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2021-10-27
Sui dati dell’Iss la toppa è peggiore del buco
Silvio Brusaferro (Ansa)
Come si applica il «contrordine compagni» alla comunicazione dell'Istituto superiore di sanità? Purtroppo non sembrano esserci molte variazioni rispetto al corrosivo sarcasmo che il grande Giovanni Guareschi applicava all'obbedienza ottusa dei trinariciuti militanti comunisti, pronti a qualsiasi giravolta purché richiesta dal giornale di partito. Così, con sprezzo del pericolo (e del ridicolo), nel tentativo di arginare il caos direttamente generato da un proprio report, l'Iss ha cercato nelle ultime 36 ore di rovesciare la frittata: «In relazione a quanto riportato da diversi media riguardo ai dati contenuti nel report sulle caratteristiche dei pazienti deceduti positivi a Sars-Cov-2 in Italia pubblicato lo scorso 19 ottobre, ed al fine di promuovere una loro appropriata interpretazione, si ritiene utile precisare che nel rapporto non è affermato che solo il 2,9% dei decessi attribuiti al Covid-19 è dovuto al virus. La percentuale del 2,9%, peraltro riportata anche nelle edizioni precedenti, si riferisce alla percentuale di pazienti deceduti con positività per Sars-Cov-2 che non avevano altre patologie diagnosticate prima dell'infezione. La cifra peraltro è confermata dall'osservazione fatta fin dalle prime fasi della pandemia e ampiamente riportata in diversi studi nazionali e internazionali e rapporti anche dall'Iss, che avere patologie preesistenti costituisce un fattore di rischio».
Fin qui la seconda velina, dall'inconfondibile prosa legnosa e burocratica, diffusa nel tentativo di coprire lo sbrego aperto dalla velina precedente. Peccato che la toppa - come da proverbio - risulti peggiore del buco: i dati sono sempre gli stessi, e sono proprio le autorità sanitarie «ufficiali», dall'inizio della pandemia, ad aver iniziato il rimpallo tra «morti di Covid» e «morti con Covid». Che ora quelle stesse autorità si stupiscano se osservatori terzi osano fare la medesima distinzione a partire dai dati forniti proprio dall'Iss, conferisce alla polemica un tocco surreale.
Siamo alle solite, insomma: in Italia si riesce a litigare selvaggiamente pure sui dati. In qualunque altro paese dell'Occidente avanzato, per lo meno sui dati (sulla loro dimensione oggettiva), non si discute: il dibattito, legittimamente, inizia semmai solo sulla loro interpretazione. Lasciando spazio, in quella sede interpretativa, a letture diverse, tutte legittime, senza che nessuno senta il bisogno di criminalizzare il portatore di una lettura diversa.
Soltanto qui in Italia, e in particolare intorno al Covid, si cerca invece di costruire una discussione artificiosa (e come tale irricevibile) tra due posizioni estreme, uguali e contrarie, ed entrambe caricaturali: quella di chi arriva a sostenere che il Covid non esista, e quella - all'opposto - di chi, in nome di una enfatizzazione abnorme del rischio Covid, sembra determinato ad aprire la strada a qualunque intervento politico illiberale, a qualsiasi stravolgimento della normalità democratica, a una sorta di emergenza ossessiva e perenne.
Ecco, questa polarizzazione ossessiva va respinta. Tra i due estremi, c'è invece (meglio: ci sarebbe) lo spazio per un dibattito civile tra nuances e sfumature differenti, tra chi (legittimamente) è disposto a sacrificare quote maggiori di libertà in nome della sicurezza e chi - al contrario - ritiene che la libertà non possa essere compressa in modo eccessivo.
Venendo al caso specifico, è possibile ritenere che in tantissimi decessi dell'ultimo anno e mezzo abbiano avuto un peso determinante altre patologie, nonché la fragilità complessiva di persone molto anziane e già provate da significative vulnerabilità. Sostenere questa tesi così ragionevole (e peraltro suffragata dai numeri) è forse divenuto reato di opinione secondo l'Iss? È stato ripristinato il delitto di blasfemia? Si diventa ipso facto negazionisti per il solo fatto di interrogarsi criticamente su questo tema? Vogliamo sperare che la discussione pubblica non sia giunta a questo punto di intolleranza e dogmatismo.
Da ultimo, una preoccupazione. La visione dogmatica che abbiamo appena finito di criticare sembra funzionale ad aprire la strada a soluzioni generalizzate, uguali per tutti, e perfino «non discutibili» (senza essere per ciò stesso criminalizzati), a partire dalla somministrazione in modo totalizzante e indistinto della terza dose. Ecco, ci permettiamo di dubitare della correttezza di questo metodo. In ogni ambito, anche sanitario (si pensi ai progressi nelle chemioterapie), si procede invece verso la maggiore personalizzazione possibile delle terapie, proprio per tenere conto delle differenze di ogni individuo. Venendo alla campagna vaccinale, un'autentica autorità come il professor Francesco Vaia (a cui speriamo nessuno pensi di dare del no vax…) ha saggiamente ammonito tutti, a più riprese, a considerare la condizione anticorpale di ogni persona (prima di pensare alle terze dosi), a valutare la memoria immunologica di ogni singolo individuo, fatalmente diversa da caso a caso. Questo secondo metodo, più rispettoso delle caratteristiche di ciascuno, più umile, più curvo sul caso singolo, più volto a una ricerca empirica e induttiva anziché all'imposizione dogmatica e deduttiva di tesi e soluzioni precostituite, è quello di cui si avverte un crescente bisogno.
