2021-10-27
Sui dati dell’Iss la toppa è peggiore del buco
L'ente accusa i media: avrebbero travisato il report da cui si evince che solo il 2,9% delle vittime di Covid non aveva altre malattie. Peccato che i numeri non siano cambiati. E dimostrino che, sui booster, sarebbe assurdo non fare differenze tra chi è sano e chi no.I rischi di Az per i giovani erano noti. Ma in Italia si facevano gli open day. Report rivela: già a marzo un immunologo tedesco aveva evidenziato i pericoli di Vaxzevria per gli under 60. Alla luce degli studi, vari Paesi Ue lo bloccarono. Da noi, invece, Cts e Roberto Speranza attesero la tragedia di Camilla. Piroetta Cartabia anche sulla sanità: dalla libertà di cura all'obbligo di fatto. In un saggio sull'articolo 32 della Costituzione, l'allora giudice difendeva consenso informato e autonomia. Nove anni dopo...Lo speciale comprende tre articoli.Come si applica il «contrordine compagni» alla comunicazione dell'Istituto superiore di sanità? Purtroppo non sembrano esserci molte variazioni rispetto al corrosivo sarcasmo che il grande Giovanni Guareschi applicava all'obbedienza ottusa dei trinariciuti militanti comunisti, pronti a qualsiasi giravolta purché richiesta dal giornale di partito. Così, con sprezzo del pericolo (e del ridicolo), nel tentativo di arginare il caos direttamente generato da un proprio report, l'Iss ha cercato nelle ultime 36 ore di rovesciare la frittata: «In relazione a quanto riportato da diversi media riguardo ai dati contenuti nel report sulle caratteristiche dei pazienti deceduti positivi a Sars-Cov-2 in Italia pubblicato lo scorso 19 ottobre, ed al fine di promuovere una loro appropriata interpretazione, si ritiene utile precisare che nel rapporto non è affermato che solo il 2,9% dei decessi attribuiti al Covid-19 è dovuto al virus. La percentuale del 2,9%, peraltro riportata anche nelle edizioni precedenti, si riferisce alla percentuale di pazienti deceduti con positività per Sars-Cov-2 che non avevano altre patologie diagnosticate prima dell'infezione. La cifra peraltro è confermata dall'osservazione fatta fin dalle prime fasi della pandemia e ampiamente riportata in diversi studi nazionali e internazionali e rapporti anche dall'Iss, che avere patologie preesistenti costituisce un fattore di rischio».Fin qui la seconda velina, dall'inconfondibile prosa legnosa e burocratica, diffusa nel tentativo di coprire lo sbrego aperto dalla velina precedente. Peccato che la toppa - come da proverbio - risulti peggiore del buco: i dati sono sempre gli stessi, e sono proprio le autorità sanitarie «ufficiali», dall'inizio della pandemia, ad aver iniziato il rimpallo tra «morti di Covid» e «morti con Covid». Che ora quelle stesse autorità si stupiscano se osservatori terzi osano fare la medesima distinzione a partire dai dati forniti proprio dall'Iss, conferisce alla polemica un tocco surreale. Siamo alle solite, insomma: in Italia si riesce a litigare selvaggiamente pure sui dati. In qualunque altro paese dell'Occidente avanzato, per lo meno sui dati (sulla loro dimensione oggettiva), non si discute: il dibattito, legittimamente, inizia semmai solo sulla loro interpretazione. Lasciando spazio, in quella sede interpretativa, a letture diverse, tutte legittime, senza che nessuno senta il bisogno di criminalizzare il portatore di una lettura diversa. Soltanto qui in Italia, e in particolare intorno al Covid, si cerca invece di costruire una discussione artificiosa (e come tale irricevibile) tra due posizioni estreme, uguali e contrarie, ed entrambe caricaturali: quella di chi arriva a sostenere che il Covid non esista, e quella - all'opposto - di chi, in nome di una enfatizzazione abnorme del rischio Covid, sembra determinato ad aprire la strada a qualunque intervento politico illiberale, a qualsiasi stravolgimento della normalità democratica, a una sorta di emergenza ossessiva e perenne. Ecco, questa polarizzazione ossessiva va respinta. Tra i due estremi, c'è invece (meglio: ci sarebbe) lo spazio per un dibattito civile tra nuances e sfumature differenti, tra chi (legittimamente) è disposto a sacrificare quote maggiori di libertà in nome della sicurezza e chi - al contrario - ritiene che la libertà non possa essere compressa in modo eccessivo. Venendo al caso specifico, è possibile ritenere che in tantissimi decessi dell'ultimo anno e mezzo abbiano avuto un peso determinante altre patologie, nonché la fragilità complessiva di persone molto anziane e già provate da significative