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2024-11-15
«Silo» torna su Apple Tv+ con la seconda stagione
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«Silo» (Apple Tv+)
Un passo indietro, doveroso, al 2011, all'anno in cui Hugh Howey ha scritto il primo romanzo. Wool è uscito allora, in un mondo televisivamente lontano dal pluralismo di oggi, dalla bulimia cui l'avvento dello streaming ha indotto gli Studios. Wool è uscito agli albori di Game of Thrones, quando ancora Netflix non esisteva. Due altri libri gli hanno fatto seguito, due altri successi. Eppure, l'industria dell'intrattenimento ha impiegato tredici anni a tradurre quella frenesia letteraria in una saga televisiva. E a guardarla, oggi, la saga tratta dai libri di Howey, si ha una sensazione strana, un senso di straniamento. Come ad assistere alla personificazione di un anacronismo: qualcosa fuori dal tempo, bello, bellissimo, ma collocato in una dimensione che non gli è propria.
Wool, cui sono seguiti Shift e Dust, romanzi che hanno consentito a Howey di ribattezzare la trilogia Saga del Silo, è approdato su Apple Tv+ lo scorso anno, ribattezzato semplicemente Silo. Pochi episodi, un ritmo incalzante. Pure, un'ottima qualità, di scrittura e di fattura. Silo, cui il servizio streaming ha dato una seconda stagione, disponibile online da venerdì 15 novembre, si è rivelata bella. Bella al pari di tante altre serie. Bella, però, come lo sono già state tante altre serie, troppe. Lo show, storia di un mondo in rovina, in cui quel che resta dell'umanità è costretto a vivere sottoterra, porta in sé l'eco di altre narrazioni. Di altri cataclismi, di altre difficoltà, di altre lotte. C'è Snowpiercer, e quel treno che non la smette di girare, ossessivo e veloce, intorno ad un pianeta ridotto in cenere. C'è Westworld. C'è ogni distopia sia stata masticata negli ultimi anni e risputata fuori, più e meno bene. E c'è, però, una trama che regge, ben scritta, ben recitata: la storia dello sceriffo Holston Becker (David Oyelowo) e di sua moglie Allison (Rashida Jones).
I due abitano gli spazi angusti di un edificio di 144 piani, sepolto un miglio al di sotto una Terra in rovina. Lo abitano senza troppi pensieri, troppe domande. Felici, quasi, fino al giorno in cui ottengono il permesso di avere un figlio. Il chip di controllo delle nascite, che il governo impone alle sue donne nel tentativo di contenere il sovraffollamento del palazzone, viene rimosso dal corpo di Allison, così che possa provare a concepire. I messi passano e nulla accade. Sospetti si affacciano alla mente dei due, e con loro ipotetiche macchinazioni dei potenti. Macchinazioni che riguardano la natura del Silo, città autonoma, macchinazioni che ritornano nella seconda stagione dello show, interpretata da Rebecca Ferguson, ingegnere nella serie. La Ferguson, Juliette nello show, è deputata ad inadagare, nel secondo capitolo di Silo, sulla morte di una persona cara. E, di nuovo, nel farlo, scoperchia un vaso di Pandora, di misteri, di brutture. Il silo è al centro di tutto, di nuovo. E, di nuovo, si ha l'impressione di aver già visto, sebbene questo già visto non tolga nulla alla piacevolezza della serie.
