C’è chi nel ridotto del nostro star system televisivo leva la X a Ellon Musk e chi mette una croce sulla televisione. È un cambiamento epocale che segnala un malessere crescente tra le cuoche e i gestori di ristornati, stanchi di una visibilità effimera. Alla vigilia della Settimana della cucina italiana nel mondo - la nona edizione parte oggi e dura fino al 24 con il coinvolgimento di oltre mille tavole tricolori - c’è chi dice no. Sono i ristoratori di Treviso che hanno deciso di non partecipare al programma di Alessandro Borghese, da molti considerato un cult della cucina anche se le inquadrature sono da food-porn e le informazioni culturali e gastronomiche rare come i capelli sulla testa di Kojak tanto per stare su un cult antiquato del piccolo schermo. Il figlio di Barbara Bouchet che ha candidamente confessato di guadagnare con la televisione i soldi che rimette con la ristorazione conduce da anni 4 ristoranti che i più scambiano per un programma di gastronomia quando in verità si tratta di una seduta di psicologia. Come peraltro quasi tutti i talk e i talent show, ormai. Va in onda sul canale 8. Il format è semplice: s’ individuano in un particolare luogo quattro tavole tematizzate o per proposta di cucina o per tipologia che si sfidano a colpi di menù giudicati dai ristoratori medesimi. Poi c’è Borghese, il deus ex planetaria (è la macchina per gli impasti), che col suo voto «può confermare o ribaltare il risultato». La sfida è incoraggiata, anzi aizzata per far crescere la rivalità. Gli effetti promozionali per gran parte dei vincitori sono ottimi. C’è un però: i ristoratori si sono accorti che la performance televisiva è come la mela di Biancaneve: bellissima a vedersi, ma morsicata ha un retrogusto amaro. Così a Treviso hanno deciso di non stare al gioco. Le ragioni le ha spiegate, in parte, Dania Sartorato la presidente provinciale della Fipe (Federazione pubblici esercizi). Dice: «Da spettatrice trovo il programma fantastico però vivere direttamente l’esperienza credo nasconda delle insidie». I ristoratori non se la sentono di mettersi l’uno contro l’altro, non accettano di essere spiati in cucina, non amano dare spettacolo. Non è peraltro la prima volta che attorno al programma si accendono polemiche. Ekla Vasconi ha dovuto chiudere i social perché in una puntata a Mantova ha criticato troppo duramente i suoi colleghi, Danilo Canu sardo ha avuto serissimi problemi con clientela e social, Daniele Bovolato della Gourmetteria di Padova ha addirittura fatto causa per danni. I ristoratori ce l’hanno anche con i siti di recensioni che pure fanno aumentare di quasi un terzo i fatturati. C’è un giro d’affari assai consistente dietro a queste segnalazioni che sono spesso false e vendute a pacchetto da alcune agenzie di comunicazione senza scrupoli. Cinquanta recensioni positive si pagano 500 euro, se si vogliono negative per stroncare un concorrente si sale al doppio. Tripadvisor - uno dei siti che va per la maggiore - ha dichiarato di aver cancellato 1,2 milioni di recensioni false. L’Antitrust ha cominciato a fare le multe. A livello mondiale il mercato delle recensioni vale 152 miliardi di dollari, in Italia siamo a un paio di miliardi. Alcuni non pulitissimi perché pare che anche le organizzazioni criminali usino le recensioni come arma di ricatto. Tuttavia il mercato continua. Addirittura la mitica Guida Michelin - comincia a incassare pure lei il gran rifiuto di ristoranti che restituiscono le stelle: l’ultimo caso è il Giglio di Lucca - si è associata «al sistema di prenotazione ristoranti di TheFork e all’audience internazionale di Tripadvisor, permettendo ai consumatori di prenotare i ristoranti selezionati dalla Guida Michelin» (sic!). A questa giostra i ristoratori non ci stanno più anche perché i dati non sono incoraggianti. L’ultimo rapporto Fipe segnalava bilanci in crescita: 92 miliardi nel 2023, ma comunque saldo negativo di 16.000 imprese scomparse tra bar e ristoranti. Nei primi nove mesi di quest’anno però la tendenza si è invertita. I venditori all’ingrosso segnalano una contrazione del volume di forniture vicino al 7%. E se i big iper-stellati viaggiano con fatturati milionari - la famiglia Cerea da Vittorio a Brusaporto è prima con 87 milioni, Massimo Bottura il più celebrato sfiora i 19 milioni, ma Carlo Cracco che non fa più tivvù ha una perdita di 400.000 euro