L’Asia ha fame di lingotti e prepara di depositi. In Pakistan i pannelli solari mandano in crisi il sistema idrico. Gas russo, il prezzo alla Cina è scontatissimo. Rame ancora superstar, prezzo vicino ai massimi.
Ansa
Mentre l’Ue è in ginocchio per le sanzioni-boomerang , l’economia russa resiste: il colosso del gas entro fine mese approverà una cedola da 20 miliardi, di cui la metà andrà al Cremlino. Cresce l’export verso India e Cina, che poi rivendono i combustibili a noi.
I sei pacchetti di sanzioni varati sin qui dall’Unione europea, applicati alla Russia in seguito all’invasione dell’Ucraina decisa da Vladimir Putin, funzionano? Funzionicchiano, forse, come disse qualcuno in altri tempi e riguardo ad altri temi. È certamente vero che l’economia russa per alcuni aspetti sta subendo dei danni, tuttavia, per altri, mostra una resistenza e una capacità di reinventarsi che ha sorpreso molti osservatori, soprattutto negli Stati Uniti. Complessivamente, nel 2022 la Russia dovrebbe raggiungere un valore dell’export di idrocarburi superiore ai 330 miliardi, una cifra enorme, in crescita rispetto all’anno precedente di oltre il 35%. Potendo vendere sempre meno in Occidente i propri idrocarburi, con una certa rapidità la Russia si è rivolta ad altri mercati che non applicano regimi sanzionatori, come l’India. Questo Paese ha aumentato a dismisura l’import di greggio dalla Russia, arrivando quasi a saturare la capacità di raffinazione per poi esportare prodotti petroliferi in grandi quantità.
Anche la Cina è cresciuta come partner commerciale, non solo rispetto al gas venduto da Mosca attraverso i gasdotti, ma anche per petrolio, carbone e Lng. Nei primi sei mesi del 2022 l’importazione di gas via gasdotto, chiamato Power of Siberia, ha raggiunto il massimo storico, con una crescita rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente del 63%. Per il terzo mese consecutivo, a luglio la Russia è risultata essere il maggior esportatore di petrolio verso la Cina (+7,6% rispetto a un anno prima), a discapito di altri Paesi dai quali Pechino ha ridotto l’import. La Cina compra volentieri anche il carbone russo, dato che l’import di Pechino nel solo mese di luglio ha fatto segnare un +14%. In Cina arrivano anche molte navi metaniere russe, tanto che i dati fanno segnare un +36% di import di Lng nel primo semestre 2022 rispetto allo stesso periodo del 2021. La Russia è diventato il quarto fornitore della Cina, dopo Australia, Malesia e Qatar e nel primo semestre ha esportato verso Pechino 4 miliardi di metri cubi di gas. La sorpresa è che i cinesi, a loro volta, esportano Lng. La Jiangxi jovo energy, ad esempio, che nel primo semestre del 2022 ha fatto registrare un aumento di profitti del 61,5% rispetto all’anno precedente, avrebbe venduto il carico di almeno una nave metaniera a un acquirente europeo. Altri soggetti, come Sinopec, avrebbero rivenduto quantitativi di Lng all’estero. Si tratta di movimenti piccoli, ma che segnano l’inizio di una tendenza.