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Il secondo capitolo della trilogia scritta da Hugh Howey approda oggi sulla piattaforma streaming: dieci episodi, un ritmo incalzante e pure un'ottima qualità, di scrittura e di fattura.Un passo indietro, doveroso, al 2011, all'anno in cui Hugh Howey ha scritto il primo romanzo. Wool è uscito allora, in un mondo televisivamente lontano dal pluralismo di oggi, dalla bulimia cui l'avvento dello streaming ha indotto gli Studios. Wool è uscito agli albori di Game of Thrones, quando ancora Netflix non esisteva. Due altri libri gli hanno fatto seguito, due altri successi. Eppure, l'industria dell'intrattenimento ha impiegato tredici anni a tradurre quella frenesia letteraria in una saga televisiva. E a guardarla, oggi, la saga tratta dai libri di Howey, si ha una sensazione strana, un senso di straniamento. Come ad assistere alla personificazione di un anacronismo: qualcosa fuori dal tempo, bello, bellissimo, ma collocato in una dimensione che non gli è propria.Wool, cui sono seguiti Shift e Dust, romanzi che hanno consentito a Howey di ribattezzare la trilogia Saga del Silo, è approdato su Apple Tv+ lo scorso anno, ribattezzato semplicemente Silo. Pochi episodi, un ritmo incalzante. Pure, un'ottima qualità, di scrittura e di fattura. Silo, cui il servizio streaming ha dato una seconda stagione, disponibile online da venerdì 15 novembre, si è rivelata bella. Bella al pari di tante altre serie. Bella, però, come lo sono già state tante altre serie, troppe. Lo show, storia di un mondo in rovina, in cui quel che resta dell'umanità è costretto a vivere sottoterra, porta in sé l'eco di altre narrazioni. Di altri cataclismi, di altre difficoltà, di altre lotte. C'è Snowpiercer, e quel treno che non la smette di girare, ossessivo e veloce, intorno ad un pianeta ridotto in cenere. C'è Westworld. C'è ogni distopia sia stata masticata negli ultimi anni e risputata fuori, più e meno bene. E c'è, però, una trama che regge, ben scritta, ben recitata: la storia dello sceriffo Holston Becker (David Oyelowo) e di sua moglie Allison (Rashida Jones).I due abitano gli spazi angusti di un edificio di 144 piani, sepolto un miglio al di sotto una Terra in rovina. Lo abitano senza troppi pensieri, troppe domande. Felici, quasi, fino al giorno in cui ottengono il permesso di avere un figlio. Il chip di controllo delle nascite, che il governo impone alle sue donne nel tentativo di contenere il sovraffollamento del palazzone, viene rimosso dal corpo di Allison, così che possa provare a concepire. I messi passano e nulla accade. Sospetti si affacciano alla mente dei due, e con loro ipotetiche macchinazioni dei potenti. Macchinazioni che riguardano la natura del Silo, città autonoma, macchinazioni che ritornano nella seconda stagione dello show, interpretata da Rebecca Ferguson, ingegnere nella serie. La Ferguson, Juliette nello show, è deputata ad inadagare, nel secondo capitolo di Silo, sulla morte di una persona cara. E, di nuovo, nel farlo, scoperchia un vaso di Pandora, di misteri, di brutture. Il silo è al centro di tutto, di nuovo. E, di nuovo, si ha l'impressione di aver già visto, sebbene questo già visto non tolga nulla alla piacevolezza della serie.
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Piuttosto, è il tentativo di capire cosa si celi oltre quelle bellezze, sotto ciò che lo sguardo abbraccia, dentro la terra che oggi andrebbe scavata. Roma dovrebbe avere una linea metropolitana più efficiente. Più fermate, collegamenti migliori. Ma il condizionale è obbligatorio, figlio della necessità di appurare che non ci siano reperti a separare il dire dal fare. Il documentario, accompagnato dalla voce narrante di Domenico Strati e scritto con la consulenza storico-archeologica della dottoressa Claudia Devoto, non pretende di avere risposte, ma cerca di portare a galle le criticità del progetto. Chiedendo e chiedendosi che ne possa essere di Roma, se possa un giorno arrivare ad essere una metropoli contemporanea, il passato relegato al proprio posto, o se, invece, la sua storia sia destinata ad essere troppo ingombrante, impedendole la crescita infrastrutturale che vorrebbe avere.
Roma Sotterranea, disponibile per lo streaming su NowTv, racconta come ingegneri e archeologi abbiano lavorato in sinergia per realizzare un piano atto a portare all'inaugurazione delle nuove fermate della Linea C di Roma, quelle che (da progetto) dovrebbero collegare la periferia sudorientale a quella occidentale della città. E, nel raccontare questo lavoro, racconta parimenti come il gruppo di ingegneri e archeologi abbia cercato di prevedere e accogliere ogni imprevisto, così da accompagnare la città nel suo sviluppo. Questo perché i sondaggi di archeologia preventiva non sempre rivelano quanto poi potrà emergere durante lavori di scavo così imponenti. In Piazza Venezia, inaspettatamente, è tornata alla luce l’imponente struttura degli Auditoria adrianei, un complesso pubblico su due livelli costruito durante l’impero di Adriano (117-138 d.C.). Era destinato alla divulgazione culturale, alla pubblica lettura di opere letterarie e in prosa, all’insegnamento della retorica, e all’attività giudiziaria e la sua scoperta, la cui importanza storica è stata definita straordinaria, ha portato allo spostamento di uno degli accessi alla stazione presente nella piazza.
