Ieri sono stato invitato a presentare, insieme con l’autore, il libro In nome della libertà scritto da Paolo Del Debbio, collega che i lettori della Verità ben conoscono. Il volume, uscito a quasi un anno dalla scomparsa di Silvio Berlusconi, è un’analisi sull’eredità politica dell’uomo che, con la sua discesa in campo, ha cambiato per sempre le regole di questa nostra Repubblica, imponendo coi fatti ciò che oggi Giorgia Meloni vorrebbe tradurre anche in una legge, ovvero il diritto degli italiani di scegliere da chi farsi governare. Per 50 anni, nonostante l’articolo 1 della Costituzione dica che la sovranità appartiene al popolo, i veri sovrani sono stati i partiti, che con formule spesso incomprensibili al comune cittadino - come convergenze parallele, compromesso storico e pentapartito - hanno sequestrato la volontà degli elettori, forti di leggi elettorali fatte per avere governi che fossero ricattabili.
In vista della presentazione, oltre a leggere il libro e ripassare il programma con cui 30 anni fa il Cavaliere annunciò la sua candidatura e la creazione di Forza Italia e di una Casa delle libertà, sono andato a ripassare il programma della parte opposta, ossia di quello che all’epoca si chiamava Partito democratico di sinistra, erede diretto del Pci e ai tempi guidato da Achille Occhetto. Non lo ricordavo, ma a febbraio del 1994 L’Unità, il cui direttore era Walter Veltroni, distribuì un libretto verde di poche pagine che sintetizzava tutto ciò che i post comunisti, freschi di caduta del muro di Berlino e di dissolvimento dell’Urss, promettevano di fare nel nostro Paese nel caso avessero vinto le elezioni. È una lettura interessante. Non soltanto perché quelle furono le idee che Achille Occhetto contrappose a Berlusconi nel famoso confronto tv su Canale 5, prima delle elezioni. Ma perché in quella novantina di pagine ci sono perle dimenticate, che ci aiutano a capire anche le contraddizioni di oggi e soprattutto il doppiogiochismo della sinistra, che per opportunismo è sempre pronta a cambiare idea e a demonizzare ciò che fino a ieri riteneva la via migliore per il Paese.
Mi riferisco in particolare a due dei temi che più riscaldano gli animi della campagna elettorale, ovvero l’autonomia regionale e il premierato. Beh, se si leggono le tesi proposte 30 anni fa dal Pds, da cui l’attuale Pd discende, si ritrovano proprio queste riforme, che Occhetto portava in palmo di mano sostenendo che avrebbero consentito - udite, udite - di ricostruire il Paese. Naturalmente non mi sfugge che l’autonomia regionale, di cui qualche anno dopo i Ds si faranno promotori pasticciando con la modifica del Titolo V, nel 1994 era quasi una scelta obbligata, che mirava a sbarrare il passo a una forza politica nascente quale la Lega. Ma la legge contro cui la sinistra oggi punta il dito è proprio la stessa che se Occhetto avesse vinto avrebbe introdotto, consentendo non solo alle Regioni poteri concreti su una serie di materie di competenza dello Stato centralista (a chiamarlo così era il programma del Pds), ma addirittura consentendo ai territori di trattenere una parte delle tasse, «per pervenire gradualmente ma rapidamente a una ripartizione delle entrate e delle spese pubbliche tra governo centrale e livelli di governo decentrati simile a quella che esiste oggi nei grandi Stati federali». Occhetto e compagni volevano addirittura che una delle due Camere divenisse quella delle Regioni, eliminando il bicameralismo perfetto.
Ancor meglio però è la parte delle riforme istituzionali, dove secondo la tesi del Partito democratico della sinistra era necessario istituire non soltanto il governo di legislatura, ma anche consentire agli elettori di scegliere la maggioranza da cui farsi governare, e di conseguenza il presidente del Consiglio, al quale - udite, udite - dovevano essere concessi poteri di nomina e di revoca dei ministri, sul modello della legge sui sindaci, a quei tempi appena entrata in vigore. E i poteri del presidente della Repubblica che sarebbero così stati intaccati e che oggi generano tanto allarme al punto che i compagni strillano accusando il centrodestra di tentativo autoritario? Il capo delle Stato e le sue prerogative nemmeno sono citati, tanta era la preoccupazione del venire meno del ruolo dell’inquilino del Quirinale.
Sì, la lettura del libretto verde del pensiero di Occhetto, ultimo segretario del Pci prima della giravolta della Bolognina, è davvero istruttiva, perché si capisce il trasformismo della sinistra che, come un camaleonte, è sempre pronta a cambiar pelle pur di rimanere attaccata al potere. Qualsiasi tesi può essere sposata a patto che nei posti chiave rimangano i compagni. È quello che è successo negli ultimi 30 anni: nonostante Berlusconi abbia vinto per tre volte le elezioni, sbaragliando la gioiosa macchina da guerra, la insidiosa macchina del potere post comunista ha continuato a intralciarlo, come oggi prova a intralciare il lavoro di Giorgia Meloni. Ecco perché il premierato è una buona cosa. Anzi: io lo rafforzerei, togliendo di mezzo l’idea che caduto un premier se ne possa fare un altro a patto che sia dello stesso partito. Meglio evitare equivoci. E soprattutto tranelli. Se cade un presidente del Consiglio si torna a votare. Punto. Mattarella o non Mattarella.