
Dichiarando illegittimo un articolo, la Consulta amplia il reintegro dei lavoratori I casi di licenziamento nullo non devono essere previsti «espressamente» dalla legge.Un altro pezzo del Jobs act viene smontato. La Corte costituzionale, ampliando il reintegro sul posto di lavoro per i licenziamenti nulli, ha di fatto dato un ulteriore colpo alla riforma del lavoro voluta dall’ex premier ed ex Rottamatore Matteo Renzi. Il lavoratore che ha subito un licenziamento nullo, deve sempre essere reintegrato, anche nei casi non «espressamente» previsti dalla legge. La Consulta, con la sentenza depositata ieri, ha dunque dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 2, primo comma, del decreto legislativo n. 23/2015 (uno dei decreti attuativi del Jobs act), limitatamente alla parola «espressamente». Nel dettaglio, è stata ritenuta illegittima la parte che riconosceva il reintegro sul posto di lavoro solo nei casi di licenziamenti nulli previsti espressamente dalla legge. A sollevare la questione è stato un dipendente, assunto come autista, licenziato dalla sua azienda che ha impugnato l’atto chiedendo al giudice della Corte di appello di Firenze, di vedersi riconosciuto il licenziamento nullo e la conseguente reintegra sul posto di lavoro. La Corte non ha riconosciuto il licenziamento nullo e più in generale il suo giudizio non ha soddisfatto nessuna delle due parti, che hanno di conseguenza impugnato in Cassazione. Esaminando il caso, la Cassazione ha scoperto come la limitazione inserita nel Jobs act in relazione al fatto che si potesse parlare di licenziamento nullo solo nei casi espressamente previsti dalla legge, risultava essere in contrasto con l’articolo 76 della Costituzione. La Corte costituzionale ha ritenuto fondato quanto sostenuto dalla Cassazione, dato che prevedendo il reintegro solo nei casi di nullità «espressi dalla legge», si è andata a creare una disciplina «incompleta e incoerente» per le fattispecie escluse. Parliamo dunque di tutti quei licenziamenti che di fatto sono nulli, per violazioni di norme imperative, ma che risultano essere privi dell’espressa» sanzione di nullità. Andando dunque a dichiarare l’illegittimità costituzionale della parola «espressamente», contenuta nell’articolo 2, primo comma, del decreto legislativo n. 23/2015, si stabilisce che «il regime del licenziamento nullo è lo stesso, sia che nella disposizione imperativa violata ricorra l’espressa sanzione della nullità, sia che ciò non sia testualmente previsto, sempre che risulti prescritto un divieto di licenziamento al ricorrere di determinati presupposti», conclude la Consulta. La sentenza di ieri della Corte costituzionale è l’ultima di una serie di decisioni che dal 2018 stanno smontando pezzo per pezzo il Jobs act. La prima è stata la numero 194/2018, che ha puntato il faro sul sistema delle tutele crescenti, contestando il criterio di indennizzo meccanico calcolato in ragione di due mensilità per ogni anno di anzianità. Secondo la Corte, «la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è contraria ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dall’articolo 4 e 35 della Costituzione». Con la sentenza n. 183/2022 la Corte costituzionale, anche se non rileva principi incostituzionali in materia di indennità prevista per i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese, rivolge un monito al legislatore per intervenire con urgenza sulla materia per inserire delle tutele adeguate ai lavoratori. E infine, con la decisione di ieri, corregge i termini del licenziamento nullo presenti nel Jobs act.
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