in questo caso si tratta di ritorni: Erika Stefani, che in passato aveva ricoperto la casella ora affidata a Carfagna, finisce alla disabilità; a Massimo Garavaglia, già viceministro all'Economia, tocca il turismo; a Giancarlo Giorgetti, ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, spetta il Mise, ministero per lo Sviluppo economico. Al netto di Federico D'Incà, grillino, che rimane saldamente ancorato ai rapporti con il Parlamento, e di Enrico Giovannini, già ministro del Lavoro con Enrico Letta e ora destinato a Trasporti e Infrastrutture, gli altri sono new entry. Tra di loro figurano Marta Cartabia, ex presidente della Corte costituzionale in quota Mattarella, Vittorio Colao, sempre quota Mattarella, Daniele Franco, direttore generale di Bankitalia, Roberto Cingolani e Patrizio Bianchi, quota Prodi. Le novità sono i loro nomi, tutto il resto è già visto e somiglia tristemente a quello che non avremmo più voluto vedere, ossia a un governo che non è né carne né pesce, non è di destra, di sinistra, di centro o grillino e non pare soprattutto di Draghi, ma frutto di una mediazione per contentare un po' tutti e così legare le mani a chiunque, in modo che non si possa tirar fuori.
Spiace dirlo, ma le premesse non paiono affatto buone. Il governo non è di Mario Draghi, ma più verosimilmente di Sergio Mattarella, il quale consente il varo di un esecutivo che pare un ircocervo, roba buona per le favole. C'è stato un tempo in cui in questo Paese, per fermare il degrado e soprattutto il voto, qualcuno si inventò il pentapartito e non finì bene. In questo caso hanno messo insieme l'esapartito e noi incrociamo le dita.