I rischi di Az per i giovani erano noti. Ma in Italia si facevano gli open day
Era il vaccino più economico, più facile da trasportare e da conservare, con un'efficacia tra il 90 e il 95% dei casi. L'Unione europea ne aveva ordinato 300 milioni di dosi e aveva fatto causa ai produttori per i ritardi nelle forniture. Poi però il vaccino di Astrazeneca è diventato pietra dello scandalo quando sono emerse gravi reazioni avverse. È stato bloccato in molti Paesi europei, compresa l'Italia. Ma da noi la decisione è giunta tardissimo, dopo la morte di Camilla Canepa. Un decesso assurdo, avvenuto in seguito agli open day di primavera che il Comitato tecnico scientifico aveva esteso a tutti coloro che avevano più di 18 anni nonostante che studi scientifici sconsigliassero la somministrazione di quel vaccino a chi ha meno di 50 anni.
La ricostruzione è stata fatta l'altra sera dalla trasmissione Report di Rai 3. Vaxzevria, il vaccino di Astrazeneca, viene trionfalmente annunciato dalla Gran Bretagna a fine dicembre e autorizzato un mese prima che arrivi il via libera dell'Agenzia europea del farmaco (Ema). Le prime reazioni gravi si manifestano a gennaio e febbraio, ma le autorità sanitarie britanniche tacciono e non prendono provvedimenti. È una giornalista del Telegraph a portare alla luce lo scandalo: come mai in mezza Europa si segnalano sempre più casi di trombosi legate a un abbassamento delle piastrine nel sangue in seguito alla prima dose, e nel Regno Unito nulla?
Altrove, però, l'allarme è già suonato, Italia compresa. Ai primi di marzo nel Messinese muore il militare Stefano Paternò, 43 anni. Per prudenza, il ministro Roberto Speranza fa ritirare il lotto di vaccino al quale apparteneva la dose fatale: circola così l'idea che si tratti di una partita difettosa, non che fosse l'Astrazeneca in sé a provocare la trombosi. Quello stesso giorno, l'11 marzo, la Danimarca si riprende tutte le dosi di vaccino senza distinzioni. In Italia altre morti si succedono, tutte in Sicilia. Le perizie richieste dai familiari sconvolti non lasciano dubbi sui legami tra decessi e vaccini. In quegli stessi giorni, l'immunologo tedesco Andreas Greinacher , un luminare nel campo, conferma in laboratorio la possibilità che il vettore adenovirale presente nel Vaxzevria possa provocare trombosi. Viene anche sperimentata la cura, che prevede la somministrazione di immunoglobuline se la sindrome viene presa in tempo.
Tuttavia l'Ema non fa una piega e ribadisce la validità del vaccino. Da noi Vaxzevria viene inoculato a insegnanti e forze dell'ordine e la faccenda viene liquidata come uno scontro di campanile tra i tedeschi produttori di Pfizer-Biontech e gli inglesi di Astrazeneca. Quando in Europa i dubbi prendono corpo, al ministero va in scena un balletto di circolari contraddittorie: prima consigliato agli under 55, poi agli under 65, quindi sospeso tre giorni e infine, il 7 aprile, raccomandato agli over 60. Nel frattempo il siero di Oxford si conquista la peggior fama possibile e nessuno lo vuole più.
Che fare dunque con le enormi scorte accumulate? L'Italia aveva ordinato 40 milioni di dosi. Il Comitato tecnico scientifico chiede un riscontro statistico al Winton centre for risk and communication dell'università di Cambridge, in base al quale il 12 maggio l'organismo presieduto dal professor Franco Locatelli sdogana nuovamente il Vaxzevria estendendolo a tutti i maggiorenni. Nel verbale si legge che il Cts «non rileva motivi ostativi» per la campagna di massa con «vaccini a vettore adenovirale a tutti gli over 18». Si cita una precedente analisi dell'Ema, dalla quale risulta una media di 1,1 trombosi su 100.000 prime dosi e 8 morti evitate. Tuttavia il dato è relativo alla sola popolazione sopra i 60 anni, ma ciò non viene detto. Tra i più giovani la situazione è completamente diversa: non si prevedono morti, in compenso il rischio di trombosi fatale raddoppia.
Intervistato da Report, l'ex presidente dell'Agenzia italiana del farmaco Guido Rasi dice che si doveva evitare di immunizzare i giovani con Astrazeneca: «Già a maggio si poteva dedurre che quello non era il vaccino ideale per gli under 40». Il viceministro Pierpaolo Sileri conferma. Invece che succede? Sulla scorta della decisione del Cts, il commissario Francesco Paolo Figliuolo lancia gli open day per chiunque voglia vaccinarsi. In Liguria il governatore Giovanni Toti in pochi giorni raccoglie 20.000 prenotazioni. Tra loro c'è anche una diciottenne di Sestri Levante, Camilla Canepa, che riceve la prima dose il 25 maggio e pochi giorni dopo muore. Solo allora, l'11 giugno, diventa finalmente vincolante la «raccomandazione» di vaccinare con Vaxzevria solo gli over 60. Nell'ultimo rapporto, Aifa mostra di non avere ancora inteso la lezione. Si parla di una trombosi su 1 milione di somministrazioni, poi - su sollecitazione di Report - portate a 3 su 1 milione. Ma vengono resi pubblici solo dati aggregati, senza distinzione per sesso, età, prima o seconda dose e tipo di evento avverso. E la reazione di un uomo anziano non è la stessa di una donna con meno di 60 anni, tra le quali si registrano due eventi avversi ogni 100.000 vaccini.
Piroetta Cartabia anche sulla sanità: dalla libertà di cura all’obbligo di fatto
Per ammissione di Mario Draghi, il governo si era avvalso delle competenze del Guardasigilli, Marta Cartabia, per vergare il decreto con cui ha imposto la vaccinazione anti Covid ai sanitari. L'ex presidente della Consulta, a gennaio 2018, quando ne era la numero due, fu la redattrice della sentenza con cui la Corte costituzionale diede l'ok definitivo alla legge Lorenzin, che portava a dieci le vaccinazioni imposte ai ragazzini fino ai 16 anni. Qualche anno prima, però, in materia di trattamenti sanitari obbligatori, la Cartabia coltivava convinzioni un tantino più liberali.