Diverso è stato il rinvenimento, inatteso, fatto scavando nei dintorni della nuova stazione di Porta Metronia: a nove metri di profondità, è stata scoperta una caserma del II d.C., 1700 metri quadri di superficie con mosaici e affreschi distribuiti in 30 alloggi per una compagnia di soldati che alloggiavano in ambienti di 4 mq e la domus del comandante, dotata di atrio e fontana. Le strutture sono state rimosse per costruire la stazione, dopo la scansione 3D di ogni singolo muro. A seguito della collocazione in magazzino, del restauro e della catalogazione dei reperti, le murature e i pavimenti sono tornati alla loro originaria collocazione, facendo della stazione uno straordinario sito archeologico.
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Secondo un’analisi della Fondazione Eni Enrico Mattei, la decarbonizzazione dell’auto europea stenta: le vendite elettriche sono ferme al 14%, le batterie e le infrastrutture sono arretrate. E mentre Germania e Italia spingono per una maggiore flessibilità, la Commissione europea valuta la revisione normativa.
La decarbonizzazione dell’automobile europea si trova a un bivio. Lo evidenzia un’analisi della Fondazione Eni Enrico Mattei, in un articolo dal titolo Revisione o avvitamento per la decarbonizzazione dell’automobile, che mette in luce le difficoltà del cosiddetto «pacchetto automotive» della Commissione europea e la possibile revisione anticipata del Regolamento Ue 2023/851, che prevede lo stop alle immatricolazioni di auto a combustione interna dal 2035.
Originariamente prevista per il 2026, la revisione del bando è stata anticipata dalle pressioni dell’industria, dal rallentamento del mercato delle auto elettriche e dai mutati equilibri politici in Europa. Germania e Italia, insieme ad altri Stati membri con una forte industria automobilistica, chiedono maggiore flessibilità per conciliare gli obiettivi ambientali con la realtà produttiva.
Il quadro che emerge è complesso. La domanda di veicoli elettrici cresce più lentamente del previsto, la produzione europea di batterie fatica a decollare, le infrastrutture di ricarica restano insufficienti e la concorrenza dei produttori extra-Ue, in particolare cinesi, si fa sempre più pressante. Nel frattempo, il parco auto europeo continua a invecchiare e la riduzione delle emissioni di CO₂ procede a ritmi inferiori alle aspettative.
I dati confermano il divario tra ambizioni e realtà. Nel 2024, meno del 14% delle nuove immatricolazioni nell’Ue a 27 è stata elettrica, mentre il mercato resta dominato dai motori tradizionali. L’utilizzo dell’energia elettrica nel settore dei trasporti stradali, pur in crescita, resta inferiore all’1%, rendendo molto sfidante l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050.
Secondo la Fondazione Eni Enrico Mattei, non è possibile ignorare l’andamento del mercato e le preferenze dei consumatori. Per ridurre le emissioni occorre che le nuove auto elettriche sostituiscano quelle endotermiche già in circolazione, cosa che al momento non sta avvenendo in Italia, seconda solo alla Germania per numero di veicoli.
«Ai 224 milioni di autovetture circolanti nel 2015 nell’Ue, negli ultimi nove anni se ne sono aggiunti oltre 29 milioni con motore a scoppio e poco più di 6 milioni elettriche. Valori che pongono interrogativi sulla strategia della sostituzione del parco circolante e sull’eventuale ruolo di biocarburanti e altre soluzioni», sottolinea Antonio Sileo, Programme Director del Programma Sustainable Mobility della Fondazione. «È necessario un confronto per valutare l’efficacia delle politiche europee e capire se l’Unione punti a una revisione pragmatica della strategia o a un ulteriore avvitamento normativo», conclude Sileo.
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Ecco #DimmiLaVerità del 15 novembre 2025. Con il senatore di Fdi Etel Sigismondi commentiamo l'edizione dei record di Atreju.
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina