Nemmeno il mese scorso il governo Meloni inviava a Pechino una lettera dove comunicava l’uscita dalla Via della seta, quel memorandum firmato dal primo governo Conte nel 2019 per rafforzare i rapporti tra Italia e Cina. I motivi della disdetta furono soprattutto politici, anche perché il nostro Paese sarebbe rimasto l’unico del G7 ad avere un rapporto così strutturato con il Dragone, creando non poche preoccupazioni sia in Europa sia negli Stati Uniti. A distanza di un mese, però, pare quasi che i cinesi usciti dalla porta principale siano già rientrati dalla finestra. È notizia di questi giorni, infatti, dell’entrata del gruppo Cosulich nella logistica insieme con la compagnia di Stato cinese Cosco Shipping con il quale condivide la joint venture Coscos. Così, proprio attraverso Coscos, è stato acquisito il 100% di Trasgo, azienda italiana nata a Novara, con un fatturato di oltre 36 milioni di euro, attiva a livello nazionale e internazionale nella logistica integrata. Tra i clienti dell’azienda c’è Lavazza, leader nel caffè in Italia, ma anche il gruppo Mirato che produce prodotti per l’igiene personale. Il presidente Augusto Cosulich ha annunciato che le acquisizioni non finiranno qui, presto ci sarà anche l’acquisto di un’azienda siderurgica. Controllare la logistica, significa controllare talvolta anche la produzione. I cinesi sembrano saperlo molto bene. Dal momento che ormai da anni hanno iniziato a investire fortemente nel settore della distribuzione, soprattutto nel Vecchio Continente. Va ricordato che la joint venture tra i fratelli Cosulich e Cosco risale al 2005. E che Cosco Shipping lines Italy Srl agisce in qualità di agente generale della filiale principale di Shanghai, con scali nei porti di tutta Italia da dove vengono smistate merci per tutte le principali destinazioni del mondo. Nella primavera dello scorso anno, uno studio dell’U.S.-China economic and security review commission aveva acceso i riflettori sui rischi degli interessi cinesi nel settore. Era stato citato l’esempio di Logink, una piattaforma di gestione della logistica nata in Cina nel 2007 e ormai utilizzata a livello internazionale, capace di velocizzare i contatti tra gli utenti o di individuare più facilmente l’ubicazione dei carichi. Presente in Italia nei porti di La Spezia e Marina di Carrara, a detta della commissione statunitense, la piattaforma rappresenterebbe una minaccia per i dati degli utenti. Permetterebbe alla Cina e al partito comunista di Xi Jinping di fare i propri interessi mettendo a rischio la sicurezza degli stati che la utilizzano. L’avanzata dei cinesi nel settore della logistica europea va avanti ormai da anni, con l’obiettivo evidente di impadronirsi della gestione delle infrastrutture e della logistica mondiale. In agosto è sbarcata in Italia iMile Deliver, la società cinese di logistica e consegne per l’e-commerce. Fondata da Rita Huang, già manager in Alibaba e Huawei, la società è già presente in Germania e diverse altre parti del mondo, con una specializzazione nelle consegne nell’ultimo chilometro per il commercio elettronico. Nel dicembre scorso è stata quotata in Borsa un’azienda di Bari chiamata Yakkyo, che permette di vendere prodotti importati dalla Cina senza acquistarli prima e dunque senza sostenere costi di magazzino e personale. L’obiettivo è quello di semplificare il processo di acquisto e spedizione di prodotti provenienti dalla Cina. I rapporti tra il nostro Paese e Pechino, quindi, continuano a mantenersi più vivi che mai, nonostante lo scorso anno la Qingdao Port International, uno dei colossi della logistica cinese, era uscita dall’azionariato della Apm Terminals di Vado Ligure, la società che gestisce i terminali marittimi Vado Gateway e Reefer Terminal nel porto dell’Autorità di sistema del Mar Ligure Occidentale. A Vado, non va dimenticato, resta ancora la Cosco Shipping Ports, con il 40% dell’azionariato. Negli anni dell’avanzata di Pechino in Europa, c’erano state forti tensioni sull’entrata proprio di Cosco nel porto di Amburgo. Tanto che il governo tedesco che decise di bloccare l’avanza dei cinesi che puntavano al 35% del terminal container. Nel 2022 fu dato il via libera a una quota minoritaria, del 24,9%.
Dall’inizio dell’anno, le azioni dell’area asiatica hanno seguito il trend globale positivo seppure in modo attenuato, registrando un rialzo di circa il 6% nei primi sette mesi, frenate soprattutto dall’andamento del listino cinese.
A partire dallo scoppio della guerra in Ucraina, i flussi di capitali globali si stanno allontanando dalla Cina, a favore di altri mercati asiatici emergenti come India e Vietnam, poiché gli investitori cercano alternative con minori rischi economici e geopolitici.