È il 2012. La giurista lombarda pubblica, sulla rivista dell'Agenas, Monitor. Elementi di analisi e osservazione del sistema salute, un saggio sul comma 2 dell'articolo 32 della Costituzione. Quello in cui si sancisce che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge», la quale, però, «non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Quell'articolo, letto col senno di poi, è un preclaro esempio delle sottili conversioni che nella vita a volte si accettano, pur di fare strada.
La Cartabia analizza sotto due profili il concetto di «libertà terapeutica»: come «libertà da interventi coercitivi» e «libertà positiva», di «scegliere le migliori terapie disponibili, il medico, il luogo della cura».
Cominciamo da una delle condizioni che, in base alla giurisprudenza costituzionale, l'attuale ministro della Giustizia individua quale limite alla facoltà d'imporre la somministrazione di farmaci: che il trattamento sanitario «non incida negativamente sulla salute del singolo, salvo che per quelle conseguenze temporanee, reversibili e di scarsa entità normalmente collegate a ogni intervento sanitario, che quindi appaiono tollerabili». Suona un campanello: si può applicare lo stesso principio ai farmaci anti Covid? Qualche virostar ha provato a convincerci che le miocarditi, riscontrate nei giovani inoculati con i vaccini a mRna, erano effetti di poco conto. È lecito dubitarne. Ma sicuramente non è «tollerabile» quello che è successo a Camilla Canepa, la diciottenne uccisa dalla dose di Astrazeneca, ricevuta durante un open day in Liguria.
Si obietterà: be', ma non esiste alcun obbligo di sottoporsi all'iniezione contro il coronavirus. Certo, e forse c'è una ragione giuridica per cui l'esecutivo non ha optato per l'obbligatorietà tout court: non avendo i vaccini anti Covid ricevuto l'approvazione definitiva da Ema e Aifa, a essi non si dovrebbe applicare la stessa dottrina, che consentì alla Cartabia di dare il semaforo verde alla legge Lorenzin. Resta però il fatto che, con il green pass e, ancor più, con il super green pass, Palazzo Chigi ha promosso un obbligo surrettizio: un modo di dribblare il dilemma costituzionale, sul quale ci si sarebbe potuti aspettare qualche obiezione dall'autrice di questo saggio di nove anni fa. Anche perché, citando una sentenza della Consulta sul caso della sciamanica terapia Di Bella, nello scritto del 2012 Cartabia ricorda che la libertà di cura «non si può tradurre in una pretesa generalizzata di essere sottoposto a qualunque trattamento sanitario, ancora in fase di sperimentazione, con oneri a carico dello Stato». E invece, è ragionevole l'inverso? Ovvero, che lo Stato pretenda di sottoporre i cittadini alla somministrazione di farmaci ancora privi di un'autorizzazione definitiva, pena l'esclusione dal lavoro e dalla vita sociale?
Peraltro, nel saggio su Monitor, la giurista menziona, come abbiamo visto, la «libertà di scegliere le migliori terapie disponibili». Siamo sicuri che sia stato questo il metodo adottato in Italia, almeno nei primi mesi della campagna vaccinale? È vero che ci trovavamo in emergenza, che le dosi scarseggiavano e che non si poteva andare tanto per il sottile; tuttavia, quando s'iniziò a capire che Astrazeneca provocava reazioni avverse molto serie, e la confusione comunicativa alimentata dal governo innescò un fuggi fuggi da quel preparato, Roberto Speranza arrivò a minacciare: «Chi rifiuta questo vaccino va in coda». Rimanendo esposto alle conseguenze gravi di un eventuale contagio. Non c'è che dire: un bel modo di tutelare la libertà di scegliere «la migliore terapia disponibile» e di trattare il paziente - citiamo sempre Cartabia - da «soggetto razionale, capace di scegliere con consapevolezza, [...] autonomo e indipendente».
Altro passaggio emblematico, è quello che l'ex giudice della Consulta dedica al consenso informato, lamentando che esso sia «ridotto a mera formalità», quando non è «stravolto in una forma di “liberatoria"». Domanda: quanto era davvero «informato» il consenso di chi s'è fatto iniettare, per dire, Johnson&Johnson, lieto di ottenere il monodose, per poi scoprire da Walter Ricciardi - ieri smentito dalla casa farmaceutica - che la copertura durerebbe solo due-tre mesi? In presenza di un'informazione caotica, spesso omissiva, e di un green pass diventato condizione per portare a casa il pane, regge la foglia di fico della volontarietà dei trattamenti?
Dinanzi a ciò che sta accadendo, di cui la Cartabia è compartecipe, echeggiano quasi beffarde le riflessioni contenute nella conclusione del testo del 2012: «La giurisprudenza costituzionale [...] è dominata [...] dalla preoccupazione di assicurare spazi di libertà individuale, intesa come autodeterminazione del paziente». Perciò riduce «al minimo» e circonda di «severe garanzie ogni forma di imposizione terapeutica». Tutto ciò, per «emancipare l'individuo dallo stato di soggezione rispetto a qualunque forma di potere: nel nostro caso dallo stato di soggezione del paziente rispetto al legislatore, alla struttura sanitaria, al medico e a ogni altra autorità». Da simili altezze libertarie, una triste involuzione: nove anni dopo, siamo passati, dal soggetto «razionale, autonomo e indipendente», alla «spinta gentile», alias ricatto del lasciapassare verde. Solo che, in via Arenula, nessuno fiata.
