2020-09-07
Lorenzo Fontana: «Se Zaia vince, vince la Lega. Lui non è Salvini? Meglio così»
Lorenzo Fontana, Matteo Salvini e Luca Zaia (Ansa)
Il segretario veneto del Carroccio: «Ben venga un trionfo della lista del governatore, è fatta da nostri militanti. E noi siamo da sempre per l'identità contro l'omologazione».Quarantenne, deputato, in passato già europarlamentare, ministro prima della Famiglia e poi degli Affari europei nel governo gialloblù, vicesegretario federale della Lega e segretario della Liga veneta, Lorenzo Fontana è da giorni oggetto di una speciale attenzione mediatica. È infatti uno degli uomini più vicini a Matteo Salvini, e al tempo stesso gestisce il partito nella regione dove il governatore Luca Zaia sta per incassare un trionfo elettorale. Dicono i giornaloni che la Lega sarebbe addirittura preoccupata per le dimensioni enormi del successo alle regionali che si profila per Zaia. La devo immaginare in preda all'angoscia?(Sorride) «Guardi, secondo i sondaggi, tra la lista della Lega e quella del governatore Zaia dovremmo andare tra il 55 e il 60%. Considerando che la lista Zaia è fatta da noi, da leghisti, da militanti, cioè non è una lista civica nel senso classico del termine, vuol dire che eleggeremo tra il 55 e il 60% dei consiglieri, e come segretario posso solo esprimere enorme soddisfazione».Proviamo a vedere la cosa in termini ostili o amichevoli. Da che prospettiva preferisce partire? «Scelga pure lei».E allora diciamola in termini amichevoli. Se un domani, alle elezioni del Lazio (ipotesi lunare, lo ammetto) un'eventuale lista Zingaretti sopravanzasse quella ufficiale del Pd, e Zingaretti fosse confermato alla guida della Regione con il 60%, si leggerebbero peana sul buongoverno della sinistra, sull'egemonia culturale del Pd, bla bla bla. Se capita a voi in Veneto, la circostanza è descritta come un problema politico. Come funziona questo doppio standard?«Funziona perché esiste l'invidia. A loro questa eventualità non succede, a noi sì, e dunque usano il sistema dei due pesi e delle due misure. Zaia è ovviamente iscritto alla Lega, è nel direttivo veneto, facciamo le cose insieme…».Adesso in termini ostili. Zaia e Salvini non sono la stessa persona. C'è chi cercherà di usare il successo di Zaia come un trionfo suo, non di Salvini né del partito. «Per fortuna non sono uguali: l'omologazione non mi è mai piaciuta. Io amo le identità, e dunque che ci siano delle differenze va benissimo. Come in un supermercato servono più prodotti per non avere un'offerta appiattita, così noi abbiamo figure diverse, capaci di parlare a fasce ampie, proprio perché in parte si rivolgono agli stessi elettori e in parte a elettori contigui».Altra domanda ostile. Come spiega le differenti prove offerte sul coronavirus da Veneto e Friuli da una parte, e Lombardia dall'altra? Solo sfortuna e casualità? «Può darsi che ci siano stati elementi organizzativi che abbiano favorito il Veneto. Dopo di che, questo virus è stato particolare, ha colpito più alcune zone e meno altre. Mi auguro che alla fine di tutta questa vicenda ci sia anche uno studio articolato per zone sulla diffusione, oppure - avanzo anche un'altra ipotesi - che siano valutati i diversi rapporti di ogni area con la Cina. Mi lasci dire che sono molto dispiaciuto in particolare per Bergamo e Brescia, che sono anche storicamente vicine alle città del Veneto».Salvini è un leader per tanti versi indiscutibile. Uno che guida un partito dal 4 al 25-30% ha dalla sua argomenti potentissimi. Eppure sui media viene spesso presentata l'idea di un gruppo dirigente attraversato da tensioni. È così?«Ma no, non ci sono divisioni. Salvini sta dando l'anima: basti vedere anche questa campagna elettorale. Certo, abbiamo un po' pagato lo scotto del lockdown. Sia Matteo caratterialmente sia la Lega come unico vero partito territoriale, con le sezioni e i gazebo, hanno caratteristiche che mal si addicono a una chiusura generalizzata come quella che c'è stata per mesi».La ferita dell'uscita dal governo, un anno fa, è stata medicata? L'avete fatta nel modo e nel tempo giusto? E l'avete spiegata bene? «Forse non è passato bene il messaggio di ciò che è realmente accaduto. È stata la scelta giusta perché era impossibile andare avanti. Pensi che tra fine giugno e inizio luglio, quando ero ministro degli Affari europei, e stavo tra Bruxelles e Strasburgo, realtà che conosco benissimo avendoci lavorato dieci anni, ho percepito subito che c'era un'intesa tra Pd e 5 stelle».In che senso?