e si è parlato di un indebitamento che sfiora i 5 milioni - non è il conto a fine cena che li fa ricchi, ma sono le consulenze, la pubblicità, la televisione e i banchetti. Così il circo Barnum di telecamere, classifiche, ricchi premi e cotillon sembra avere il tendone bucato. Resta però il valore culturale della cucina italiana. E infatti Antonio Tajani ministro degli Esteri e Francesco Lollobrigida, ministro della Sovranità alimentare, puntano molto sulla Settimana della cucina italiana nel mondo che è organizzata dalla Farnesina. Quest’anno per accentuare il valore della radice italiana del buon cibo, che resta il principale motivo di soddisfazione per chi visita il nostro paese, il tema scelto è «Dieta Mediterranea e Cucina delle Radici: Salute e Tradizione.» Sotto traccia c’è il tentativo di bloccare l’avanzare dei cibi da laboratorio e iperprocessati che piacciono tanto a Bruxelles e di riaffermare il valore della tradizione e della gastronomia come manifestazione culturale e del valore agricolo. Organizzati in tutte e da tutte le ambasciate italiane sono in programma oltre mille eventi e altrettante sono le tavole coinvolte. Quattro ristoranti per gustare la cucina italiana evidentemente non bastano.
Esiste una verità innegabile, insindacabile: un eccesso di cucina ha travolto la televisione, un eccesso di fuochi e fornelli e chef assurti a santoni. La cucina è diventata troppo, e il troppo - come si dice - stroppia. Eppure, nel mare magnum di questo «troppo», dove ogni ulteriore programma (specie, se già visto) dovrebbe provocare una dolorosa forma di orticaria, c’è qualcosa che resiste. Uno zoccolo duro di format che, lungi dall’essere triti, sanno invece alimentare una forma confortevole di intrattenimento. Le copertine di Linus dell’autunno e dell’inverno, show come Quattro Ristoranti, di ritorno su Sky alle 21.15 di domenica 3 settembre.
Quattro Ristoranti non è cambiato. Alessandro Borghese non è stato destituito. Il programma non è stato accompagnato da annunci trionfali di trasformazione, dalla promessa di una rivoluzione. Al contrario, il comunicato stampa voluto da Sky ha sottolineato e ribadito l’eterno ritorno dell’uguale, e un brivido di piacere ha scosso la nostra schiena. Perché Quattro Ristoranti, con i suoi «diesci» a location, menù, servizio e conto, con la sorpresa di un voto segreto che possa «ribaltare o confermare la situazione», è l’antidoto ad ogni mania di protagonismo.
La cucina è diventata troppo, e in questo «troppo» televisivo i produttori hanno indetto una gara tutta loro: una corsa all’innovazione (presunta, spesso), un invito al «famolo strano», dove il maiale è stato appaiato ai marshmallows e i cuochi sfidati a provare ricette assurde. Pur di inserirsi in un mercato sovraffollato, emittenti e produttori hanno cercato la qualunque. Hanno fatto la qualunque, facendo parimenti il successo di chi, invece, si è chiamato fuori. Quattro Ristoranti, MasterChef, il meno popolare Little Big Italy hanno saputo tenere fede a se stessi. E, nel caso dello show condotto da Borghese, a un territorio, quello italiano, garbatamente estraneo alle pretese di globalizzazione della cucina internazionale. Quattro Ristoranti, le cui nuove puntate sono state girate fra Bassano del Grappa e l’Irpinia, ha saputo ancorarsi alla provincia ed esaltarla, ha saputo celebrare le tradizioni senza perciò mortificare l’ambizione di chi su quella tradizioni abbia cercato di costruire. E così, in questo equilibrio fra passato e presente, nel racconto di ciò che siamo (e mangiamo), ha riconnesso la cucina con il suo cuore pulsante. Furbescamente, pure. Quattro Ristoranti, come Little Big Italy, è riuscito infatti ad estendere in qualche modo i confini della cucina. A trasformarla in un viaggio, nel motore di una scoperta che parli di cultura e folklore. Ha scandagliato l’Italia e l’ha mostrata a chi avesse voglia di guardarla e conoscerla. L’ha portata fuori dai troppi studi che, in questi anni, hanno fatto a gara per contenerla. Ha cambiato i protagonisti della narrazione e sovvertito le gerarchie: non gli chef, ma i ristoratori - vestiti da clienti - si sono trovati a dare voti e giudizi. E che piacere guardarli, che piacere immedesimarsi. Che piacere, noi semplici spettatori, ritrovare seppur indirettamente la semplicità della tavola, riconoscerla come cosa nostra, come casa nostra.