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L'ente accusa i media: avrebbero travisato il report da cui si evince che solo il 2,9% delle vittime di Covid non aveva altre malattie. Peccato che i numeri non siano cambiati. E dimostrino che, sui booster, sarebbe assurdo non fare differenze tra chi è sano e chi no.I rischi di Az per i giovani erano noti. Ma in Italia si facevano gli open day. Report rivela: già a marzo un immunologo tedesco aveva evidenziato i pericoli di Vaxzevria per gli under 60. Alla luce degli studi, vari Paesi Ue lo bloccarono. Da noi, invece, Cts e Roberto Speranza attesero la tragedia di Camilla. Piroetta Cartabia anche sulla sanità: dalla libertà di cura all'obbligo di fatto. In un saggio sull'articolo 32 della Costituzione, l'allora giudice difendeva consenso informato e autonomia. Nove anni dopo...Lo speciale comprende tre articoli.Come si applica il «contrordine compagni» alla comunicazione dell'Istituto superiore di sanità? Purtroppo non sembrano esserci molte variazioni rispetto al corrosivo sarcasmo che il grande Giovanni Guareschi applicava all'obbedienza ottusa dei trinariciuti militanti comunisti, pronti a qualsiasi giravolta purché richiesta dal giornale di partito. Così, con sprezzo del pericolo (e del ridicolo), nel tentativo di arginare il caos direttamente generato da un proprio report, l'Iss ha cercato nelle ultime 36 ore di rovesciare la frittata: «In relazione a quanto riportato da diversi media riguardo ai dati contenuti nel report sulle caratteristiche dei pazienti deceduti positivi a Sars-Cov-2 in Italia pubblicato lo scorso 19 ottobre, ed al fine di promuovere una loro appropriata interpretazione, si ritiene utile precisare che nel rapporto non è affermato che solo il 2,9% dei decessi attribuiti al Covid-19 è dovuto al virus. La percentuale del 2,9%, peraltro riportata anche nelle edizioni precedenti, si riferisce alla percentuale di pazienti deceduti con positività per Sars-Cov-2 che non avevano altre patologie diagnosticate prima dell'infezione. La cifra peraltro è confermata dall'osservazione fatta fin dalle prime fasi della pandemia e ampiamente riportata in diversi studi nazionali e internazionali e rapporti anche dall'Iss, che avere patologie preesistenti costituisce un fattore di rischio».Fin qui la seconda velina, dall'inconfondibile prosa legnosa e burocratica, diffusa nel tentativo di coprire lo sbrego aperto dalla velina precedente. Peccato che la toppa - come da proverbio - risulti peggiore del buco: i dati sono sempre gli stessi, e sono proprio le autorità sanitarie «ufficiali», dall'inizio della pandemia, ad aver iniziato il rimpallo tra «morti di Covid» e «morti con Covid». Che ora quelle stesse autorità si stupiscano se osservatori terzi osano fare la medesima distinzione a partire dai dati forniti proprio dall'Iss, conferisce alla polemica un tocco surreale. Siamo alle solite, insomma: in Italia si riesce a litigare selvaggiamente pure sui dati. In qualunque altro paese dell'Occidente avanzato, per lo meno sui dati (sulla loro dimensione oggettiva), non si discute: il dibattito, legittimamente, inizia semmai solo sulla loro interpretazione. Lasciando spazio, in quella sede interpretativa, a letture diverse, tutte legittime, senza che nessuno senta il bisogno di criminalizzare il portatore di una lettura diversa. Soltanto qui in Italia, e in particolare intorno al Covid, si cerca invece di costruire una discussione artificiosa (e come tale irricevibile) tra due posizioni estreme, uguali e contrarie, ed entrambe caricaturali: quella di chi arriva a sostenere che il Covid non esista, e quella - all'opposto - di chi, in nome di una enfatizzazione abnorme del rischio Covid, sembra determinato ad aprire la strada a qualunque intervento politico illiberale, a qualsiasi stravolgimento della normalità democratica, a una sorta di emergenza ossessiva e perenne. Ecco, questa polarizzazione ossessiva va respinta. Tra i due estremi, c'è invece (meglio: ci sarebbe) lo spazio per un dibattito civile tra nuances e sfumature differenti, tra chi (legittimamente) è disposto a sacrificare quote maggiori di libertà in nome della sicurezza e chi - al contrario - ritiene che la libertà non possa essere compressa in modo eccessivo. Venendo al caso specifico, è possibile ritenere che in tantissimi decessi dell'ultimo anno e mezzo abbiano avuto un peso determinante altre patologie, nonché la fragilità complessiva di persone molto anziane e già provate da significative vulnerabilità. Sostenere questa tesi così ragionevole (e peraltro suffragata dai numeri) è forse divenuto reato di opinione secondo l'Iss? È stato ripristinato il delitto di blasfemia? Si diventa ipso facto negazionisti per il solo fatto di interrogarsi criticamente su questo tema? Vogliamo sperare che la discussione pubblica non sia giunta a questo punto di intolleranza e dogmatismo.Da ultimo, una preoccupazione. La visione dogmatica che abbiamo appena finito di criticare sembra funzionale ad aprire la strada a soluzioni generalizzate, uguali per tutti, e perfino «non discutibili» (senza essere per ciò stesso criminalizzati), a partire dalla somministrazione in modo totalizzante e indistinto della terza dose. Ecco, ci permettiamo di dubitare della correttezza di questo metodo. In ogni ambito, anche sanitario (si pensi ai progressi nelle chemioterapie), si procede invece verso la maggiore personalizzazione possibile delle terapie, proprio per tenere conto delle differenze di ogni individuo. Venendo alla campagna vaccinale, un'autentica autorità come il professor Francesco Vaia (a cui speriamo nessuno pensi di dare del no vax…) ha saggiamente ammonito tutti, a più riprese, a considerare la condizione anticorpale di ogni persona (prima di pensare alle terze dosi), a valutare la memoria immunologica di ogni singolo individuo, fatalmente diversa da caso a caso. Questo secondo metodo, più rispettoso delle caratteristiche di ciascuno, più umile, più curvo sul caso singolo, più volto a una ricerca empirica e induttiva anziché all'imposizione dogmatica e deduttiva di tesi e soluzioni precostituite, è quello di cui si avverte un crescente bisogno.