vulnerabilità. Sostenere questa tesi così ragionevole (e peraltro suffragata dai numeri) è forse divenuto reato di opinione secondo l'Iss? È stato ripristinato il delitto di blasfemia? Si diventa ipso facto negazionisti per il solo fatto di interrogarsi criticamente su questo tema? Vogliamo sperare che la discussione pubblica non sia giunta a questo punto di intolleranza e dogmatismo.Da ultimo, una preoccupazione. La visione dogmatica che abbiamo appena finito di criticare sembra funzionale ad aprire la strada a soluzioni generalizzate, uguali per tutti, e perfino «non discutibili» (senza essere per ciò stesso criminalizzati), a partire dalla somministrazione in modo totalizzante e indistinto della terza dose. Ecco, ci permettiamo di dubitare della correttezza di questo metodo. In ogni ambito, anche sanitario (si pensi ai progressi nelle chemioterapie), si procede invece verso la maggiore personalizzazione possibile delle terapie, proprio per tenere conto delle differenze di ogni individuo. Venendo alla campagna vaccinale, un'autentica autorità come il professor Francesco Vaia (a cui speriamo nessuno pensi di dare del no vax…) ha saggiamente ammonito tutti, a più riprese, a considerare la condizione anticorpale di ogni persona (prima di pensare alle terze dosi), a valutare la memoria immunologica di ogni singolo individuo, fatalmente diversa da caso a caso. Questo secondo metodo, più rispettoso delle caratteristiche di ciascuno, più umile, più curvo sul caso singolo, più volto a una ricerca empirica e induttiva anziché all'imposizione dogmatica e deduttiva di tesi e soluzioni precostituite, è quello di cui si avverte un crescente bisogno.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/sui-dati-delliss-la-toppa-e-peggiore-del-buco-2655382345.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-rischi-di-az-per-i-giovani-erano-noti-ma-in-italia-si-facevano-gli-open-day" data-post-id="2655382345" data-published-at="1635276551" data-use-pagination="False"> I rischi di Az per i giovani erano noti. Ma in Italia si facevano gli open day Era il vaccino più economico, più facile da trasportare e da conservare, con un'efficacia tra il 90 e il 95% dei casi. L'Unione europea ne aveva ordinato 300 milioni di dosi e aveva fatto causa ai produttori per i ritardi nelle forniture. Poi però il vaccino di Astrazeneca è diventato pietra dello scandalo quando sono emerse gravi reazioni avverse. È stato bloccato in molti Paesi europei, compresa l'Italia. Ma da noi la decisione è giunta tardissimo, dopo la morte di Camilla Canepa. Un decesso assurdo, avvenuto in seguito agli open day di primavera che il Comitato tecnico scientifico aveva esteso a tutti coloro che avevano più di 18 anni nonostante che studi scientifici sconsigliassero la somministrazione di quel vaccino a chi ha meno di 50 anni. La ricostruzione è stata fatta l'altra sera dalla trasmissione Report di Rai 3. Vaxzevria, il vaccino di Astrazeneca, viene trionfalmente annunciato dalla Gran Bretagna a fine dicembre e autorizzato un mese prima che arrivi il via libera dell'Agenzia europea del farmaco (Ema). Le prime reazioni gravi si manifestano a gennaio e febbraio, ma le autorità sanitarie britanniche tacciono e non prendono provvedimenti. È una giornalista del Telegraph a portare alla luce lo scandalo: come mai in mezza Europa si segnalano sempre più casi di trombosi legate a un abbassamento delle piastrine nel sangue in seguito alla prima dose, e nel Regno Unito nulla? Altrove, però, l'allarme è già suonato, Italia compresa. Ai primi di marzo nel Messinese muore il militare Stefano Paternò, 43 anni. Per prudenza, il ministro Roberto Speranza fa ritirare il lotto di vaccino al quale apparteneva la dose fatale: circola così l'idea che si tratti di una partita difettosa, non che fosse l'Astrazeneca in sé a provocare la trombosi. Quello stesso giorno, l'11 marzo, la Danimarca si riprende tutte le dosi di vaccino senza distinzioni. In Italia altre morti si succedono, tutte in Sicilia. Le perizie richieste dai familiari sconvolti non lasciano dubbi sui legami tra decessi e vaccini. In quegli stessi giorni, l'immunologo tedesco Andreas Greinacher , un luminare nel campo, conferma in laboratorio la possibilità che il vettore adenovirale presente nel Vaxzevria possa provocare trombosi. Viene anche sperimentata la cura, che prevede la somministrazione di immunoglobuline se la sindrome viene presa in tempo. Tuttavia l'Ema non fa una piega e ribadisce la validità del