Nel mese di luglio, ad esempio, le azioni cinesi hanno registrato il loro più grande guadagno mensile da gennaio, poiché una serie di dati deboli ha alimentato la speranza che funzionari e responsabili politici annuncino stimoli economici per rilanciare la crescita ed evitare la possibilità di soccombere a un attacco di deflazione.
«Sono stati soprattutto i listini giapponesi, vietnamiti e coreani a distinguersi in questi mesi, con l’India che, a partire da aprile, ha mostrato forti segnali di recupero», spiega Salvatore Gaziano, direttore investimenti di Soldiexpert scf. «L’ampio indice giapponese Topix è salito dell’1,5% a luglio, segnando il settimo mese consecutivo di guadagni, la serie di vittorie più lunga del decennio. I rendimenti dei titoli di Stato a dieci anni di riferimento sono saliti al livello più alto dalla metà del 2014 dopo che la Banca del Giappone ha compiuto il passo inaspettato di allentare i controlli sul mercato dei titoli governativi. Nella stessa settimana, Toyota motor ha riportato che il suo utile operativo per il periodo aprile-giugno è stato di 1,1 trilioni di yen (equivalenti a 7,7 miliardi di dollari), in crescita del 93,7% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Ciò è stato dovuto all’attenuazione della carenza di chip e agli sforzi per migliorare la produttività, che hanno incrementato le vendite in tutto il mondo», conclude Gaziano.
Al contrario, l’economia cinese si ritrova nel mezzo di una ripresa inaspettatamente lenta dalla pandemia, ostacolata dal crollo del settore immobiliare e dall’elevata disoccupazione giovanile. I nuovi ordini e la produzione sono entrambi più deboli rispetto all’inizio dell’anno. L’industria cinese è sotto pressione, con gli utili societari crollati nella prima metà dell’anno, inferiore del 16,8% rispetto ai primi sei mesi del 2022. Secondo il Fondo monetario internazionale, la seconda economia mondiale dopo gli Stati Uniti crescerà del 5,2% quest’anno, dopo un modesto 3% dell’anno scorso a causa delle rigide restrizioni del coronavirus. Tuttavia, molti investitori restano preoccupati per le conseguenze di un potenziale conflitto a Taiwan e delle tensioni con gli Stati Uniti.
Le preoccupazioni riguardo ai diritti umani in Cina stanno poi crescendo, soprattutto negli Stati Uniti, dove aumentano il numero di raccolta dei fondi (come il Pharus Asian sicav) e degli Etf che escludono i titoli cinesi dai panieri di azioni asiatiche. L’India, invece, sta intercettando i flussi verso l’Asia come destinazione alternativa alla Cina. L’indice di riferimento, il Sensex, si trova ora ai massimi storici, nonostante le valutazioni non proprio a buon mercato se confrontate con quelle di altri mercati emergenti. L’India presenta un’attrazione particolare grazie alle aspettative di una crescente domanda interna alimentata da una classe media in forte espansione e da una crescita demografica (a differenza della Cina) effervescente. Inoltre, diversi investitori prevedono che molte grandi multinazionali trasferiranno la produzione dalla Cina all’India, come ha annunciato la scorsa settimana il produttore di chip statunitense Advanced micro devices.
«Le prossime mosse delle Banche centrali asiatiche dovrebbero discostarsi dal ciclo di rialzo dei tassi di riferimento della Federal reserve americana, date le diverse condizioni macroeconomiche delle due aree geografiche», spiega nelle sue previsioni settimanali, Christiaan Tuntono, senior economist, Asia Pacific di Allianz global investors. Per questo motivo, «un allentamento monetario dovrebbe sostenere la crescita dell’Asia, soprattutto per quanto riguarda l’economia interna. Prevediamo che a beneficiarne saranno soprattutto economie come Cina, Giappone, India e Indonesia. Tale evoluzione favorirà anche le economie più esposte all’esportazione, quali Hong Kong, Singapore, Corea, Taiwan, Malesia e Vietnam, che tuttavia risentiranno maggiormente dell’indebolimento della domanda globale», conclude l’esperto.
«Nel futuro tutte le società saranno Internet company». Andy Grove, tra i fondatori di Intel più di 20 anni fa aveva formulato questa previsione, che si è dimostrata fondata visto che oggi la Rete ha pervaso quasi qualsiasi business.
Alcune società hanno naturalmente cavalcato alla grande questo business e fra le prime dieci società per capitalizzazione di mercato fra le «Internet company» troviamo soprattutto i giganti americani e cinesi: Alphabet (la società che controlla Google), Amazon, Meta platform, Tencent, Alibaba, Meituan, Netflix, Paypal, Jindong mall, Service now. Seguite dai colossi online delle vacanze: Booking e Airbnb.
