A San Siro piove, ma sul bagnato. Ormai per l’Inter vincere una stracittadina è diventata prassi, un po’ come per una massaia comprare le michette dal prestinaio, e forse quella che scendeva dal cielo a fiotti torrenziali non era neanche pioggia, erano le lacrime dei tifosi rossoneri, sbalorditi, ma forse nemmeno poi tanto, di trovarsi di fronte la squadra accreditata a vincere lo scudetto in carrozza: 5-1 il punteggio, una manita che somiglia a un’amanita, falloide, fungo velenosissimo per lo stomaco del Milan. L’Inter beneficia del fattore T e del fattore P, due bonus che i rossoneri non possiedono. Il fattore T risponde al nome di Thuram: veloce, con le movenze da ghepardo, si diceva non avesse molti gol in carniere in stagione ma se l’andazzo è quello visto ieri sera, grasso che cola con la stessa intensità della pioggia meneghina. Il francese figlio d’arte, compagno d’attacco di Lautaro Martinez, ha confezionato un secondo gol da antologia: Dumfries parte dalla fascia destra, Thuram si defila rapido, punta il diretto avversario, si accentra, lascia partire un bolide all’incrocio dei pali e per il connazionale Maignan, portiere prodigio di un Diavolo scornato, non c’è niente da fare. L’altro fattore, oltre a quello T, è il fattore P, si diceva. La panchina. Beppe Marotta nel ruolo della volpe e Piero Ausilio in quello del gatto, hanno regalato a Simone Inzaghi una generosa fetta di paese dei balocchi. Vuoi far rifiatare Barella? C’è Frattesi. Hai bisogno di linfa in copertura? Ecco Carlos Augusto, calciatore molto interessante proveniente dal Monza. La difesa a tre, tutta italiana con Darmian, Acerbi e Bastoni, può essere rimpiazzata all’occorrenza da De Vrij e Pavard. Insomma, le alternative fioccano. Sebbene pure il Milan abbia imbastito una campagna acquisti coerente, finanziata dalla cessione di Sandro Tonali al Newcastle, allestendo una rosa muscolare, composta da corridori nerboruti e con piedi buoni, ha lasciato un tallone scoperto molto più di quello d’Achille: la difesa. O meglio: quando la banda Pioli è costretta fronteggiare una squadra che sa come attaccarla colpendo i gangli scoperti e affondando il colpo con giocatori giusti, i centrali annaspano e Maignan perde protezione. Un po’ perché le assenze di Tomori e Kalulu (buoni difensori, comunque poco avvezzi a comandare il reparto) si sono fatte sentire, un po’ perché Simon Kjaer, nobile cavaliere di ventura al servizio della causa e deputato ad affiancare il giovane Malick Thiaw, negli anni ha smarrito rapidità. Mister Pioli poi, mantiene una sua coerenza di fondo nell’impostare le trame, ma la coerenza, diceva quello là, è l’ultimo rifugio delle persone prive di immaginazione. L’allenatore rossonero pecca di sapienza nel leggere le partite in itinere. Il Milan si è affidato alla spinta di Theo Hernandez e di Rafa Leao sulla sinistra, al talento di Reijnders sul versante creativo, alla fisicità di Loftus-Cheek e al dinamismo di Pulisic, apparso in giornata poco feconda. Olivier Giroud si è battuto come un leone davanti, pur a mezzo servizio perché reduce da un infortunio con la nazionale francese, rimpiazzato a metà gara da un Luka Jovic ancora ectoplasma in cerca d’autore. Già dopo cinque minuti si è capito che aria tirasse. Il solito Thuram scappava via sulla destra, passava al centro verso Di Marco che tirava verso la porta, con l’armeno Mkhitarian svelto nel ribadire in rete, siglando l’1-0. Sembra un incidente di percorso, ma col passare del tempo si capisce come stanno le cose. L’Inter è Ivan Drago, il Milan Apollo Creed, pugile talentuoso e zeppo di qualità, che quando ha affrontato il colosso sovietico è apparso impotente. La sinfonia dei padroni di casa suona le percussioni per una decina di minuti, fino a quando la compagine di proprietà Redbird prova a uscire dalle corde con sortite baldanzose di Theo e Leao, i più pericolosi. Il punto è che Inzaghi, stratega niente affatto sprovveduto, bilancia al dettaglio le ripartenze, consentendo ai suoi di distendersi nella controffensiva e forzando i difensori avversari a commettere fallo. Minuto 