2023-02-09
Schillaci non riapre ancora gli ospedali
Il ministro non ha fretta di togliere le restrizioni anti contagi: «Lo faremo, ma non ci stiamo ancora lavorando». Eppure ormai molti reparti hanno abolito da soli le regole più assurde. Poi critica i medici a gettone, però non stanzia fondi per contrastare il fenomeno.«Non ora». E quando? A quante dosi di vaccino pro capite? A quanti contagi settimanali? A quanti morti conteggiati, con il Covid o per il Covid? Spiega il ministro della Salute, Orazio Schillaci, che «se c’è da togliere qualche paletto» negli ospedali «lo toglieremo, ma non ci stiamo lavorando» adesso. E che fretta c’è? Perché mai consentire ai parenti dei malati di visitare i loro cari, senza inutili trafile burocratiche e vessanti limitazioni? Perché correre il rischio di essere attaccati dagli orfani di Roberto Speranza, pronti a puntare il dito sulla destra irresponsabile, che mette in pericolo i pazienti ricoverati? Ieri mattina, Il Messaggero è andato in edicola con un annuncio importante: il titolare del dicastero «lavora a una revisione delle misure più restrittive. Revisione che avverrà in modo graduale», come precisato dall’entourage dell’ex rettore, «e che terrà conto delle situazioni più critiche»: fragili, immunodepressi, anziani. Tuttavia, «una modifica delle regole di sicuro ci sarà». Si vede che, al prudente Schillaci, persino la riformina soft sarà sembrata un eccesso di trasgressione. E pensare che lo stesso quotidiano romano segnalava che in alcune Asl e in certi reparti, dall’Emilia Romagna alla Lombardia alla Toscana, si è già tornati alla normalità. A Roma bisogna semplicemente prenderne atto e fare tabula rasa delle gabole ancora adottate in diversi nosocomi, nei quali si vive come se, dal 2020, nulla fosse cambiato. Va bene aver prorogato l’obbligo di mascherine fino al prossimo 30 aprile - quando, scommettiamo, l’imposizione sarà rinnovata, fino a diventare la «nuova normalità». Qui si tratta soltanto di impedire che continuino a moltiplicarsi i casi tipo quello di Bruna Bartolini, la signora, citata dal Messaggero, cui tocca mettersi sotto le finestre dell’Aurelia hospital di Civitavecchia per vedere il padre ottantunenne, allettato in ortopedia. Si tratta di evitare incidenti simili a quello raccontato dalla Verità, avvenuto a Ferrara, dove sono serviti i carabinieri per consentire a una donna, che rifiutava il tampone, di far visita a una parente nell’hospice della Fondazione Ado. Si tratta di finirla con gli ingressi contingentati e a tempo determinato, a date programmate, manco le corsie si fossero trasformate in celle del 41 bis. Sì, il ministro è d’accordo. Però «non ora». E quando? Considerato che Schillaci, per altro verso, rivendica di aver eliminato i divieti? Le statistiche, ha esultato, «ci hanno dato ragione: l’incidenza» delle infezioni «è crollata e sono scesi anche i ricoveri in regime ordinario». Cosa aspettiamo, allora? Il permesso di Articolo Uno? Durante la conferenza stampa a margine del Cipess, che ha dato il via libera alla ripartizione dei fondi per il Sistema sanitario nazionale tra le Regioni e le Province autonome, Schillaci ha toccato anche un altro problema che La Verità denuncia da mesi: quello dei medici a gettone. «C’è la volontà di combattere il fenomeno», ha assicurato il professore, perché esso «porta sconquasso nel sistema e gli operatori si sentono trascurati». Quanto alle misure da adottare, però, c’è più fumo che arrosto. Lo slogan è: «Dare nuove prospettive a chi lavora nel Ssn». Lo sapevamo. Anzi, più che «dare prospettive», si debbono stanziare risorse. Dove trovarle resta un mistero, che è urgente dissipare. Sia per l’impellenza della questione, sia per dribblare il pressing delle opposizioni, le quali approfittano dei sottofinanziamenti alla sanità per invocare il cappio dei prestiti Mes. Dopodiché, va riconosciuto che non è l’ex numero uno di Tor Vergata a doversi assumere le colpe dei guai del sistema. Facile il giochino dei grandi giornali, dalla Stampa a Repubblica, che improvvisamente hanno scoperto la carenza strutturale di fondi per la sanità. Telefonatissimo lo slancio di Stefano Bonaccini, che se eletto segretario pd chiederà a grillini e terzo polo di «fare insieme una manifestazione contro i tagli alla sanità pubblica». Peccato che chi pontifica oggi abbia taciuto per decenni dinanzi al depauperamento del welfare, praticato da tutti gli esecutivi, con il contributo imprescindibile del centrosinistra, su mandato più o meno esplicito di Bruxelles. Gli effetti di quelle sforbiciate non li scopriamo mica adesso. L’ultimo report ministeriale sui Livelli essenziali di assistenza, calcolati in base ai nuovi parametri, lo dimostra. Nel 2020, complice il carico da novanta della pandemia, la metà delle Regioni italiane non è riuscita a garantire le cure fondamentali. Ma in questo quadro desolante, spiccano alcune rilevanti eccezioni.Per onestà intellettuale, infatti, andrebbe segnalato che tra gli undici territori promossi in quell’anno orribile spicca la Lombardia, dove si registra un punteggio superiore al minimo di 60 in ogni sezione esaminata nel monitoraggio: area prevenzione, area distrettuale, area ospedaliera. Dov’è il disastro causato dalle scellerate politiche delle giunte leghiste? Una sanità finita sotto processo mediatico per le indubbie difficoltà di inizio pandemia, quando mancava un oculato coordinamento dal governo Pd-5 stelle, in realtà aveva tenuto botta. Almeno nel complesso. E sempre meglio dei feudi gestiti da qualche «sceriffo» col lanciafiamme.