2021-08-04
Pannofino: «Sono abbonato a doppiare Clooney ma è più dura dar la voce ai cartoni»
Francesco Pannofino (Ansa)
L’attore dal timbro inconfondibile: «Sono stato George la prima volta per caso, poi ho sempre vinto i provini Da giovane mi iscrissi a matematica solo per saltare il militare. La svolta con le telenovelas sudamericane»Francesco Pannofino ti travolge con la sua simpatia contagiosa. Anche un’intervista può diventare un’occasione per spiazzare l’interlocutore con battute improvvise, salvo poi lasciarsi andare a sprazzi di filosofia, frutto dell’esperienza maturata attraverso una lunga gavetta. Con generosità si racconta, offrendo a chi si accosta al mestiere di attore delle dritte per orientarsi in un universo popolato di sogni e costellato di delusioni. Un cammino molto lungo lo ha portato alla meritata fama, ma soprattutto al riconoscimento del suo talento e della sua capacità poliedrica di esprimersi in ogni ramo dello spettacolo. Rimanendo sempre sé stesso.La sua famiglia è pugliese e si è trasferita in Liguria…«Mio padre era carabiniere e faceva servizio in un paesino dell’entroterra ligure, che si chiama Pieve di Teco, dove siamo nati io e mio fratello, poi le scuole le abbiamo fatte a Imperia, che è il capoluogo di provincia. Ho fatto elementari e medie, poi nel 1972 papà è stato trasferito a Roma e ci siamo spostati tutti, armi e bagagli».A Roma si è poi iscritto alla facoltà di matematica. Come mai questa scelta?«Perché andavo bene in matematica a scuola ed era la facoltà che prevedeva meno esami. Ne ho fatti tre per svangare il militare, poi ho cominciato a lavorare, a fare teatro e l’assistente di doppiaggio».Si è buttato immediatamente nel campo dello spettacolo. «Allora non avevo la coscienza di quello che volessi fare. Era un po’ da incoscienti, però è meglio così. Quando sei giovane, hai tempo per scegliere un piano B, se non dovesse andare bene il primo. Io volevo fare il mestiere tuo, pensa».Addirittura?«Il giornalista sportivo. Volevo fare le telecronache delle partite. Mi allenavo da bambino». Aveva come modello Nando Martellini?«Martellini e poi Bruno Pizzul. Adesso conosco quasi tutti i telecronisti odierni».È rimasto un sogno?«Un sogno svanitissimo, non ce penso proprio! Ognuno deve fare il mestiere suo: sono 40 anni che faccio l’attore e me metti a fa’ il telecronista?!».Allo stadio da ragazzo vendeva le bibite…«A 16 anni, per andare la domenica a vedere la partita all’Olimpico. Avevo un amico che lo faceva. Mio padre mi ha detto: “Oltre a non pagare il biglietto, vai lì a lavorare e guadagni qualcosa”. Allora i miei avevano comprato casa e non c’era una lira. Mi sono dovuto arrangiare. Ho vissuto tutto il campionato della Lazio che ha vinto lo scudetto nel 1974».Il suo debutto artistico è stato a teatro. Ha ricordi della sua prima esperienza sul palcoscenico?«Certo, ero uno spettacolo per le scuole. Io già facevo doppiaggio. Qualcuno organizzava spettacoli per le scuole la mattina… è terribile recitare di mattina, però erano belli. Erano degli atti unici di Čechov, L’orso, L’anniversario e Una domanda di matrimonio, le sue opere più comiche. Il pubblico rideva quando io facevo il personaggio, mi sentivo a mio agio, ma avevo già fatto esperienze precedenti, da bambino, con la scuola. Io c’ero sempre: quando c’era da leggere qualcosa, me la facevano leggere a me, quando c’era da raccontare una barzelletta, la raccontavo io».Aveva una dote naturale…«Sì, l’ho scoperto con gli anni. Io sostengo è che bisogna essere portati per fare ’sto mestiere. Fare l’attore è bello, però completamente diverso da come uno se lo immagina. Io sono contento: lo avrei voluto fare e lo faccio. Già questa è una conquista».L’esperienza nel doppiaggio com’è nata?«Alla fine degli anni Settanta arrivarono le tv private e portarono tonnellate di materiale da doppiare, dal Sudamerica, le famose telenovelas venezuelane, brasiliane, che avevano un seguito popolare. Poi cartoni animati, documentari. È da lì che nasce il boom dei doppiatori, che da 200 divennero 2.000».Il passaggio al doppiaggio di film com’è avvenuto?«Lavorando, qualcuno si è accorto che potevo fare qualcosa. All’inizio lo fai per questione di sopravvivenza, poi cominci a doppiare attori famosi».Il primo film importante?«Gli intoccabili di Brian De Palma, doppiavo Charles Martin Smith. Subito dopo ho cominciato a fare Denzel Washington, poi George Clooney, Daniel Day-Lewis, Kurt Russell, Antonio Banderas e tanti altri. Adesso spero che qualcuno degli attori che ho doppiato doppi me!».All’inizio non era lei a doppiare Clooney…«Mi hanno chiamato per un film in cui recitava con Michelle Pfeiffer, Un giorno per caso, poi per quattro-cinque volte ho dovuto fare il provino e ho sempre vinto».Ha avuto modo di conoscerlo?«No, ci ho parlato al telefono perché è venuto a vedere un film che aveva diretto, In amore niente regole. Hanno fatto una prima qui a Roma e lui ha chiesto dove fosse l’attore che l’aveva doppiato. Io non c’ero, allora Giulio Base, che è un mio amico, gli ha detto: “Guarda che non c’è, però ho il numero, se vuoi lo chiamiamo”. Mi hanno chiamato e ci ho parlato un attimo. Gli ho detto di non imparare a parlare l’italiano e che gli voglio bene!».Come fa a dare a ogni attore un tono diverso? Immagino che la difficoltà sia differenziarli.