24: viene ammonito Thiaw. Giroud e un’iniziativa di Calabria scuotono i diavoli, poi arriva il trentottesimo e Thuram incornicia un capolavoro che avrebbe condotto Gianni Brera a scrivere pagine di letteratura: è 2-0. Il primo tempo finisce con l’evidenza della realtà terribile: il Milan deve sistemare la retroguardia o rischia imbarcate. La ripresa sancisce un’intensità mai doma, le due formazioni si fronteggiano quasi alla garibaldina, concedendosi falli tattici per placare le azioni. I milanisti gettano nella mischia Chukwueze in luogo dell’opaco Pulisic, ma il Robben nigeriano appare velleitario, sebbene volonteroso. Fino al minuto 58: Giroud, sempre lui, sempre vivo, imbuca per Leao, il portoghese sfrutta la sua esperienza sotto porta per uccellare un Sommer non proprio elettrico e accorciare sul 2-1. Speranze riaccese per gli ospiti. Inzaghi decide di scatenare il già citato fattore P: fuori Barella, Dimarco e Thuram, dentro Frattesi, Carlos Augusto e Arnautovic. Proprio i nuovi entrati, soprattutto Frattesi, eroe martedì scorso con la Nazionale di Spalletti, innescano movimenti repentini e al sessantanovesimo Calhanoglu lancia Lautaro dopo aver recuperato il pallone, il capitano interista serve di nuovo Mkhitarian che si inserisce in area e batte Maignan per la seconda volta. L’armeno, calciatore d’esperienza, giunto a Milano col fardello lipidico di aver già dato il meglio, smentisce le previsioni: si sta rivelando un valore aggiunto prezioso. A nulla valgono i cambi disperati milanisti. Entrano Florenzi, Okafor, ma il fattore P per ora è a senso unico. Al punto che, dopo un contatto tra Theo e Lautaro in area, l’arbitro Sozza opta per l’assegnazione del rigore. Il turco Calhanoglu tira dal dischetto e non sbaglia: 4-1, una colata di piombo fuso nel vecchio cuore rossonero. C’è tempo pure per l’ovazione a Frattesi: il solito Mkhitarian, lasciato libero di pascolare nelle praterie bagnate, serve un confetto al centrocampista ex Sassuolo. È 5-1 con assist al bacio. In questo derby, il bacio, è stato per il Milan un apostrofo nerazzurro sulle parole «L’abbiamo perso male».
Tutta colpa di Apelle figlio di Apollo e di quella palla di pelle di pollo lanciata lontano dall'augusto genitore per togliersi dai piedi il moccioso che voleva a tutti i costi giocare. Ha certamente cominciato così anche Timothy Weah, mentre il padre consultava il manuale del metodo Montessori; è andato a riprendere la palla, ha immaginato di vendicarsi per un'infanzia di solitudine e si è ritrovato a 18 anni a segnare gol da urlo con la maglia del Paris Saint Germain, la stessa di papà prima di quella del Milan e il doppiopetto da presidente della Liberia.
Passaporto statunitense, scatto devastante da gazzella, il ragazzo entra nella foto ricordo con Gianluigi Buffon che deviava in angolo le rasoiate di suo padre ed è il simbolo di una generazione di figli d'arte finalmente all'altezza del genitore 2. È finita l'epoca imbarazzante dei pargoli di Diego Maradona incapaci di palleggiare non pretendiamo con un'arancia, ma neppure con un melone; del figlio di Pelé (Edinho), che già era partito male volendo giocare con le mani - «da grande farò il portiere» - per finire in carcere per narcotraffico; di Jordi Cruijff perso fra le rocce di Malta dopo aver vissuto all'ombra del padre. Una volta i «figli di» erano garanzia di flop, venivano guardati con diffidenza da tifosi pronti a mettersi le mani nei capelli. Gli unici due fenomeni, additati come tali proprio perché eccezioni, erano Sandro Mazzola e Paolo Maldini.
Oggi tira un'altra aria, merito della maggior libertà, della precocità del libero arbitrio, delle fortune investite dalle famiglie, ma i millennials che discendono dagli alberi genealogici pallonari sono devastanti. Accanto a Timothy Weah e a Marcus Thuram (un altro destinato a far sentire il peso degli anni a Buffon) cresce una generazione di pischelli destinati alla Nazionale, per niente schiacciati dal peso del cognome, sfrontati nel dribblare i paragoni e pronti a far rimangiare ai nostalgici l'accusa d'essere solo figli di papà.