vaccino. Da noi Vaxzevria viene inoculato a insegnanti e forze dell'ordine e la faccenda viene liquidata come uno scontro di campanile tra i tedeschi produttori di Pfizer-Biontech e gli inglesi di Astrazeneca. Quando in Europa i dubbi prendono corpo, al ministero va in scena un balletto di circolari contraddittorie: prima consigliato agli under 55, poi agli under 65, quindi sospeso tre giorni e infine, il 7 aprile, raccomandato agli over 60. Nel frattempo il siero di Oxford si conquista la peggior fama possibile e nessuno lo vuole più. Che fare dunque con le enormi scorte accumulate? L'Italia aveva ordinato 40 milioni di dosi. Il Comitato tecnico scientifico chiede un riscontro statistico al Winton centre for risk and communication dell'università di Cambridge, in base al quale il 12 maggio l'organismo presieduto dal professor Franco Locatelli sdogana nuovamente il Vaxzevria estendendolo a tutti i maggiorenni. Nel verbale si legge che il Cts «non rileva motivi ostativi» per la campagna di massa con «vaccini a vettore adenovirale a tutti gli over 18». Si cita una precedente analisi dell'Ema, dalla quale risulta una media di 1,1 trombosi su 100.000 prime dosi e 8 morti evitate. Tuttavia il dato è relativo alla sola popolazione sopra i 60 anni, ma ciò non viene detto. Tra i più giovani la situazione è completamente diversa: non si prevedono morti, in compenso il rischio di trombosi fatale raddoppia. Intervistato da Report, l'ex presidente dell'Agenzia italiana del farmaco Guido Rasi dice che si doveva evitare di immunizzare i giovani con Astrazeneca: «Già a maggio si poteva dedurre che quello non era il vaccino ideale per gli under 40». Il viceministro Pierpaolo Sileri conferma. Invece che succede? Sulla scorta della decisione del Cts, il commissario Francesco Paolo Figliuolo lancia gli open day per chiunque voglia vaccinarsi. In Liguria il governatore Giovanni Toti in pochi giorni raccoglie 20.000 prenotazioni. Tra loro c'è anche una diciottenne di Sestri Levante, Camilla Canepa, che riceve la prima dose il 25 maggio e pochi giorni dopo muore. Solo allora, l'11 giugno, diventa finalmente vincolante la «raccomandazione» di vaccinare con Vaxzevria solo gli over 60. Nell'ultimo rapporto, Aifa mostra di non avere ancora inteso la lezione. Si parla di una trombosi su 1 milione di somministrazioni, poi - su sollecitazione di Report - portate a 3 su 1 milione. Ma vengono resi pubblici solo dati aggregati, senza distinzione per sesso, età, prima o seconda dose e tipo di evento avverso. E la reazione di un uomo anziano non è la stessa di una donna con meno di 60 anni, tra le quali si registrano due eventi avversi ogni 100.000 vaccini. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/sui-dati-delliss-la-toppa-e-peggiore-del-buco-2655382345.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="piroetta-cartabia-anche-sulla-sanita-dalla-liberta-di-cura-allobbligo-di-fatto" data-post-id="2655382345" data-published-at="1635276551" data-use-pagination="False"> Piroetta Cartabia anche sulla sanità: dalla libertà di cura all’obbligo di fatto Per ammissione di Mario Draghi, il governo si era avvalso delle competenze del Guardasigilli, Marta Cartabia, per vergare il decreto con cui ha imposto la vaccinazione anti Covid ai sanitari. L'ex presidente della Consulta, a gennaio 2018, quando ne era la numero due, fu la redattrice della sentenza con cui la Corte costituzionale diede l'ok definitivo alla legge Lorenzin, che portava a dieci le vaccinazioni imposte ai ragazzini fino ai 16 anni. Qualche anno prima, però, in materia di trattamenti sanitari obbligatori, la Cartabia coltivava convinzioni un tantino più liberali. È il 2012. La giurista lombarda pubblica, sulla rivista dell'Agenas, Monitor. Elementi di analisi e osservazione del sistema salute, un saggio sul comma 2 dell'articolo 32 della Costituzione. Quello in cui si sancisce che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge», la quale, però, «non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Quell'articolo, letto col senno di poi, è un preclaro esempio delle sottili conversioni che nella vita a volte si accettano, pur di fare strada. La Cartabia analizza sotto due profili il concetto di «libertà terapeutica»: come «libertà da interventi coercitivi» e «libertà positiva», di «scegliere le migliori terapie disponibili, il medico, il luogo della cura». Cominciamo da una delle condizioni che, in base alla giurisprudenza costituzionale, l'attuale ministro della