«Il “la” te lo danno loro. L’importante è essere aderenti al volto e cercare di fare quello che fanno loro, senza tradire. Il doppiaggio è un trucco cinematografico: è chiaro che gli interpreti del film non parlano, ma deve sembrare che lo facciano. Il pubblico non si deve accorgere che parlano con un’altra voce, sennò… Ci sono attori che hanno voci particolarmente adatte alla mia e in questi casi è più facile».Come il personaggio di Hagrid in Harry Potter…«Robbie Coltrane è un omone, ha un vocione!».C’è un attore che ha avuto difficoltà a doppiare perché ha una voce particolare?«No, difficoltà no perché poi alla fine ne esco sempre palla al piede. Ti posso dire uno difficoltoso: Rosso senzabraghe in Mucca e pollo, un cartone animato. Ci sono una mucca e un pollo, nati da due umani di cui si vedono solo le gambe, e già siamo nell’assurdo, a un certo punto i due acquisiscono dei superpoteri e diventano supermucca e superpollo. Io facevo il diavoletto che cerca di mettere il bastone tra le ruote, cambiando sembianze e voce, un mazzo così! È stato faticoso».Al cinema ha debuttato con Luciano De Crescenzo.«Sì, in Croce e delizia. Feci un provino perché la signora del casting, Antonella Romagnoli, mi aveva visto a teatro: mi chiamò per fare il provino, Luciano lo vide e mi prese».All’inizio la sua attività cinematografica è stata piuttosto saltuaria.«Sì, perché facevo il doppiatore a tempo pieno. Ho fatto qualche provino, non mi prendevano mai, allora ho detto: “Chi se ne frega!”, tanto facevo il doppiatore e teatro. Sono stato 25 anni al Teatro dell’Orologio, a Roma. Ero soddisfattissimo, facevo il doppiaggio di giorno, la sera lo spettacolo, non è che fosse una passeggiata, però, quando sei giovane, devi battere il ferro».Ricorda qualche film importante per il quale non è stato preso?«Non mi hanno preso in tanti che non me li ricordo più! Una volta ho fatto un provino con Ron Howard per Angeli e demoni e ovviamente non mi ha preso. Io resetto: quelli che non mi scelgono li cancello, senza rancore. Fa parte del gioco: non bisogna né abbattersi se non ti prendono né esaltarsi quando ti prendono».Le cose sono cambiate con il successo di Boris?«Già facevo qualcosa al cinema, avevo iniziato a uscire dalle sale di doppiaggio, ma Boris è stato un trampolino importante. Mi hanno chiamato perché mi avevano visto al Teatro dell’Orologio e sono andato a fare il provino per due personaggi, uno era René, l’altro Duccio. Poi mi hanno preso per fare René e per Duccio hanno preso Ninni Bruschetta. Abbiamo girato la puntata pilota e io speravo di farlo. Bisognava crederci, si lavorava a orari abbastanza pesanti, alla fine è andata bene, ma c’è voluto tempo perché la serie avesse successo. Quest’anno l’hanno messa su Netflix e lì ha fatto il botto. I numeri sono importanti: se fai uno spettacolo e il teatro non è pieno, non può essere sempre colpa del pubblico».Quando è cambiato il suo atteggiamento rispetto al cinema e ha pensato di dedicarvi più tempo?«Io non ho mai cambiato atteggiamento, sono sempre stato lo stesso. Mi piace diversificare, devo fare più cose: teatro, televisione, doppiaggio, radio, cinema, almeno così non mi annoio, altrimenti due palle!».Tra i ruoli cinematografici, quale reputa più significativo?«Sicuramente René in Boris - Il film. Ricordo anche il personaggio di Notturno bus di Davide Marengo, però ne dimentico sicuramente qualcuno. Mi è piaciuto tanto interpretare Nero Wolfe per la televisione, una bellissima esperienza, peccato che non si sia ripetuta, malgrado un grande successo di pubblico». Non ha mai pensato alla regia?«Sì, ci ho pensato, ma ci sono troppo rotture, troppa gente che ti chiede. Io non sono adatto ad avere persone alle mie dipendenze, è un aspetto del mio carattere».Quindi nemmeno fare il direttore di doppiaggio?«Sì, l’ho fatto, ma continuativamente mi annoia, preferisco fare quello per cui sono adatto, l’attore».Questa voglia di cambiare nasce da una spinta interiore…«Amico mio, è andata così! Non è che uno sceglie: ti chiamano a fare la radio, fai la radio, ti chiamano a fare il doppiaggio, fai doppiaggio, ti chiamano a fare teatro, fai teatro, ti chiamano a fare cinema, fai cinema. Io non credo a quelli che dicono: “Io ho scelto, io ho fatto…” perché non è vero. Sì, si può scegliere, se ti arrivano due-tre proposte nello stesso periodo. Ci sono tanti fattori, anche il fattore fortuna è importante. Ma quanto dura ’st’intervista!».È finita.«Per fortuna!».
Little Tony con la figlia in una foto d'archivio (Getty Images). Nel riquadro, Cristiana Ciacci in una immagine recente
«Las Muertas» (Netflix)
Disponibile dal 10 settembre, Las Muertas ricostruisce in sei episodi la vicenda delle Las Poquianchis, quattro donne che tra il 1945 e il 1964 gestirono un bordello di coercizione e morte, trasformato dalla serie in una narrazione romanzata.