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/sui-dati-delliss-la-toppa-e-peggiore-del-buco-2655382345.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-rischi-di-az-per-i-giovani-erano-noti-ma-in-italia-si-facevano-gli-open-day" data-post-id="2655382345" data-published-at="1635276551" data-use-pagination="False"> I rischi di Az per i giovani erano noti. Ma in Italia si facevano gli open day Era il vaccino più economico, più facile da trasportare e da conservare, con un'efficacia tra il 90 e il 95% dei casi. L'Unione europea ne aveva ordinato 300 milioni di dosi e aveva fatto causa ai produttori per i ritardi nelle forniture. Poi però il vaccino di Astrazeneca è diventato pietra dello scandalo quando sono emerse gravi reazioni avverse. È stato bloccato in molti Paesi europei, compresa l'Italia. Ma da noi la decisione è giunta tardissimo, dopo la morte di Camilla Canepa. Un decesso assurdo, avvenuto in seguito agli open day di primavera che il Comitato tecnico scientifico aveva esteso a tutti coloro che avevano più di 18 anni nonostante che studi scientifici sconsigliassero la somministrazione di quel vaccino a chi ha meno di 50 anni. La ricostruzione è stata fatta l'altra sera dalla trasmissione Report di Rai 3. Vaxzevria, il vaccino di Astrazeneca, viene trionfalmente annunciato dalla Gran Bretagna a fine dicembre e autorizzato un mese prima che arrivi il via libera dell'Agenzia europea del farmaco (Ema). Le prime reazioni gravi si manifestano a gennaio e febbraio, ma le autorità sanitarie britanniche tacciono e non prendono provvedimenti. È una giornalista del Telegraph a portare alla luce lo scandalo: come mai in mezza Europa si segnalano sempre più casi di trombosi legate a un abbassamento delle piastrine nel sangue in seguito alla prima dose, e nel Regno Unito nulla? Altrove, però, l'allarme è già suonato, Italia compresa. Ai primi di marzo nel Messinese muore il militare Stefano Paternò, 43 anni. Per prudenza, il ministro Roberto Speranza fa ritirare il lotto di vaccino al quale apparteneva la dose fatale: circola così l'idea che si tratti di una partita difettosa, non che fosse l'Astrazeneca in sé a provocare la trombosi. Quello stesso giorno, l'11 marzo, la Danimarca si riprende tutte le dosi di vaccino senza distinzioni. In Italia altre morti si succedono, tutte in Sicilia. Le perizie richieste dai familiari sconvolti non lasciano dubbi sui legami tra decessi e vaccini. In quegli stessi giorni, l'immunologo tedesco Andreas Greinacher , un luminare nel campo, conferma in laboratorio la possibilità che il vettore adenovirale presente nel Vaxzevria possa provocare trombosi. Viene anche sperimentata la cura, che prevede la somministrazione di immunoglobuline se la sindrome viene presa in tempo. Tuttavia l'Ema non fa una piega e ribadisce la validità del vaccino. Da noi Vaxzevria viene inoculato a insegnanti e forze dell'ordine e la faccenda viene liquidata come uno scontro di campanile tra i tedeschi produttori di Pfizer-Biontech e gli inglesi di Astrazeneca. Quando in Europa i dubbi prendono corpo, al ministero va in scena un balletto di circolari contraddittorie: prima consigliato agli under 55, poi agli under 65, quindi sospeso tre giorni e infine, il 7 aprile, raccomandato agli over 60. Nel frattempo il siero di Oxford si conquista la peggior fama possibile e nessuno lo vuole più. Che fare dunque con le enormi scorte accumulate? L'Italia aveva ordinato 40 milioni di dosi. Il Comitato tecnico scientifico chiede un riscontro statistico al Winton centre for risk and communication dell'università di Cambridge, in base al quale il 12 maggio l'organismo presieduto dal professor Franco Locatelli sdogana nuovamente il Vaxzevria estendendolo a tutti i maggiorenni. Nel verbale si legge che il Cts «non rileva motivi ostativi» per la campagna di massa con «vaccini a vettore adenovirale a tutti gli over 18». Si cita una precedente analisi dell'Ema, dalla quale risulta una media di 1,1 trombosi su 100.000 prime dosi e 8 morti evitate. Tuttavia il dato è relativo alla sola popolazione sopra i 60 anni, ma ciò non viene detto. Tra i più giovani la situazione è completamente diversa: non si prevedono morti, in compenso il rischio di trombosi fatale raddoppia. Intervistato da Report, l'ex presidente dell'Agenzia italiana del farmaco Guido Rasi dice che si doveva evitare di immunizzare i giovani con Astrazeneca: «Già a maggio si poteva dedurre che quello non era il vaccino ideale per gli under 40». Il viceministro Pierpaolo Sileri conferma. Invece che succede? Sulla scorta della decisione del Cts, il commissario Francesco Paolo Figliuolo lancia gli open day per chiunque voglia vaccinarsi. In Liguria il governatore Giovanni Toti in pochi giorni raccoglie 20.000 prenotazioni. Tra loro c'è anche una diciottenne di Sestri Levante, Camilla Canepa, che riceve la prima dose il 25 maggio e pochi giorni dopo muore. Solo allora, l'11 giugno, diventa finalmente vincolante la «raccomandazione» di vaccinare con Vaxzevria solo gli over 60. Nell'ultimo rapporto, Aifa mostra di non avere ancora inteso la lezione. Si parla di una trombosi su 1 milione di somministrazioni, poi - su sollecitazione di Report - portate a 3 su 1 milione. Ma vengono resi pubblici solo dati aggregati, senza distinzione per sesso, età, prima o seconda dose e tipo di evento avverso. E la reazione di un uomo anziano non è la stessa di una donna con meno di 60 anni, tra le quali si registrano due eventi avversi ogni 100.000 vaccini. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/sui-dati-delliss-la-toppa-e-peggiore-del-buco-2655382345.