Alessandro Borghese con la nuova stagione del suo show, al via questa sera su Sky Uno, ha sdoganato il giudizio che viene dal basso, rompendo quella liturgia televisiva, che ci aveva fatti «servi» obbedienti di «padroni» più capaci. E Quattro Ristoranti, i cui episodi inediti porteranno chef e ristoratori al di fuori dei confini italiani, a Fuerteventura ed Edimburgo, è diventato lo show di tutti.
Siamo tutti Alessandro Borghese, e questa consapevolezza, da sola, è sufficiente a spiegare perché mai la logica ferrea applicabile altrove, davanti alle porte di Quattro Ristoranti, finisce a perdere ogni sua validità. Siamo tutti Alessandro Borghese. Lo siamo per scienza infusa, perché del suo motto abbiamo fatto il nostro. Lo siamo perché Quattro Ristoranti, che avrebbe potuto essere uno fra i tanti (troppi) programmi dedicati all’abusato mondo della cucina, è diventato legge, terreno di prova, un tribunale popolare, il nostro, in cui nessuna laurea (ci) è richiesta. Alessandro Borghese, di ritorno su Sky Uno con la nuova stagione del suo show, ha sdoganato il giudizio che viene dal basso, rompendola, quella liturgia televisiva, che ci aveva fatti «servi» obbedienti di «padroni» più capaci. Ha distribuito patenti, diritti di parola, microfoni. Qualunque cosa potesse garantire allo spettatore per coinvolgerlo nel gioco, il suo, Borghese l’ha trovata. E Quattro Ristoranti, i cui episodi inediti porteranno chef e ristoratori al di fuori dei confini italiani, a Fuerteventura ed Edimburgo, è diventato lo show di tutti. Poco importa, dunque, che anche questa volta la formula sia rimasta identica a se stessa, con i voti da assegnare, le categorie, quattro, da giudicare. Non c’è alcun effetto «già-visto» che possa compromettere la tenuta del programma e, con questa, la ritrovata centralità dello spettatore. Anzi. Quattro Ristoranti, sfida al miglior locale della tal città, nel ripetersi di modalità e commenti ha la sua fortuna. Di più. La chiave – furbissima – del suo successo, un successo che ha valicato, e di molto, il mezzo televisivo.
Quattro Ristoranti, al debutto nella prima serata di domenica 27 novembre e da allora disponibile su Now Tv, è diventato un tormentone. Più di MasterChef, più di qualunque programma recente. Si è trasformato in una moda. Lo ha fatto rendendoci giudici, non più spettatori costretti a sorbirsi i giudizi altrui, ma agenti attivi. È diventato un rito, dentro e fuori la televisione. «Location? Dieci». «Menù? Zero». Ogni frase è stata ripetuta e ripensata, pronunciata – e non senza una certa solennità - da ogni individuo che abbia seguito il programma. La parlata di Borghese, il suo romano strascicato, è stata imitata. Siamo diventati tutti Alessandro Borghese, sotto casa, dentro ristoranti anonimi, a telecamere spente. Il suo programma è diventato il nostro. Le sue fissazioni, la cappa sporca, i cucchiai esposti all’aria, sono diventate le nostre. Borghese ci ha fatto sentire importanti. Ci ha dato l’illusione di poter svolgere le sue stesse mansioni o, quanto meno, le stesse mansioni cui sono chiamati i concorrenti di Quattro Ristoranti, i ristoratori in lotta per il titolo. Perciò, non servono novità, all’interno del format. Perciò, siamo disposti a chiudere un occhio sul meccanismo che si ripete, godendoci i panorami che cambiano, Ortigia nella nuova stagione, le Cinque Terre, Livorno, Bologna e Napoli. Perciò, siamo pronti a ricominciare tutto daccapo. Perché Quattro Ristoranti è diventata una piccola consuetudine, un esercizio, una prova. E, alla fin della fiera, quel che ci interessa è (solo) capire se i nostri voti di giudici da divano corrispondano o meno a quelli di Borghese.