«Dopo le Europee, fu eletto vicepresidente dell'Europarlamento un grillino, nonostante che loro fossero nel gruppo dei non iscritti (e non era mai successo), e contemporaneamente David Sassoli è stato votato anche da tanti M5s. A quel punto era chiaro che, se fossimo arrivati alla legge di bilancio, ci saremmo trovati con ostacoli insormontabili interni ed esterni».A me pare naturale che in un partito del 25% e oltre ci siano culture e sensibilità diverse. Siete pronti a farle convivere in modo naturale? Un modello c'è, ed è quello dei Repubblicani Usa, che si uniscono a sostegno di un candidato ma poi hanno tanti centri studi, giornali, riviste... Siete pronti per uno schema di questo tipo? «Certamente è un esempio da seguire, nonostante le differenze di sistema politico che ci sono tra Italia e Stati Uniti. Quello che invidio agli Usa è la capacità di creare unità tra persone di una certa area. Pensi alla capacità, in quel mondo, di valorizzare organi di informazione, editori, autori di libri, intellettuali. In Italia questa cosa la fa la sinistra rispetto al proprio mondo di riferimento, e così spesso hanno risalto personalità che poi non hanno tutto questo seguito popolare…». Lei è molto connotato su alcuni temi. Per un verso, la linea «identitaria» contrapposta a quello che lei chiama «globalismo», per altro verso una forte attenzione ai temi etici. Non pensa che al suo partito, e al centrodestra in generale, manchi una componente liberale, un segmento di offerta politica di quel tipo? Dico bene, liberale, non liberal, non mi fraintenda…«Credo che servirebbe: nel contesto identitario una componente liberale importante può trovare spazio. L'attenzione alla libera impresa, a uno Stato che sia amico e leggero, non pachidermico, sono riferimenti importanti. Mi faccia dire che la Lega, dal punto di vista economico, deve dare una prospettiva futura che la ponga a contrastare gli oligopoli privati e statali, e a favorire le piccole e medie imprese. Tenendo conto che anche le capacità di produzione non vanno concentrate in poche mani. Mi piacerebbe venisse approfondito il concetto di “distributismo" di cui Chesterton fu il padre. Secondo me potrebbe essere la via del futuro a dispetto di globalismo e socialismo».Come va il rapporto con Giorgia Meloni? Cominciamo dal Veneto. Alla fine anche Fdi ha firmato per l'autonomia rafforzata, giusto? «Mi ha fatto piacere, anche perché loro hanno alcune priorità diverse dalle nostre. Ma questa visione contro uno Stato troppo burocratico, che alla lunga diventa una palla al piede per l'Italia, è fondamentale per noi».E sul piano nazionale? Non c'è il rischio che i due partiti finiscano per somigliarsi troppo, contendendosi gli stessi elettori?«Diciamo che, se è un problema, è un problema piacevole da affrontare: se hai l'area identitaria che sfiora il 45%, questo è molto positivo. Dopo di che, le differenze di fondo ci sono. Loro mi sembrano richiamare l'esperienza che è stata quella di Alleanza nazionale, noi siamo identitari e non nazionalisti. Vuol dire che crediamo nelle autonomie, nelle differenze. La bellezza dell'Italia, e pure quella dell'Europa, sta proprio nelle differenze: dobbiamo batterci contro chi vorrebbe omologare tutto, riducendo gli esseri umani a dei numeri. La battaglia è tra identità e omologazione».Lei è stato capodelegazione della Lega al Parlamento europeo fino a un paio d'anni fa. Siete pronti a allargare la vostra dimensione europea? È immaginabile un coordinamento tra il vostro gruppo e quello dei conservatori?«È la cosa da fare per il futuro. L'obiettivo in Ue dovrebbe essere avere un gruppo - a destra del Ppe - il più possibile largo, e che abbia un rapporto con la parte del Ppe che non guarda al Pse. Area identitaria e area popolare hanno molto più in comune tra loro di quanto accada tra popolari e socialisti».Pronostico secco sulle sette regioni: 4-3, 5-2, 6-1?«Mi faccia dire che seguo con attenzione particolare la sfida in Toscana. Comunque finisca, sono felice per la splendida campagna di Susanna Ceccardi, per Salvini che ci ha creduto fin dal primo momento, e per i militanti leghisti che in Toscana hanno resistito per anni, all'inizio anche con percentuali piccole…».L'attuale governo rimarrà in piedi?«Ah, ci proveranno, sanno che è la loro ultima occasione. Si rende conto che qui in Veneto, in una regione così importante dal punto di vista produttivo, l'area di governo potrebbe stare sotto il 20%? Qualche riflessione dovrebbero farla…».C'è il rischio che cambino governo, ma restino con la stessa maggioranza, pur di non andare al voto? «Possono provare tutto, dalla legge elettorale a governi posticci. Sanno che se si va a votare per loro è finita. Ma facciano attenzione, perché la gente perde la pazienza. Guardi quello che sta succedendo in vista della riapertura della scuola».Referendum. Non è stato un errore che il centrodestra non abbia fatto campagna per il No? Non state regalando un successo propagandistico ai grillini? Intendiamoci: so bene che voi avete votato quattro volte Sì, quindi capisco che non vogliate smentirvi.«È preoccupante che si proponga un taglio solo come risparmio e non nel quadro di una riforma che renda le istituzioni più efficienti. Se si rappresenta il Parlamento come un ritrovo di banditi che non servono a nessuno, prima o poi qualcuno potrebbe proporre di abolirlo del tutto… Dopo di che, sento qui in Veneto l'onda del No che sale proprio per il fastidio creato dai grillini quando vogliono intestarsi questa battaglia come un loro successo. Hanno talmente dato fastidio che qualcuno voterà No proprio per rigetto nei loro confronti, per non vederli strumentalizzare il risultato».
Il primo ministro del Pakistan Shehbaz Sharif e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (Getty Images)
Riyadh e Islamabad hanno firmato un patto di difesa reciproca, che include anche la deterrenza nucleare pakistana. L’intesa rafforza la cooperazione militare e ridefinisce gli equilibri regionali dopo l’attacco israeliano a Doha.
Emanuele Orsini e Dario Scannapieco