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="piroetta-cartabia-anche-sulla-sanita-dalla-liberta-di-cura-allobbligo-di-fatto" data-post-id="2655382345" data-published-at="1635276551" data-use-pagination="False"> Piroetta Cartabia anche sulla sanità: dalla libertà di cura all’obbligo di fatto Per ammissione di Mario Draghi, il governo si era avvalso delle competenze del Guardasigilli, Marta Cartabia, per vergare il decreto con cui ha imposto la vaccinazione anti Covid ai sanitari. L'ex presidente della Consulta, a gennaio 2018, quando ne era la numero due, fu la redattrice della sentenza con cui la Corte costituzionale diede l'ok definitivo alla legge Lorenzin, che portava a dieci le vaccinazioni imposte ai ragazzini fino ai 16 anni. Qualche anno prima, però, in materia di trattamenti sanitari obbligatori, la Cartabia coltivava convinzioni un tantino più liberali. È il 2012. La giurista lombarda pubblica, sulla rivista dell'Agenas, Monitor. Elementi di analisi e osservazione del sistema salute, un saggio sul comma 2 dell'articolo 32 della Costituzione. Quello in cui si sancisce che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge», la quale, però, «non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Quell'articolo, letto col senno di poi, è un preclaro esempio delle sottili conversioni che nella vita a volte si accettano, pur di fare strada. La Cartabia analizza sotto due profili il concetto di «libertà terapeutica»: come «libertà da interventi coercitivi» e «libertà positiva», di «scegliere le migliori terapie disponibili, il medico, il luogo della cura». Cominciamo da una delle condizioni che, in base alla giurisprudenza costituzionale, l'attuale ministro della Giustizia individua quale limite alla facoltà d'imporre la somministrazione di farmaci: che il trattamento sanitario «non incida negativamente sulla salute del singolo, salvo che per quelle conseguenze temporanee, reversibili e di scarsa entità normalmente collegate a ogni intervento sanitario, che quindi appaiono tollerabili». Suona un campanello: si può applicare lo stesso principio ai farmaci anti Covid? Qualche virostar ha provato a convincerci che le miocarditi, riscontrate nei giovani inoculati con i vaccini a mRna, erano effetti di poco conto. È lecito dubitarne. Ma sicuramente non è «tollerabile» quello che è successo a Camilla Canepa, la diciottenne uccisa dalla dose di Astrazeneca, ricevuta durante un open day in Liguria. Si obietterà: be', ma non esiste alcun obbligo di sottoporsi all'iniezione contro il coronavirus. Certo, e forse c'è una ragione giuridica per cui l'esecutivo non ha optato per l'obbligatorietà tout court: non avendo i vaccini anti Covid ricevuto l'approvazione definitiva da Ema e Aifa, a essi non si dovrebbe applicare la stessa dottrina, che consentì alla Cartabia di dare il semaforo verde alla legge Lorenzin. Resta però il fatto che, con il green pass e, ancor più, con il super green pass, Palazzo Chigi ha promosso un obbligo surrettizio: un modo di dribblare il dilemma costituzionale, sul quale ci si sarebbe potuti aspettare qualche obiezione dall'autrice di questo saggio di nove anni fa. Anche perché, citando una sentenza della Consulta sul caso della sciamanica terapia Di Bella, nello scritto del 2012 Cartabia ricorda che la libertà di cura «non si può tradurre in una pretesa generalizzata di essere sottoposto a qualunque trattamento sanitario, ancora in fase di sperimentazione, con oneri a carico dello Stato». E invece, è ragionevole l'inverso? Ovvero, che lo Stato pretenda di sottoporre i cittadini alla somministrazione di farmaci ancora privi di un'autorizzazione definitiva, pena l'esclusione dal lavoro e dalla vita sociale? Peraltro, nel saggio su Monitor, la giurista menziona, come abbiamo visto, la «libertà di scegliere le migliori terapie disponibili». Siamo sicuri che sia stato questo il metodo adottato in Italia, almeno nei primi mesi della campagna vaccinale? È vero che ci trovavamo in emergenza, che le dosi scarseggiavano e che non si poteva andare tanto per il sottile; tuttavia, quando s'iniziò a capire che Astrazeneca provocava reazioni avverse molto serie, e la confusione comunicativa alimentata dal governo innescò un fuggi fuggi da quel preparato, Roberto Speranza arrivò a minacciare: «Chi rifiuta questo vaccino va in coda». Rimanendo esposto alle conseguenze gravi di un eventuale contagio. Non c'è che dire: un bel modo di tutelare la libertà di scegliere «la migliore terapia disponibile» e di trattare il paziente - citiamo sempre Cartabia - da «soggetto razionale, capace di scegliere con consapevolezza, [...] autonomo e indipendente». Altro passaggio emblematico, è quello che l'ex giudice della Consulta dedica al consenso informato, lamentando che esso sia «ridotto a mera formalità», quando non è «stravolto in una forma di “liberatoria"». Domanda: quanto era davvero «informato» il consenso di chi s'è fatto iniettare, per dire, Johnson&Johnson, lieto di ottenere il monodose, per poi scoprire da Walter Ricciardi - ieri smentito dalla casa farmaceutica - che la copertura durerebbe solo due-tre mesi? In presenza di un'informazione caotica, spesso omissiva, e di un green pass diventato condizione per portare a casa il pane, regge la foglia di fico della volontarietà dei trattamenti? Dinanzi a ciò che sta accadendo, di cui la Cartabia è compartecipe, echeggiano quasi beffarde le riflessioni contenute nella conclusione del testo del 2012: «La giurisprudenza costituzionale [...] è dominata [...] dalla preoccupazione di assicurare spazi di libertà individuale, intesa come autodeterminazione del paziente». Perciò riduce «al minimo» e circonda di «severe garanzie ogni forma di imposizione terapeutica». Tutto ciò, per «emancipare l'individuo dallo stato di soggezione rispetto a qualunque forma di potere: nel nostro caso dallo stato di soggezione del paziente rispetto al legislatore, alla struttura sanitaria, al medico e a ogni altra autorità». Da simili altezze libertarie, una triste involuzione: nove anni dopo, siamo passati, dal soggetto «razionale, autonomo e indipendente», alla «spinta gentile», alias ricatto del lasciapassare verde. Solo che, in via Arenula, nessuno fiata.
