2022-11-11
Sanitari riammessi confinati nei ripostigli
I racconti di infermieri, operatori e tecnici obbligati a star lontano dai pazienti, sebbene siano ritornati in servizio. In tanti finiscono segregati negli sgabuzzini, senza far nulla, isolati senza motivo. Mentre i colleghi vaccinati si infettano e i reparti sono sotto organico.I 25 anni di esperienza come infermiera sono diventati carta straccia per Teresa Vitale, che la direzione sanitaria dell’ospedale Monaldi di Napoli, specializzato nella cura delle malattie pneumo cardiovascolari, non vuole più reintegrare in corsia. «Mi hanno tenuto due giorni in uno sgabuzzino e nemmeno durante il turno di notte ho potuto fare il mio lavoro», racconta indignata. «Guardavo i colleghi in affanno, sotto organico nei due reparti accorpati di medicina e cardiologia, ma io dovevo stare su una sedia, lontano dai pazienti». Appena rientrata in servizio, il 3 novembre si era sottoposta alla visita preventiva «che ha stabilito la mia idoneità alla mansione», racconta l’infermiera. All’ufficio personale le dicono che deve tornare nel suo reparto, ma quando si affaccia in corsia l’accoglie il gelo. «Sembrava che fosse apparsa l’appestata. Senza nemmeno salutarmi, primario e supervisore hanno chiesto: “Ma tu sei vaccinata?”. Al mio no, in coro hanno esclamato che lì “non ci dovevo stare”». L’infermiera chiede allora di parlare con la direzione sanitaria del Monaldi, le mandano a dire «che dovevo stare in un angolino ad aspettare che arrivassero comunicazioni ufficiali», circa le decisioni del governatore, Vincenzo De Luca. Alla fine, dopo la direttiva della Regione Campania che invitava i dirigenti sanitari ad affidare ai medici e agli infermieri reintegrati mansioni diverse da quelle che avevano prima della sospensione, con due lettere hanno comunicato alla Vitale che «può svolgere attività amministrativa», ma non entrare in contatto con i pazienti. Di fatto, costringendola in una stanzetta. «Ho trascorso tre turni così, seduta, con addosso mascherina Ffp2, visiera e guanti, perché ovviamente non c’era nulla di amministrativo che potessi sbrigare. Mentre sarei stata utile nel mio lavoro di sempre, a contatto con i pazienti. Una situazione umiliante e priva di giustificazione». Da varie parti d’Italia arrivano testimonianze di soprusi che ancora si compiono ai danni dei sanitari non vaccinati, sicuramente per esercitare una pressione anche dopo il reintegro. Quasi fosse un passaparola, viene applicato il metodo Cartabellotta. Il presidente della Fondazione Gimbe aveva tuonato contro il reintegro che «assieme alle “sanatorie” per i no vax rappresentano un’amnistia anti scientifica e diseducativa». Suggeriva un’opposizione alla decisione del governo, che molte direzioni sanitarie stanno mettendo in atto. «A livello locale, possono essere stabilite disposizioni per affidare ai professionisti no vax reintegrati attività diverse da quelle clinico assistenziali, senza configurare demansionamento», era stata la proposta del gastroenterologo che sembra piacere molto a chi aveva sospeso senza fiatare, pur sapendo che gli ospedali erano e sono senza personale. Così, l’ingiustizia continua. «Secondo me, il governo ha fatto una legge sbagliata. Avrebbe dovuto dire che i non vaccinati rientrano “senza alcuna restrizione”, invece non si è fatto così», commenta Francesco, 60 anni, tecnico radiologo in Umbria. Ha chiesto di comparire con uno pseudonimo, come gli altri che a seguire raccontano la discriminazione sul posto di lavoro. Spiega che l’azienda ha stabilito che «non debba avere nessun contatto con i pazienti fragili; per questo, sono stato indirizzato alla fisica sanitaria, a fare cioè i controlli alle apparecchiature radiologiche, quindi non posso più fare, diversamente da prima, radiografie, tomografie e andare nelle sale operatorie».A Udine, Michela, infermiera di 47 anni, vive l’amarezza di rapporti con colleghi completamente cancellati solo per non aver scelto di vaccinarsi contro il Covid, di cui già si è ammalata due volte quindi ha l’immunità naturale. Sospesa lo scorso 22 marzo, tornata al lavoro il 2 novembre, «il primo giorno, al rientro, mi veniva da piangere. Era come fossi trasparente», spiega con la voce rotta. «Mi hanno tolto il saluto. Non mi rivolgevano la parola. Siamo rientrate in due, io e una Oss, mentre altre due colleghe del nostro reparto si sono licenziate, una delle quali proprio a causa del clima irrespirabile». Assicura di voler «andare avanti, sperando che possa cambiare qualcosa, ma mai sarei aspettata una cosa del genere. All’ingresso del nostro reparto c’è elenco del personale, con medici, infermieri, Oss. Al mio rientro sono rimasta sconvolta da una cosa: i nostri nomi erano stati cancellati, ci hanno messo sopra una etichetta bianca. Eppure facevamo ancora parte della struttura, rimanevo una dipendente».Cinzia, 51 anni, operatore socio sanitario in una Rsa in provincia di Gorizia, è stata avvisata che verrà spostata in un reparto di medicina «perché è un discorso di pazienti fragili, c’è stato questo ordine». Ha obiettato che «si trattava di un provvedimento senza senso, dal momento che il 90% dei pazienti della medicina poi vanno in Rsa» e che sarebbe ricorsa alle vie legali. Solo a quel punto il medico, una dottoressa, non ha aggiunto altro e pare che Cinzia non verrà cambiata di posto.Come Teresa, resta invece confinato in uno sgabuzzino Francesco, 54 anni, fisioterapista a Milano. Reintegrato lo scorso 1 luglio, avendo avuto il Covid, venne demansionato e messo a lavorare da solo. «Però sono un soggetto fragile, in quanto disabile», sottolinea. «Questo vuol dire che il datore lavoro non ha facilità a darmi altre mansioni». Infatti, non l’ha mai contattato. «Sono stato confinato in un box/sgabuzzino di 8, 10 metri quadrati, senza fare nulla. Timbravo solo il cartellino all’inizio e alla fine. A casa mia questo si chiama mobbing», protesta il fisioterapista. Poi venne sospeso senza stipendio perché non aveva ottemperato agli obblighi vaccinali, dal 6 novembre è tornato al lavoro ma senza poter far nulla. «Non ho visto pazienti, non ne sto trattando. Mi dicono “che stanno sviluppando le agende”, ma di fatto sono sempre in attesa». Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, «per cui l’assegnazione a mansioni diverse e inferiori» deve essere giustificata «da ben precise, inderogabili e dimostrate necessità», puntualizza l’avvocato Mauro Franchi di Praesidium Parma osservatorio giuridico, «così come da stringenti rischi sanitari che, però, alla luce delle evidenze scientifiche da ultimo consolidate, paiono del tutto non sussistere». Il legale, assieme ad altri colleghi, ha scritto al ministro della Salute, Orazio Schillaci, e al premier Giorgia Meloni, ricordando che la destinazione a diverse mansioni «non può essere di certo un atto d’impulso ideologico, come oggi parrebbe volersi imporre da talune parti». Inoltre, lo statuto dei diritti dei lavoratori vieta ogni discriminazione «così come sussistono ben precise disposizioni comunitarie tese a vietare situazioni deplorevoli di discriminazioni», come quelle per “convinzioni personali”».Ha collaborato Giuliano Guzzo