2020-11-08
Servono soldi veri, non chiacchiere ed elemosine
Giuseppe Conte e Roberto Gualtieri (Ansa)
Per capire come il decreto Ristori sia una colossale presa per i fondelli è sufficiente fare un'operazione da seconda elementare. Prendete la cifra messa a disposizione dal governo per le imprese costrette a chiudere e dividetela per il numero di aziende che avrebbero diritto a ottenere i rimborsi. Il calcolo è semplice: basta fare 1 miliardo, cioè la somma che da domani secondo il ministro Roberto Gualtieri arriverà sui conti correnti, diviso 211.000. Il risultato non lascia spazio a grandi illusioni: 4.739 euro più qualche decimale. Certo, sempre meglio un po' di soldi che niente. Ma pensate allo sforzo che molti commercianti, ristoratori e piccole attività hanno fatto per risollevarsi dopo essere stati costretti a chiudere la scorsa primavera.Seguendo le istruzioni del governo hanno sanificato gli ambienti, ridotto gli accessi, pagato i tamponi per i dipendenti (nelle strutture private costano dai 150 euro in su) e alla fine sono costretti a chiudere perché a Palazzo Chigi non hanno rispettato le promesse. Mettetevi nei panni di un ristoratore che, dopo aver perso una stagione intera, con i weekend di Pasqua, 25 aprile e primo maggio, provava a rimettersi in piedi. E per farlo aveva comprato lastre di plexiglas per separare i tavoli e dovendo diminuire le presenze in sala si era attrezzato occupando uno spazio esterno, facendosi costruire una pedana per pareggiare il dislivello con il marciapiede, dei vasi a delimitare lo spazio e delle stufe fungo per riscaldare i clienti. La spesa sopportata di sicuro ha superato i 4.739 euro che oggi il governo annuncia come un grande successo per ristorare il povero oste. La realtà è che quei soldi non serviranno a tenere in piedi l'attività, e neppure basteranno per pagare i dipendenti, ma a malapena a tappare i buchi del conto corrente.A differenza di ciò che annuncia con grande enfasi il presidente del Consiglio, molti degli interventi che dovrebbero aiutare le imprese e consentire all'economia di non soccombere sono insufficienti, quando addirittura non sono assurdi. E a complicare la vita non sono solo le misure decretate da Palazzo Chigi, ma anche quelle delle Regioni, che sembrano scritte non da un amministratore che conosca la realtà, ma da un burocrate arrivato ieri direttamente da Marte. Ne volete un esempio? Nei giorni scorsi, mi ha scritto una lettrice che, guarda caso, ha anche un piccolo ristorante in provincia di Roma, gestito insieme con la famiglia. Lascio la parola direttamente a lei, che di nome fa Rossella. «A causa del Covid e dell'ultimo dpcm abbiamo chiuso il nostro ristorante il 24 ottobre, in quanto per noi che lavoriamo solo la sera rimanere aperti sarebbe stato un suicidio». Spenti i fornelli e riposti nel cassetto tovaglie e piatti, Rossella e suo marito hanno sperato nell'aiuto pubblico. «Visto che la Regione Lazio ha istituito un bonus del 30% per i ristoranti che utilizzano prodotti a chilometro zero, a denominazione d'origine protetta e indicazione garantita, abbiamo pensato di partecipare al bando. Dato che noi compriamo prodotti a zero chilometri, Igp e Dop, abbiamo pensato che la misura decisa dalla Regione Lazio ci desse la possibilità di avere almeno un po' di ristoro. Bene. Vuole sapere quali sono le fatture che vengono prese in considerazione per questo bando?», mi chiede Rossella nella sua lettera. «Quelle emesse dai fornitori in data successiva all'uscita del bando, per cui il 20 ottobre. Le ricordo che tanti ristoranti come il nostro hanno chiuso il 25 ottobre. E non perché non avessero voglia di lavorare, ma perché non avevano alternativa». Mi domanda la signora: «Quando avremmo dovuto comprare questi prodotti? Quando il governo ci stava avvisando che avremmo chiuso? Dal 20 al 25 ottobre avremmo dovuto sobbarcarci di merce che probabilmente non saremmo riusciti a cucinare e a offrire ai clienti, ma che nel frattempo avremmo dovuto pagare subito, già perché le fatture vanno saldate, ma i bonus possono arrivare anche con mesi di ritardo».Rossella conclude con poche, ma significative parole: «Mi fermo qui e lascio a lei le conclusioni, sperando che possa portare sul suo giornale o in televisione un po' della mia rabbia». Ecco, mentre il governo e i suoi ministri, dell'Economia o dell'Agricoltura, sproloquiano in tv, la situazione è quella raccontata dalla signora: un ristorante di campagna che dà lavoro a un'intera famiglia e che causa Covid, ma soprattutto inefficienza dello Stato, è costretto a chiudere e probabilmente non riaprirà. Anche altri Paesi sono stati colpiti dall'epidemia, come noi e forse più di noi. Ma lì, in Germania, Svizzera, Francia e Gran Bretagna, gli aiuti sono arrivati subito e hanno consentito alle persone di affrontare l'emergenza. È questa la differenza. Si può chiedere agli italiani di chiudersi in casa, ma non di morire di fame e nemmeno di distruggere ciò che hanno costruito con fatica. I soldi sono diversi dalle chiacchiere. E pure dall'elemosina.