2019-10-05
Scafarto prosciolto, ma la Procura non molla
Secondo il gup Clementina Forleo, il carabiniere non ha alterato in alcun modo le carte dell'inchiesta su Consip né ha tentato di incastrare il padre di Renzi. Non è la prima volta che il maggiore viene riabilitato in aula, però le toghe annunciano comunque ricorso. Non erano ancora state consegnate le motivazioni contenute nell'ordinanza del gup Clementina Forleo, che i magistrati presenti in aula già annunciavano ricorso in Corte d'appello contro il proscioglimento del maggiore Gianpaolo Scafarto, l'ex ufficiale del Noe che ha coordinato l'inchiesta su Consip e sul Giglio magico. Con l'accusa di aver taroccato un'informativa per incastrare babbo Tiziano Renzi l'hanno indagato, poi sospeso dal servizio (decisione annullata per un vizio di forma), poi sospeso di nuovo. Dopodiché hanno impugnato la decisione del Riesame che lo riammetteva a lavoro, chiedendo in Cassazione una nuova sospensione (richiesta rigettata). Alla fine delle indagini preliminari hanno chiesto il rinvio a giudizio del militare e ora, con un giudice che, al di fuori della fase cautelare, dopo aver valutato tutti gli atti, esclude la possibilità che il maggiore abbia potuto commettere dei reati, i pm sembrano ancora una volta non mandarla giù. Un'ossessione. Che ha portato la Procura a mettere nero su bianco, via via che il procedimento andava avanti nelle varie fasi, parole pesantissime indirizzate all'ufficiale. Quando i giudici del Riesame hanno deciso di riammettere in servizio Scafarto, per esempio, in Procura hanno scritto che «trasformava orrori di sicuro rilievo penale in errori qualificati con evidente ridondanza linguistica come involontari». E hanno bollato la decisione scritta da ben tre giudici come un provvedimento «che si contrapponeva alle regole del diritto sostanziale e processuale, della logica e del buonsenso». Sono arrivati perfino a sostenere che le ipotesi di falso presenti nelle informative miravano a «espropriare l'autorità giudiziaria inquirente del potere-dovere di direzione delle indagini e di valutazione, completa e non inquinata, degli elementi di fatto posti a fondamento dell'accusa». Un punto strettamente legato all'attività d'indagine su babbo Renzi, che a piazzale Clodio censurano come «violazioni e travisamenti dei fatti». La finalità? Secondo la Procura all'epoca coordinata da Giuseppe Pignatone era arrivare a «incastrare Tiziano Renzi». I difensori di Scafarto, gli avvocati Giovanni Annunziata e Attilio Soriano, hanno più volte replicato che i pm indagavano a senso unico, senza mai prendere in considerazione «la buona fede di Scafarto», dimostrata in primo luogo dallo scambio di corrispondenza Whatsapp tra lui e i suoi collaboratori. «L'indagato», hanno spiegato i difensori, «invitò ben 11 militari dell'Arma a rileggere, qualche giorno prima del deposito, il contenuto dell'informativa, e all'unica segnalazione ricevuta provvide immediatamente a correggere il testo». Una condotta incompatibile, secondo i difensori, con la volontà di alterare i risultati delle indagini. L'avvocato Annunziata, in particolare, ha sottolineato perfino in Cassazione che «il procuratore ponesse in inammissibilmente questioni di fatto, prospettando una lettura delle risultanze delle indagini non già univoca e doverosa, ma semplicemente diversa da quella offerta in chiave difensiva». E l'ipotizzato arresto di babbo Renzi? «Una prospettiva», secondo l'avvocato, «irragionevolmente enfatizzata, non fosse altro perché una decisione in quel senso non sarebbe stata certamente di competenza dell'Arma». Così come ci si è impuntati sullo scambio di persona tra Marco Canale di Manutencoop (effettivamente intercettato) e Marco Carrai, amico di Matteo Renzi (finito involontariamente nell'informativa). Ma fu proprio Scafarto, come è emerso dalle indagini difensive, a rilevare lo scambio di persona commesso dai suoi sottoposti. In Procura, però, quell'errore diventa una croce sulla condotta del maggiore, secondo la quale, sostiene Annunziata, Scafarto avrebbe «una convinzione preconcetta e delinquenziale». Che, però, cozza con il reale modo d'agire dell'ufficiale che ha dato ai suoi uomini ordine di verificare più volte i passaggi delle intercettazioni che risultavano dubbi, non ha cancellato tutte le tracce dei messaggi Whatsapp che si era scambiato con i commilitoni nonostante avesse ricevuto già (particolare, se davvero Scafarto avesse agito per depistare, degno di una barzelletta sui carabinieri) l'avviso di garanzia. Insomma, Scafarto, pur avendone la possibilità e il tempo, non ha fatto sparire le prove. Avrebbe potuto formattare il telefono o buttarlo.«So di non aver commesso nessun reato e non ho nulla da temere, ho il massimo rispetto per il sistema giudiziario ed ero tranquillo perché sapevo che avrebbe dimostrato la trasparenza del mio operato», ha dichiarato ieri l'ufficiale intervistato dal Mattino. Al contrario, infatti, «il quadro accusatorio di riferimento», stando alla tesi difensiva accolta dal gup Forleo, «rappresenta una insufficiente, ancor più se non provabile, soluzione interpretativa dei fatti consistente in una mera deduzione, destinata a soccombere rispetto alle rigide garanzie del contraddittorio». E alla fine così è stato. Almeno davanti al gup. E sempre che la Procura non decida davvero di impugnare, come annunciato in udienza, l'ennesimo atto a favore di Scafarto.