Friedrich Merz (Ansa)
Il dissenso della gioventù aveva provocato forti tensioni all’interno della maggioranza tanto da far rischiare la prima crisi di governo seria per Merz. Il via libera del parlamento tedesco, dunque, segna di fatto una crisi politica enorme e pure lo scollamento della democrazia tra maggioranza effettiva e maggioranza dopata. Come già era accaduto in Francia, la materia pensionistica è l’iceberg contro cui si schiantano i… Titanic: Macron prima, Merz adesso. Il presidente francese sulle pensioni ha visto la rottura dei suoi governi per l’incalzare di rivolte popolari e questo in carica guidato da Lecornu ha dovuto congelare la materia per non lasciarci le penne. Del resto in Europa non è il solo che naviga a vista, non curante della sfiducia nel Paese: in Spagna il governo Sánchez è in piena crisi di consensi per i casi di corruzione scoppiati nel partito e in casa, e pure l’accordo coi i catalani e coi baschi rischia di far deragliare l’esecutivo sulla finanziaria. In Olanda non c’è ancora un governo. In Belgio il primo ministro De Wever ha chiesto altro tempo al re Filippo per superare lo stallo sulla legge di bilancio che si annuncia lacrime e sangue. In Germania - dicevamo - il governo si è salvato per l’appoggio determinante della sinistra radicale, aprendo quindi un tema politico che lascerà strascichi dei quali beneficerà Afd, partito assai attrattivo proprio tra i giovani.
I tre voti con i quali Merz si è salvato peseranno tantissimo e manterranno acceso il dibattito proprio su una questione ancestrale: l’aumento del debito pubblico. «Questo disegno di legge va contro le mie convinzioni fondamentali, contro tutto ciò per cui sono entrato in politica», ha dichiarato a nome della Junge Union Gruppe Pascal Reddig durante il dibattito. Lui è uno dei diciotto che avrebbe voluto affossare la stabilizzazione previdenziale anche a costo di mandare sotto il governo: il gruppo dei giovani non aveva mai preso in considerazione l’idea di caricare sulle spalle delle future generazioni 115 miliardi di costi aggiuntivi a partire dal 2031.
E senza quei 18 sì, il governo sarebbe finito al tappeto. Quindi ecco la solita minestrina riscaldata della sopravvivenza politica a qualsiasi costo: l’astensione dai banchi dell’opposizione del partito di estrema sinistra Die Linke, per effetto della quale si è ridotto il numero di voti necessari per l'approvazione. E i giovani? E le loro idee?
Merz ha affermato che le preoccupazioni della Junge Union saranno prese in considerazione in una revisione più ampia del sistema pensionistico prevista per il 2026, che affronterà anche la spinosa questione dell'innalzamento dell'età pensionabile. Un bel modo per cercare di salvare il salvabile. Anche se ora arriva pure la tegola della riforma della leva: il parlamento tedesco ha infatti approvato la modernizzazione del servizio militare nel Paese, introducendo una visita medica obbligatoria per i giovani diciottenni e la possibilità di ripristinare la leva obbligatoria in caso di carenza di volontari. Un altro passo verso la piena militarizzazione, materia su cui l’opinione pubblica tedesca è in profondo disaccordo e che Afd sta cavalcando. Sempre che la democrazia non deciderà di fermare Afd…
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«The Rainmaker» (Sky)
The Rainmaker, versione serie televisiva, sarà disponibile su Sky Exclusive a partire dalla prima serata di venerdì 5 dicembre. E allora l'abisso immenso della legalità, i suoi chiaroscuri, le zone d'ombra soggette a manovre e interpretazioni personali torneranno protagonisti. Non a Memphis, dov'era ambientato il romanzo originale, bensì a Charleston, nella Carolina del Sud.
Il rainmaker di Grisham, il ragazzo che - fresco di laurea - aveva fantasticato sulla possibilità di essere l'uomo della pioggia in uno degli studi legali più prestigiosi di Memphis, è lontano dal suo corrispettivo moderno. E non solo per via di una città diversa. Rudy Baylor, stesso nome, stesso percorso dell'originale, ha l'anima candida del giovane di belle speranze, certo che sia tutto possibile, che le idee valgano più dei fatti. Ma quando, appena dopo la laurea in Giurisprudenza, si trova tirocinante all'interno di uno studio fra i più blasonati, capisce bene di aver peccato: troppo romanticismo, troppo incanto. In una parola, troppa ingenuità.
Rudy Baylor avrebbe voluto essere colui che poteva portare più clienti al suddetto studio. Invece, finisce per scontrarsi con un collega più anziano nel giorno dell'esordio, i suoi sogni impacchettati come fossero cosa di poco conto. Rudy deve trovare altro: un altro impiego, un'altra strada. E finisce per trovarla accanto a Bruiser Stone, qui donna, ben lontana dall'essere una professionista integerrima. Qui, i percorsi divergono.