In Russia, Gazprom prevede di staccare un maxi dividendo. Avendo sviluppato un utile nel primo semestre 2022 pari ad oltre 41 miliardi di euro, a settembre un’assemblea straordinaria degli azionisti discuterà la distribuzione di un dividendo da oltre 20 miliardi di euro, che per circa la metà entreranno direttamente nelle tasche del governo di Mosca. Dopo avere chiuso per tre giorni di manutenzione il Nord stream 1, il Cremlino accusa l’Ue di mettere i bastoni tra le ruote a Gazprom, riferendosi alla ormai celeberrima turbina Siemens ferma in Germania, la cui mancanza impedirebbe un normale flusso di gas attraverso il gasdotto. Il portavoce Dmitry Peskov ha affermato ieri, durante un incontro da remoto con i giornalisti, che Gazprom è pronta ad adempiere agli obblighi contrattuali sulle forniture di gas, ma che l’Unione europea sta ostacolando la ripresa del Nord stream 1 perché applica le sanzioni. Intanto, il G7 dei ministri delle Finanze che si terrà nei prossimi giorni dovrebbe discutere un piano messo a punto dagli Stati Uniti per imporre un prezzo massimo al petrolio proveniente dalla Russia. Dal Cremlino è arrivato però un altro avvertimento all’Occidente: «Mosca non fornirà greggio o prodotti petroliferi raffinati a quelle società e nazioni che introdurranno un tetto massimo al prezzo del petrolio russo», ha detto ieri il vice primo ministro Alexander Novak.
Dalla parte occidentale, l’applicazione delle sanzioni alla Russia ha comportato la necessità di trovare fornitori alternativi per carbone e petrolio. Il gas non è oggetto di una vera e propria sanzione: Bruxelles, ben sapendo di non poter fare a meno completamente del gas russo dall’oggi al domani, ha lanciato nella primavera scorsa il programma Repowereu che prevede un progressivo distacco dalle forniture russe per arrivare entro la metà del 2023 a un azzeramento dei flussi. La realtà sta già dimostrando che questa intenzione è destinata a restare tale, considerato che nel frattempo Mosca non è rimasta (e non rimarrà) a guardare. In Italia, in particolare, si sono inaugurati i tazebao di bollette del gas, a significare certo il disagio di chi si trova a pagare dieci volte tanto un’energia che sembra diventata un bene di lusso, ma soprattutto il fallimento della politica estera ed economica di un colosso dai piedi d’argilla. A conti fatti, l’effetto economico delle sanzioni sull’economia russa, se mai arriverà a essere decisivo, è molto più a lungo termine di quanto inizialmente previsto da chi ha voluto le sanzioni, mentre, per converso, il contraccolpo sull’economia europea è stato immediato e drammatico. Un ripensamento appare sempre più necessario.
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- Il pagamento in rubli pregiudica le scorte per il prossimo inverno, dove si rischiano blackout. Pechino approfitta della situazione per guadagnarci. E Joe Biden chiosa: «L’emergenza cibo in Europa sarà reale».
- Il G7 e il governo inglese preparano altre sanzioni contro politici e aziende moscovite.
Lo speciale contiene due articoli
Sono passate 48 ore da quando Vladimir Putin ha deciso di muovere le sue pedine e tentare di disinnescare le sanzioni sul gas. Il numero uno del Cremlino ha dato mandato alle principali società, in testa Gazprom, di far modificare i contratti di vendita dell’oro azzurro in modo da sostituire il dollaro con il rublo. Alla sola notizia la valuta è schizzata, idem il prezzo del gas e ieri, con la riapertura della Borsa di Mosca, pure i titoli azionari del comparto. Gli esperti del comparto sanno bene che con la guerra in corso si aprono due fronti. Il primo è tecnico e riguarda le società coinvolte. Esiste infatti una piattaforma legale a cui potranno rivolgersi per un eventuale arbitrato e si chiama Energy charter treaty. A contratti in corsa è difficile cambiare valuta e potrebbero esserci importanti penali. Ieri, in scia a quanto sostenuto dai tedeschi, Mario Draghi ha dichiarato che sostituire dollari con rubli è una violazione dei contratti. Vero, sicuramente. Ma in questi momenti prevale però la componente politica con i suoi tempi di risoluzione decisamente più ravvicinati.