Giustizia individua quale limite alla facoltà d'imporre la somministrazione di farmaci: che il trattamento sanitario «non incida negativamente sulla salute del singolo, salvo che per quelle conseguenze temporanee, reversibili e di scarsa entità normalmente collegate a ogni intervento sanitario, che quindi appaiono tollerabili». Suona un campanello: si può applicare lo stesso principio ai farmaci anti Covid? Qualche virostar ha provato a convincerci che le miocarditi, riscontrate nei giovani inoculati con i vaccini a mRna, erano effetti di poco conto. È lecito dubitarne. Ma sicuramente non è «tollerabile» quello che è successo a Camilla Canepa, la diciottenne uccisa dalla dose di Astrazeneca, ricevuta durante un open day in Liguria. Si obietterà: be', ma non esiste alcun obbligo di sottoporsi all'iniezione contro il coronavirus. Certo, e forse c'è una ragione giuridica per cui l'esecutivo non ha optato per l'obbligatorietà tout court: non avendo i vaccini anti Covid ricevuto l'approvazione definitiva da Ema e Aifa, a essi non si dovrebbe applicare la stessa dottrina, che consentì alla Cartabia di dare il semaforo verde alla legge Lorenzin. Resta però il fatto che, con il green pass e, ancor più, con il super green pass, Palazzo Chigi ha promosso un obbligo surrettizio: un modo di dribblare il dilemma costituzionale, sul quale ci si sarebbe potuti aspettare qualche obiezione dall'autrice di questo saggio di nove anni fa. Anche perché, citando una sentenza della Consulta sul caso della sciamanica terapia Di Bella, nello scritto del 2012 Cartabia ricorda che la libertà di cura «non si può tradurre in una pretesa generalizzata di essere sottoposto a qualunque trattamento sanitario, ancora in fase di sperimentazione, con oneri a carico dello Stato». E invece, è ragionevole l'inverso? Ovvero, che lo Stato pretenda di sottoporre i cittadini alla somministrazione di farmaci ancora privi di un'autorizzazione definitiva, pena l'esclusione dal lavoro e dalla vita sociale? Peraltro, nel saggio su Monitor, la giurista menziona, come abbiamo visto, la «libertà di scegliere le migliori terapie disponibili». Siamo sicuri che sia stato questo il metodo adottato in Italia, almeno nei primi mesi della campagna vaccinale? È vero che ci trovavamo in emergenza, che le dosi scarseggiavano e che non si poteva andare tanto per il sottile; tuttavia, quando s'iniziò a capire che Astrazeneca provocava reazioni avverse molto serie, e la confusione comunicativa alimentata dal governo innescò un fuggi fuggi da quel preparato, Roberto Speranza arrivò a minacciare: «Chi rifiuta questo vaccino va in coda». Rimanendo esposto alle conseguenze gravi di un eventuale contagio. Non c'è che dire: un bel modo di tutelare la libertà di scegliere «la migliore terapia disponibile» e di trattare il paziente - citiamo sempre Cartabia - da «soggetto razionale, capace di scegliere con consapevolezza, [...] autonomo e indipendente». Altro passaggio emblematico, è quello che l'ex giudice della Consulta dedica al consenso informato, lamentando che esso sia «ridotto a mera formalità», quando non è «stravolto in una forma di “liberatoria"». Domanda: quanto era davvero «informato» il consenso di chi s'è fatto iniettare, per dire, Johnson&Johnson, lieto di ottenere il monodose, per poi scoprire da Walter Ricciardi - ieri smentito dalla casa farmaceutica - che la copertura durerebbe solo due-tre mesi? In presenza di un'informazione caotica, spesso omissiva, e di un green pass diventato condizione per portare a casa il pane, regge la foglia di fico della volontarietà dei trattamenti? Dinanzi a ciò che sta accadendo, di cui la Cartabia è compartecipe, echeggiano quasi beffarde le riflessioni contenute nella conclusione del testo del 2012: «La giurisprudenza costituzionale [...] è dominata [...] dalla preoccupazione di assicurare spazi di libertà individuale, intesa come autodeterminazione del paziente». Perciò riduce «al minimo» e circonda di «severe garanzie ogni forma di imposizione terapeutica». Tutto ciò, per «emancipare l'individuo dallo stato di soggezione rispetto a qualunque forma di potere: nel nostro caso dallo stato di soggezione del paziente rispetto al legislatore, alla struttura sanitaria, al medico e a ogni altra autorità». Da simili altezze libertarie, una triste involuzione: nove anni dopo, siamo passati, dal soggetto «razionale, autonomo e indipendente», alla «spinta gentile», alias ricatto del lasciapassare verde. Solo che, in via Arenula, nessuno fiata.