The Rainmaker, versione serie televisiva, si discosta da The Rainmaker versione carta o versione film. Cambia la trama, non, però, la sostanza. Quel che lo show, in dieci episodi, vuole cercare di raccontare quanto complessa possa essere l'applicazione nel mondo reale di categorie di pensiero apprese in astratto. I confini sono labili, ciascuno disposto ad estenderli così da inglobarvi il proprio interesse personale. Quel che dovrebbe essere scontato e oggettivo, la definizione di giusto o sbagliato, sfuma. E non vi è più certezza. Nemmeno quella basilare del singolo, che credeva di aver capito quanto meno se stesso. Rudy Baylor, all'interno di questa serie, a mezza via tra giallo e legal drama, deve, dunque, fare quel che ha fatto il suo predecessore: smettere ogni sua certezza e camminare al di fuori della propria zona di comfort, alla ricerca perpetua di un compromesso che non gli tolga il sonno.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Mentre l’Europa è strangolata da una crisi industriale senza precedenti, la Commissione europea offre alla casa automobilistica tedesca una tregua dalle misure anti-sovvenzioni. Questo armistizio, richiesto da VW Anhui, che produce il modello Cupra in Cina, rappresenta la chiusura del cerchio della de-industrializzazione europea. Attualmente, la VW paga un dazio anti-sovvenzione del 20,7 per cento sui modelli Cupra fabbricati in Cina, che si aggiunge alla tariffa base del 10 per cento. L’offerta di VW, avanzata attraverso la sua sussidiaria Seat/Cupra, propone, in alternativa al dazio, una quota di importazione annuale e un prezzo minimo di importazione, meccanismi che, se accettati da Bruxelles, esenterebbero il colosso tedesco dal pagare i dazi. Non si tratta di una congiuntura, ma di un disegno premeditato. Pochi giorni fa, la stessa Volkswagen ha annunciato come un trionfo di essere in grado di produrre veicoli elettrici interamente sviluppati e realizzati in Cina per la metà del costo rispetto alla produzione in Europa, grazie alle efficienze della catena di approvvigionamento, all’acquisto di batterie e ai costi del lavoro notevolmente inferiori. Per dare un’idea della voragine competitiva, secondo una analisi Reuters del 2024 un operaio VW tedesco costa in media 59 euro l’ora, contro i soli 3 dollari l’ora in Cina. L’intera base produttiva europea è già in ginocchio. La pressione dei sindacati e dei politici tedeschi per produrre veicoli elettrici in patria, nel tentativo di tutelare i posti di lavoro, si è trasformata in un calice avvelenato, secondo una azzeccata espressione dell’analista Justin Cox.
I dati sono impietosi: l’utilizzo medio della capacità produttiva nelle fabbriche di veicoli leggeri in Europa è sceso al 60% nel 2023, ma nei paesi ad alto costo (Germania, Francia, Italia e Regno Unito) è crollato al 54%. Una capacità di utilizzo inferiore al 70% è considerata il minimo per la redditività.
Il risultato? Centinaia di migliaia di posti di lavoro che rischiano di scomparire in breve tempo. Volkswagen, che ha investito miliardi in Cina nel tentativo di rimanere competitiva su quel mercato, sta tagliando drasticamente l’occupazione in patria. L’accordo con i sindacati prevede la soppressione di 35.000 posti di lavoro entro il 2030 in Germania. Il marchio VW sta già riducendo la capacità produttiva in Germania del 40%, chiudendo linee per 734.000 veicoli. Persino stabilimenti storici come quello di Osnabrück rischiano la chiusura entro il 2027.
Anziché imporre una protezione doganale forte contro la concorrenza cinese, l’Ue si siede al tavolo per negoziare esenzioni personalizzate per le sue stesse aziende che delocalizzano in Oriente.
Questa politica di suicidio economico ha molto padri, tra cui le case automobilistiche tedesche. Mercedes e Bmw, insieme a VW, fecero pressioni a suo tempo contro l’imposizione di dazi Ue più elevati, temendo che una guerra commerciale potesse danneggiare le loro vendite in Cina, il mercato più grande del mondo e cruciale per i loro profitti. L’Associazione dell’industria automobilistica tedesca (Vda) ha definito i dazi «un errore» e ha sostenuto una soluzione negoziata con Pechino.
La disastrosa svolta all’elettrico imposta da Bruxelles si avvia a essere attenuata con l’apertura (forse) alle immatricolazioni di motori a combustione e ibridi anche dopo il 2035, ma ha creato l’instabilità perfetta per l’ingresso trionfale della Cina nel settore. I produttori europei, combattendo con veicoli elettrici ad alto costo che non vendono come previsto (l’Ev più economico di VW, l’ID.3, costa oltre 36.000 euro), hanno perso quote di mercato e hanno dovuto ridimensionare obiettivi, profitti e occupazione in Europa. A tal riguardo, ieri il premier Giorgia Meloni, insieme ai leader di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Ungheria, in una lettera ai vertici Ue, ha esortato l’Unione ad abbandonare, una volta per tutte, il dogmatismo ideologico che ha messo in ginocchio interi settori produttivi, senza peraltro apportare benefici tangibili in termini di emissioni globali». Nel testo, si chiede di mantenere anche dopo il 2035 le ibride e di riconoscere i biocarburanti come carburanti a emissioni zero.
L’Ue, che sempre pretende un primato morale, ha in realtà creato le condizioni perfette per svuotare il continente di produzione industriale. Accettare esenzioni dai dazi sull’import dalle aziende che hanno traslocato in Cina è la beatificazione della delocalizzazione. L’Europa si avvia a diventare uno showroom per prodotti asiatici, con le sue fabbriche ridotte a ruderi. Paradossalmente, diverse case automobilistiche cinesi stanno delocalizzando in Europa, dove progettano di assemblare i veicoli e venderli localmente, aggirando così i dazi europei. La Great Wall Motors progetta di aprire stabilimenti in Spagna e Ungheria per assemblare i veicoli. Anche considerando i più alti costi del lavoro europei (16 euro in Ungheria, dato Reuters), i cinesi pensano di riuscire ad essere più competitivi dei concorrenti locali. Per convenienza, i marchi europei vanno in Cina e quelli cinesi vengono in Europa, insomma. A perderci sono i lavoratori europei.
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