Per politica intendiamo il fatto che la Russia abbia scatenato la guerra e l’Europa sta rifornendo di armi l’Ucraina. Il che rende gli arbitrati tra società inutili. E questo è il secondo fronte aperto da Mosca, fronte che gli analisti di materie prime tengono in forte considerazione. L’effetto della scelta unilaterale di Putin serve quindi a mettere nell’angolo i compratori europei. Dal momento che Fed e Bce hanno congelato le riserve russe in valuta estera, i Paesi Ue si troveranno a fornire una nuova camera di compensazione per rifornirsi di rubli e quindi implicitamente rafforzeranno la valuta, oppure rallenteranno o cesseranno gli acquisti. Mosca sa bene che così facendo verrà compromessa l’attività di stoccaggio fondamentale per gestire l’ingresso nella primavera e per le aste estive. In pratica rischiamo di pagare molto più di ora il gas che servirà per riempire gli stock primaverili e, se nulla cambierà, anche quelli agostani.
L’alternativa sarà quella di non avere scorte sufficienti. Condannandoci a un inverno di razionamenti e blackout programmati. E non si tratta di uno scenario campato per aria. Tanto più che il primo step (aumento prezzi) è già reale. Un danno a cui si aggiunge anche la beffa. L’Europa si sta già rivolgendo altrove per rifornirsi. Ma a venderci il gas Usa non sono solo gli americani, pure i cinesi che, per non farci mancare nulla, ci mettono sopra pure il margine aggiuntivo.
Unipec, controllata della cinese Sinopec ha venduto ben tre gasiere ad acquirenti presenti in altrettanti porti Ue. Le spedizioni, il cui arrivo è previsto ai primi di giugno, sono organizzate da Venture global e partiranno dalla Louisiana. Il gioco è molto semplice. Se fino a oggi l’Europa godeva di uno sconto rispetto al mercato asiatico perché nelle trattative faceva valere la qualità e il prezzo basso del gas russo, adesso il Vecchio Continente tiene il coltello dalla parte della lama.
La rottura con la Russia ha nei fatti innescato un guerra al gas che rischia di arricchire non solo gli americani ma anche cinesi e altri player asiatici che negli ultimi tempi avevano fatto man bassa di contratti di gas naturale liquido. Qui si inserisce la proposta di Joe Biden, che sarà discussa meglio oggi, di sostituire i 50 miliardi di metri cubi di gas attualmente forniti dalla Russia con forniture alternative. L’Ue è sottoposta a forti pressioni affinché estenda l’embargo all’energia russa come fatto da Washington e Gran Bretagna ma il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha spiegato che uno stop immediato provocherebbe una recessione nel Vecchio Continente. D’altronde la spirale prezzi materie prime e inflazione era già prevedibile prima. Adesso con il carico da undici imposto dall’invasione dell’Ucraina l’economia europea traballerà a lungo. I desideri della politica non possono certo piegare la realtà del mercato. Lo spiega bene Mike Yarwood, ricercatore senior presso l’Oxford Institute for energy studies, in un suo recentissimo paper. L’Europa dovrà prepararsi a pagare prezzi del gas più alti nei prossimi anni per raggiungere gli obiettivi del piano. La capacità di import di Gnl è concentrata nella penisola iberica ma la Spagna ha scarsi collegamenti via pipeline per spostare il gas importato nel nord Europa. Le nazioni dell’Europa orientale più fortemente dipendenti dal gas russo non hanno le infrastrutture per beneficiare delle importazioni di Gnl con terminali vicini già operativi a pieno regime, il che significa che avrebbero difficoltà ad aumentare ulteriormente le importazioni.
Un discorso simile vale anche per l’Italia. Restano dunque due strade. O gli Stati Uniti garantiranno una sorta di piano Marshall dell’energia. Cioè gli extra costi generati dalla domanda saranno versati dalle casse pubbliche Usa oppure l’economia Ue cadrà vittima dei blackout. Poco importa che al piano si unisca pure il Canada. E che magari in futuro si possa trovare una soluzione per rendere la Libia un partner stabile da cui comprare energia a buon prezzo.
Il terzo incomodo resta la Cina o più in generale l’Asia. Un parte del mondo che sta dimostrando di sapersi giocare le carte nel migliore dei modi.
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