- L’Italia può cambiare rotta sulla gestione dei flussi riformando il sistema della cooperazione. Basta invertire le percentuali di spesa tra progetti multilaterali e bilaterali. Così da destinare i soldi ai Paesi di partenza.
- Il leader M5s sfila sull’isola e punge la sinistra: «È per l’accoglienza indiscriminata» La replica: «Sembra Giorgia Meloni». Matteo Piantedosi: «Le persone pericolose vanno negli hub».
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Il modello Australia prevede uno schema semplice. Arrivi illegalmente? Vieni spedito altrove o su un’isola sperduta o in un centro di accoglienza ospitato da uno Stato terzo. Certo, la grande nazione dell’Oceania gode di una posizione vantaggiosa e di una forza economica in grado di primeggiare sulla costellazione di isolette. Il nostro caso è ovviamente diverso. Ma qualunque opzione si cerchi, dagli accordi con i Paesi del Sahel e del Magreb fino alla creazione di campi temporanei gestiti da Onlus, servono soldi. Necessario trovare una soluzione che implichi fondi italiani e non la subordinazione all’Europa o ad altre entità transnazionali. Ci limitiamo a una proposta che riguarda i fondi per la cooperazione e sviluppo. Basterebbe invertire le percentuali di spesa tra progetti multilaterali e bilaterali per svoltare. Per avere a disposizione ogni anni almeno 2 miliardi di euro da destinare a singoli progetti decisi dal governo e con destinazione mirati. Quindi a rafforzare il progetto di rimpatrio e sussistenza dei Paesi nel Nord Africa.
La Repubblica italiana ha stanziato per il triennio in corso circa 15,5 miliardi per il sistema di cooperazione allo sviluppo. Fa una media ben al di sopra dei 5 miliardi all’anno, in crescita rispetto a quella dei tre anni precedenti che si era fermata a 4 miliardi. Un monte di soldi che non sempre viene speso tutto e che va ad alimentare e finanziare numerose attività in giro per il globo. La spesa effettiva si ferma intorno ai 4 miliardi per questo triennio. È ciò che la diplomazia chiama «fare sistema». Sappiamo però tutti che dietro agli obiettivi formali (diritti umani e cooperazione) c’è anche la creazione di un soft power e la possibilità di utilizzare questi miliardi per creare relazioni preferenziali in uno Stato piuttosto che in un altro e - nel caso africano - con una tribù piuttosto che con un’altra.
È il modo che utilizzano tutte le nazioni occidentali per bilanciare le sfere di competenza degli alleati o contrastare quelle degli avversari e avviare canali preferenziali in ambienti dove la diplomazia tradizionale può fare poco. Forse dovremmo dire che quasi tutte le nazioni usano in pieno questi strumenti. L’Italia è un caso a parte. Il 70% dell’intera somma viene distribuita a iniziative con matrice multilaterale e solo il rimanente viene destinato a canali bilaterali. Nel 2020 la percentuale è stata addirittura del 73 e del 27. Mentre nel 2018 era 68 contro 32. In pratica l’Italia affida la fetta maggiore dei fondi raccolti tramite ministeri, ma anche Regioni, università, enti pubblici e l’8 per mille, a istituzioni sovranazionali che poi dislocano i fondi in base a decisioni che quasi nulla hanno a che fare con gli interessi nazionali del nostro Paese. Basti pensare che le iniziative multilaterali passano dalla Banca mondiale o da strutture come la Fao. Mentre la parte del leone, in quanto a veicolo di erogazione sul campo, la fa l’Unione europea. Così però chi beneficia dei fondi provenienti dall’Italia non sa nemmeno che arrivino da Roma. Se invertissimo le proporzioni, almeno il 70% dei circa 3 miliardi da spendere (sottratto il miliardo che di solito è destinato ad attività incomprimibili) potrebbe essere destinato a opere gestite direttamente dal nostro Paese. Sono circa 2 miliardi all’anno. Anche se non fossero tutti destinati per un modello Australia, tutti quelli che finiscono alla fascia del Sahel e del Nord Africa contribuirebbero a creare un sistema a favore dell’Italia.
«Gli interventi saranno volti a rafforzare la cooperazione con i Paesi di origine e di transito dei flussi migratori, nei Paesi prioritari del Fondo Africa - Burkina Faso, Ciad, Eritrea, Etiopia, Guinea, Mauritania, Niger, Somalia, Sudan, Tunisia - nei Paesi limitrofi e nelle aree di maggiore provenienza dei flussi», si legge nel documento della Camera che commenta l’Agenda 2030 e pubblicato lo scorso autunno. «Particolare attenzione sarà assegnata a Costa D’Avorio, Eritrea, Ghana e Nigeria. Le risorse includono quelle del Fondo Africa (50 milioni, ndr)». Forse qualche attenzione in più l’avrebbero meritata il Mali, il Niger e la Mauritania. Il caso del Niger è sotto gli occhi di tutti. Abbiamo 350 militari dislocati eppure stiamo assistendo a un colpo di Stato che principalmente è stato scaturito dall’odio verso i francesi ma potrebbe scivolare a favore dei russi. Insomma la cooperazione dovrebbe servire a sostenere un po’ di soft power a monte e a valle a organizzare un sistema di accoglienza presso terzi. Certo, a chi obietta che non bastano i soldi non possiamo non rispondere che è vero. Serve pressione politica e sostegno militare. Ma il caso della Tunisia potrebbe proprio venire sbloccato dal denaro. E con i fondi avviare i centri per clandestini.
Per arrivare a una soluzione c’è da mettere mano a schemi consolidati da quasi 30 anni. Al momento i due ministeri che gestiscono più risorse sono la Farnesina e il ministero dell’Interno. Ben più di 1 miliardo ciascuno. Nel primo caso, è una scelta per competenze, nel secondo perché dentro il mare magnum dei fondi c’è anche la grande fetta che riguarda i rimpatri. Voce che forse varrebbe la pena scomputare, così come quella legata ai vaccini o ad altri capitoli di spesa «poco politici» o comunque con minore possibilità di incidere nel tessuto sociale e politico del Paese beneficiario. Chiaro che oltre a invertire i rapporti di spesa tra progetti multilaterali e bilaterali bisognerebbe rivedere il modello di spesa, coinvolgendo maggiormente il ministero della Difesa. Inutile spiegare perché cooperazione, rimpatri e divise saranno sempre più voci intrecciate. Riformare il mondo della cooperazione non è difficile e adesso le necessità sono impellenti.



