A Milano sempre più Cina. Un bilancio dopo la fine della Settimana della moda milanese ha visto una quantità di cinesi come non si era mai registrata. «Sia nel modo tradizionale, nel senso che durante la manifestazione arrivano gli operatori, la stampa, gli addetti ai lavori. Ma c’erano anche, e questo è il fatto nuovo, più delegazioni cinesi di area tessile venuti per studiare la piazza di Milano dove rappresentarsi. C’è una ricerca di collegamento con l’Italia tramite Milano e la fashion week che così forte non l’avevo mai avvertita». Chi parla alla Verità è Mario Boselli, presidente di Iccf (Italy China council foundation, che sostiene i legami tra il Paese e la Cina) nonché presidente onorario della Camera moda italiana.
Qual è l’obiettivo dei cinesi, cosa vedono nel nostro Paese?
«Soprattutto un’opportunità di affari e di sbocco a vari livelli, sia per quanto riguarda i materiali, quindi le materie prime e i semilavorati, sia a livello del prodotto finito. Significa non venire solo a vedere la Fashion week, perché domani vogliono chiedere alla Camera della moda italiana di sfilare. Arrivano per vendere ai grandi della moda e al sistema moda italiano i loro prodotti greggi e semilavorati. Riconoscono all’Italia due cose: l’importanza della filiera italiana e l’altra d’essere il Paese che produce il 70% dei prodotti luxury del mondo. Per questo, nei giorni della moda ho avuto diversi incontri con delegazioni cinesi: quelli per i tessuti stampati, quelli per il cashmere, le differenti specializzazioni».
I cinesi non vengono per carpire i nostri «segreti» produttivi come certe lavorazioni o anche certi tessuti?
«No. Prima di tutto troverebbero delle porte ben chiuse. Non lo chiedono nemmeno di vedere le nostre fabbriche. I segreti non li scopri in questo modo. Semmai possono chiedere di stringere accordi di collaborazione, di scambio. Uno può chiedere del know how, ma a quel punto è una cosa negoziata. La storia del cinese che veniva a fare la foto per copiare i prodotti non esiste più. In certi casi sono più avanti loro di noi. Fotografano le vetrine, i ristoranti, le opere d’arte, questo ci sta. E qui è il nodo che va capito».
Cioè?
«I cinesi ammirano lo stile di vita italiano che è la loro aspirazione maggiore. Che si declina con le tre effe: Fashion, Food, Furniture. Se vogliamo dirla tutta Milano, che ho definito Milano Italian Style, è l’icona del modo di vivere italiano, è l’icona per il Paese. Basti pensare al Salone del mobile, alla moda e a certe eccellenze del food, lo stile di vita più rappresentativo è senza dubbio a Milano».
Nell’immaginario collettivo i cinesi hanno profili non sempre positivi, mi riferisco alle condizioni in cui devono lavorare e la mancanza di diritti.
«Per la maggior parte sono stereotipi del passato e si possono smontare uno per uno. Oggi la loro ricerca tecnologica è avanti a noi. Poi, senz'altro, non avranno la sensibilità nostra nell’abbigliamento. Per quanto riguarda i costi, in Cina certe produzioni non si fanno più. Ha smesso di produrre, per esempio, i fiori finti, gli alberi di Natale, i giocattoli. Mentre il tessile, quello meno pregiato e di maggior valore lo ha delegato a Paesi con più bassi salari come Vietnam, Pakistan, India. Nella Cina della costa, la Cina azzurra, quella vicina al mare, i costi sono aumentati moltissimo e per certe produzioni non è più competitiva».
A livello di numeri, come vanno i rapporti?
«Nonostante la pandemia abbia portato a un cambiamento degli equilibri nel panorama economico mondiale, nel 2022 il valore dell’interscambio complessivo tra i due territori ha raggiunto, secondo i dati Istat, i 73,9 miliardi di euro, in crescita del 36,3% su base annua, di cui 57,5 miliardi (+49%) di importazioni dalla Cina in Italia e 16,4 miliardi di esportazioni italiane in Cina, attestandosi solo un +0,5%. Malgrado l’aumento del deficit commerciale nei confronti del Paese del dragone, l’Italia resta un buon mercato con cui fare affari e dare il via a collaborazioni strategiche con partner in loco».
Il compito di Iccf?
«Quello di facilitare i rapporti fra le imprese, le aziende italiane e cinesi. Italiane che lavorano in Cina, cinesi che lavorano in Italia. Questo non è mai venuto meno. Durante il Covid il nostro ruolo, dato che non si viaggiava e tutto era bloccato, è stato proprio quello di mantenere aperti dei canali diplomatici, affrontare situazioni di emergenza e ne sono capitate parecchie. Le aziende, grazie al nostro aiuto, hanno continuato a collaborare e a sviluppare l’attività. Il problema vero è che durante quel periodo non si è riusciti a creare nulla di nuovo. La nostra nuova scommessa è di consentire il più possibile nuovi rapporti tra Italia e Cina per nuove iniziative che siano d’interesse reciproco».
Si sente parlare del non rinnovo della Via della seta, cosa ne pensa?
«Noi come Iccf abbiamo creato un nuovo organismo che si chiama “Italy China Economic and Cooperation Council”, un meccanismo di supporto e di confronto in grado di promuovere e sostenere i rapporti commerciali bilaterali tra Italia e Cina, fornendo occasioni di incontri periodici tra imprenditori, imprese e rappresentanti dei governi e delle istituzioni, così che anche il Made in tricolore possa restare un settore forte e sicuro su cui investire nel medio-lungo periodo».
Sarà un danno interrompere la via della seta?
«Bene non farà, dato che i cinesi sono molto orgogliosi, ma Giorgia Meloni sta gestendo la cosa dicendo “no” a questo e “sì” ad altro, e nell’altro c’è la nostra iniziativa. Rientra nelle azioni da fare. Sono in stretto contatto con le ambasciate, con i ministri competenti, Antonio Tajani in primis, con Adolfo Urso ministro del Made in Italy e con la stessa Meloni. Sono sicuro che grazie a questa unione d’intenti le cose andranno nel verso giusto».






