L’Iran appare sempre più solo dal punto di vista internazionale. Al di là della Russia, non si sono infatti registrate delle prese di posizione esattamente granitiche a favore degli ayatollah dopo l’operazione militare di Washington contro i siti nucleari della Repubblica islamica.
La Cina ha, sì, detto di «condannare fermamente» gli attacchi statunitensi, sostenendo che «violano gravemente gli scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale». Tuttavia, al di là di questa condanna generica, la posizione di Pechino si è mostrata piuttosto fiacca. «La Cina invita le parti in conflitto, in particolare Israele, a raggiungere un cessate il fuoco il prima possibile, a garantire la sicurezza dei civili e ad avviare il dialogo e i negoziati», ha dichiarato il Dragone, dicendosi anche «pronto a collaborare con la comunità internazionale per unire gli sforzi e sostenere la giustizia, e adoperarsi per ripristinare la pace e la stabilità in Medio Oriente».
Si tratta di dichiarazioni piuttosto blande, se si pensa che la Cina ha firmato con l’Iran, nel 2021, un accordo di cooperazione venticinquennale. Non solo. Pechino è un grande acquirente di petrolio iraniano e il Dragone, assieme alla Russia, ha anche tenuto delle esercitazioni navali con Teheran lo scorso marzo. La Repubblica popolare ha d’altronde sempre visto negli ayatollah una sponda per cercare di rafforzare la propria influenza geopolitica sullo scacchiere mediorientale. Non è allora del tutto escludibile che, giunti a questo punto, Pechino veda come probabile un collasso del regime khomeinista. E che stia quindi iniziando, per così dire, a sfilarsi.
Anche l’Arabia Saudita, che è dal 2023 in una fase di distensione con Teheran, si è espressa in modo piuttosto blando. A intervenire dopo gli attacchi statunitensi è stata innanzitutto la Commissione per la regolamentazione nucleare di Riad, che ha dichiarato: «Non sono stati rilevati effetti radioattivi sull’ambiente del Regno e degli Stati arabi del Golfo a seguito degli attacchi militari americani contro gli impianti nucleari iraniani». Dall’altra parte, il governo saudita «ha ribadito la sua condanna e denuncia della violazione della sovranità della Repubblica islamica dell’Iran, esprimendo la necessità di fare tutto il possibile per esercitare moderazione, ridurre l’escalation ed evitare l’escalation».
Anche in questo caso, non troviamo una presa di posizione troppo energica. Il punto vero è che Riad ha sempre temuto lo scenario di un Iran con la bomba atomica. Quindi, al di là della condanna di facciata, è probabilmente tutt’altro che scontenta dell’attacco americano contro i siti nucleari della Repubblica islamica. Non dimentichiamo poi che, nei desiderata di Donald Trump, l’eventuale ricostruzione di Gaza dovrebbe passare attraverso Israele e la stessa Arabia Saudita. È inoltre interessante sottolineare che alla base degli accordi di Abramo da lui mediati nel 2020 emergeva come premessa il comune timore di Gerusalemme e Riad nei confronti del nucleare iraniano. In fin dei conti, per i sauditi Teheran è sempre rimasta de facto un rivale regionale. È quindi improbabile che si stiano stracciando realmente le vesti per l’attacco contro i siti nucleari degli ayatollah. Ne consegue che l’isolamento internazionale del regime khomeinista sta probabilmente crescendo. Non si tratta certo di una buona notizia per l’Iran, anche alla luce del fatto che i suoi proxy si stanno rivelando sempre più deboli.