«La capitalizzazione di queste società è fortemente scesa da inizio anno dopo una lunga cavalcata per effetto dell’aumento dei tassi d’interesse che hanno ridimensionato i multipli ma non certo le loro prospettive», spiega Salvatore Gaziano, direttore investimenti di Soldiexpert Scf.
Anche perché, a differenza dello scoppio della bolla della new economy, nel 2000 dove queste società erano spesso ancora alla ricerca di un solido business e producevano bilanci in perdita, oggi sono società redditizie con posizioni finanziarie molto positive e solide.
Molte delle società statunitensi del settore stanno pianificando programmi di riacquisto di azioni per il 2022 del valore di 1 trilione di dollari. Nove titoli statunitensi sono spesso tra i primi dieci dei fondi comuni che puntano sul Web. Soprattutto Microsoft, Apple, Alphabet e Amazon.
Di recente, però, sono state pubblicate le trimestrali dei colossi del mondo digitale che risentono del rallentamento economico in atto.
Alcune trimestrali sono state superiori alle attese, tra cui quella di Microsoft, dopo aver previsto una crescita a doppia cifra dei ricavi in quest’anno fiscale grazie alla domanda di servizi di cloud computing. Lo stesso vale per Alphabet (Google), società che ha registrato comunque vendite migliori del previsto, alleviando al momento le preoccupazioni per un mercato pubblicitario in rallentamento.
Non brillanti i conti di Meta platforms, ex Facebook, che ha annunciato la prima contrazione trimestrale dei ricavi della sua storia con risultati sotto le attese degli analisti. La società di Mark Zuckerberg ha chiuso il secondo trimestre con ricavi in calo dell’1% a 28,8 miliardi di dollari e un utile netto in calo del 36% a 6,6 miliardi. Per il terzo trimestre la società ha previsto ricavi per 26-28,5 miliardi, meno dei 30,32 miliardi delle previsioni.
Ciò detto, l’investimento nei colossi del Web appare ancora interessante. Nella maggior parte dei casi i titoli, i fondi comuni o gli Etf che puntano su questo comparto presentano ancora rendimenti molto positivi, nonostante le difficoltà attuali dei mercati.
Il titolo Alphabet in tre anni è cresciuto dell’85% circa, quello Amazon del 36%. Più in difficoltà Meta (in calo del 12%) e Netflix (giù del 30%). Più modesti, ma pur sempre in crescita, i rendimenti di Shopify (in salita del 3%) e Booking.com (+0,45%).
Seduta di realizzi, ieri, sul titolo Autogrill che comunque incassa commenti positivi in relazione a una possibile aggregazione con la svizzera Dufry da cui nascerebbe un colosso da oltre 6 miliardi di capitalizzazione. I titoli del gruppo controllato dalla famiglia Benetton hanno lasciato sul terreno di Piazza Affari il 4,8% a 6,97 euro, dopo il rally di martedì spinto dalle indiscrezioni di Bloomberg sull’esistenza di negoziati in corso con Dufry per una eventuale fusione. Autogrill ha poi indicato in una nota che, «nell’ambito della propria strategia di crescita, il gruppo è interessato a valutare diverse opportunità strategiche e a tal fine intrattiene interlocuzioni anche con operatori del settore nell’obiettivo prioritario della promozione dello sviluppo di Autogrill e del perseguimento della creazione di valore per tutti gli stakeholder». Nessuna smentita, dunque.
L’accordo potrebbe essere simile a quello stretto tra Essilor e Luxottica con Dufry che offre azioni Dufry ad Autogrill e la holding dei Benetton, Edizione, che scambia la sua quota del 50,1% di Autrogrill con una quota di un’entità combinata compresa tra il 20 e il 25%. Mentre il mercato si interroga sulle combinazioni dell’operazione e sulle possibili sinergie industriali, però, non deve passare inosservato un dettaglio su quella che potrebbe essere la compagine azionaria dell’eventuale gruppo post matrimonio. Perché Dufry conta tra i soci di maggior peso Advent (al 10,11%) e il fondo sovrano del Qatar (al 6,9%) ma ha anche firmato recentemente un accordo di joint venture con Alibaba in Cina che ha fatto entrare il colosso di Jack Ma nel capitale della società di Basilea con una partecipazione del 5,4%. Secondo alcuni broker si tratta di un punto di forza perché in caso di nozze verrebbe allargata l’esposizione geografica del gruppo nella regione dell’Asia Pacifico e nel Medio Oriente, dove Dufry potrebbe fungere da facilitatore per ampliare l’ambito geografico di Autogrill. La presenza dei cinesi nel capitale rischierebbe però di diventare anche ingombrante. Potrebbe esserci ampia materia per spingere il governo a esercitare lo «scudo» del golden power? Andrebbe inoltre chiarito se Alibaba è solo un azionista passivo e se ci sono accordi commerciali con la paytech Alipay.