Il quadretto più emozionante lo abbiamo visto ai Mondiali di Russia, quando Kasper Schmeichel è stato a un passo dal regalare alla Danimarca i quarti di finale eliminando la Croazia che avrebbe conteso ai francesi la coppa del mondo. Il figlio di Peter, leggenda del Manchester United, con i guantoni regalati da papà ha parato un rigore di Luka Modric e ancora ai penalties si è comportato con classe da fenomeno davanti agli occhi di un genitore travolto dall'emozione. Il portiere del Leicester mostra un solo difetto: ha 29 anni e a questo punto bisognerà attendere suo figlio per vedere chiudersi il cerchio. La sua storia è simile a quella di molti: da bambino aveva come idolo un compagno di squadra del padre (per lui Eric Cantona, infatti cominciò da attaccante) e crescendo non riusciva a liberarsi dell'ombra del campione di famiglia. Finché un giorno, vedendolo spazzare di pugno in un'area affollata di energumeni, il vecchio Peter (ormai ospite fisso di Ballando sotto le stelle inglese) non disse: «Benvenuto figlio mio nella foresta dei giganti».
Roba romantica, potenzialmente valida per essere appiccicata alle altre figurine. È curioso come il figlio alla fine cerchi di entrare nei panni del padre, perfino di sovrapporsi nel ruolo. La cosa sta capitando a Justin Kluivert, 19 anni, nato dal divino Patrick (tranne che per i tifosi milanisti, solo sei gol prima di fare sfracelli al Barcellona), cresciuto come lui nelle giovanili dell'Ajax, pronto a rilevare gli allori del genitore partendo da destra. Lo farà nella Roma di Eusebio Di Francesco, che di giovani da indirizzare nel modo giusto ne conosce soprattutto uno, il suo Federico, anch'egli ala destra ormai fatta è finita (24 anni) nel Sassuolo. Giocatore solido, affidabile, in grado di ripetere la carriera del papà senza soffrire il paragone.
Per capire i segreti più nascosti della parentela vincente è necessario trasferirsi a Firenze, dove duettano con meravigliosa armonia due figli d'arte di primissima fascia: Giovanni Simeone (23 anni, figlio del Cholo) e Federico Chiesa (20 anni, figlio di Enrico), gente che gioca davanti, che corre verso i portieri e avverte brividi adrenalinici quando fa gol. È vero, Diego Simeone era un gran mediano, ma nella sua carriera ha segnato piu di 100 reti e sa come si fa. Curioso vedere in suo figlio le stesse caratteristiche (forza fisica, grinta, senso della posizione) svilupparsi venti metri più avanti. Per dare continuità alla dinastia Chiesa, il club viola ha portato a casa anche Lorenzo Chiesa, 14 anni. Pare abbia la stessa luce del fratello negli occhi. A conferma che Firenze ha la vocazione alla kinderheim, è stato ceduto da poco al Viitorul di Costanza un altro ventenne di un certo pedigrèe: Ianis Hagi, il figlio di Gheorghe, detto il Maradona dei Carpazi, che fece innamorare i tifosi di Barcellona e Real Madrid prima di venire a Brescia a chiudere la carriera.
Battezzati Leroy Sanè, imprendibile mezzapunta del Manchester City (figlio di Souleymane Sanè, storico capitano del Senegal) e Daley Blind, roccioso difensore del Manchester United (dopo che suo padre lo era stato negli anni Novanta dell'Ajax), la generazione di fenomeni in famiglia propone al mondo del pallone due pepite dai destini incrociati, almeno a leggere il curriculum dei padri. Il primo è fin troppo riconoscibile, si chiama Rivaldinho, ha 23 anni e pretenderebbe di ricalcare la carriera di quel signore che danzava calcio a Barcellona e ha fatto divertire i tifosi milanisti. Paragone impossibile. Il secondo si chiama Enzo Fernandez, si nasconde sotto il nome della mamma per non avere contraccolpi da psicanalista di Park Avenue ed è semplicemente il figlio di Zinedine Zidane. Ha 23 anni anche lui, se non è esploso fino ad ora è difficile che lo faccia in futuro, anche perché la cantera del Real Madrid non fa sconti: o sei Asensio o giochi poco. Fatherland è un luogo dello spirito in cui il pallone scotta.