Attualmente, il 50,1% di Autogrill (che capitalizza 2,8 miliardi) fa capo a Schematrentaquattro, a sua volta controllata al 100% da Edizione. Con un eventuale deal la holding dei Benetton perderebbe la maggioranza assoluta e rimarrebbe con una quota di maggioranza relativa che ci si aspetta sarà intorno al 20%. L’obiettivo di Edizione resta quello di rimanere azionista di riferimento delle società ritenute strategiche, ossia Atlantia (su cui pochi giorni fa è stata lanciata un’Opa insieme con Blackstone) ma anche Autogrill e Benetton group. Già in passato il principale azionista di Autogrill ha segnalato di essere aperto a diluire la sua partecipazione al di sotto del 50%, soprattutto in caso di una trasformazione che preveda una fusione con uno dei principali concorrenti. Inoltre, la società aveva dichiarato che l’aumento di capitale di 600 milioni di euro dello scorso anno era mirato a rafforzare la struttura finanziaria del gruppo per consolidare il suo posizionamento di leadership e per essere pronta a cogliere sfruttare le potenziali opportunità di mercato. Non solo. Gli stessi rapporti di Autogrill con Dufry sono consolidati, tanto che nel 2015 proprio la società svizzera aveva rilevato il controllo dello spin off World duty free per 1,3 miliardi.
Investire nel mercato cinese può essere un’opportunità, ma non è per deboli di cuore. Dopo che il mercato cinese nel 2021 si era rivelato tra i migliori al mondo (+29,49% l’indice Msci China), l’incantesimo pare essersi spezzato nel 2022. Il motivo? Un dirigismo governativo sempre più forte in alcuni settori chiave, come quello delle piattaforme informatiche e dell’educazione online, ma anche l’immobiliare.
«Questo ha provocato un crollo di molti titoli e soprattutto quelli legati alla tecnologia», spiega Salvatore Gaziano, direttore investimenti di Soldiexpert scf, «Facile quindi comprendere come i pareri degli strategist sulla Cina siano molto differenti (mentre sull’obbligazionario cinese c’è un certo consenso). Peraltro, è difficile parlare di un unico mercato poiché esistono veramente molti indici cinesi investibili con sottostanti anche molto differenti con alcuni riferiti solo al mercato interno e altri globali o specializzati».
Il mercato interno cinese, comunque, appare in forte crescita: digitalizzazione e automazione sono dei trend molto forti, anche perché il Partito comunista ha deciso da tempo di incentivare la transizione dell’economia verso prodotti di maggiore valore. Se negli anni Novanta la Cina era il Paese da dove arrivavano i giocattoli, oggi è quello da dove giungono la maggior parte dei pezzi per produrre le batterie dei veicoli elettrici. Fra i motivi del recente ribasso dei titoli cinesi vanno considerati anche le crescenti preoccupazioni geopolitiche, oltre ai problemi sorti con la Securities and exchange commission (Sec), che ha confermato che le prime cinque società cinesi quotate negli Stati Uniti dovranno uscire dalla Borsa se non forniranno l’accesso ai dati contabili all’autorità di controllo.
Tra i titoli da tenere sott’occhio, spiega Carlo De Luca, responsabile risparmio gestito di Gamma capital markets, «sicuramente fanno da capofila Alibaba e Baidu, giganti della tecnologia cinese: il primo, colosso dell’ecommerce, continua a generare flussi di cassa positivi nonostante le performance non brillanti sul mercato, influenzate sicuramente dalla minaccia del delisting», dice. In realtà, «il titolo Alibaba è in trend ribassista da più di un anno, appesantito dalle preoccupazioni normative, ma il titolo potrebbe essere pronto a uscire presto dal suo trend ribassista. Le azioni cinesi sono aumentate vertiginosamente il 16 marzo, dopo che la Cina ha promesso di allentare una repressione normativa, sostenendo al contempo le quotazioni azionarie estere e costruendo stabilità nei mercati dei capitali», dice De Luca. «Alibaba ha tra l’altro recentemente aumentato il suo riacquisto di azioni da 15 miliardi a 25 miliardi di dollari e, secondo gli analisti, potrebbe generare fino a 28,0 miliardi di cassa il prossimo anno con margini di vicini al 20%. Baidu, la Google cinese, nonostante le forti difficoltà riscontrate in un mercato pubblicitario nazionale cinese difficile a causa del Covid», conclude, «ha riferito che i ricavi del 2021 sono cresciuti a un ritmo del 21%, con fatturato non pubblicitari in aumento del 71% rispetto allo scorso anno».




