2021-07-04
Il paesaggio interiore di Sándor Márai per il quale l’esistenza era solo in città

Lo scrittore ungherese si concepiva all’interno di un’area geografica delimitata, un centro abitato. Il verde era superfluoDa mesi verghiamo le pagine domenicali di questo quotidiano amplificando la natura e tutta la bellezza che, a nostro parere, essa comporta, importa, deporta, cosparge, irradia, invena, instilla, decora, suggella, inlinfa e così via; i grandi e i piccoli alberi, i boschi urbani e i boschi silvani, le montagne e le riserve, le farfalle e i lupi, le volpi e gli animali domestici, i gerani, le orchidee, le ortensie, i tramonti, le meditazioni, le idee, le ecosofie e le dendrosofie, gli arcobaleni e le aurore, insomma un gran caleidoscopio di sorprese. Non abbiamo preso in considerazione gli autori, ne esistono, i pensatori, gli artisti, o la gente comune, o anche no, amici, conoscenti, nemici giurati, antipatici vari e variegati, che al contrario odiano la natura: per loro la natura è orribile, sporca, aggressiva, pericolosa, porta malattie, disgrazie, va combattuta sempre e comunque, tenuta ben distante dalle nostre case, dai nostri villaggi, delle nostre città. Bella la natura, dicono, ma a me proprio non interessa. Belli i fiori, belli i cani, belli i paesaggi, ma a me interessa ben altro. Datemi una bella donna, datemi un museo, una bottiglia di grignolino, un teatro, un Godot qualsiasi, anche mal interpretato, basta che non ci siano alberelli e fiorellini di mezzo!Uno scrittore che ho molto amato in passato, l’ungherese Sándor Márai (1900-1989), ad esempio sosteneva che mai avrebbe potuto vivere fuori da un città. Per lui vivere, e anche camminare, dovevano svolgersi entro i confini geografici e toponomastici di un centro abitato, meglio se una città, e infatti, a seguito della fuga dai comunisti che nel 1948 presero possesso di Budapest, egli ha vissuto a Napoli e a Salerno (vi rimase per diversi anni, del tutto o quasi ignorato dall’intellighenzia cittadina quanto da quella del resto del nostro fecondo e folcloristico Paese), quindi, in due distinti periodi, a San Diego, negli Starti Uniti. Quel suo lungo volto da intellettuale d’epoca asburgica, sempre in giacca e cravattino, ci ha lasciato capolavori come Braci, La recita di Bolzano, L’eredità di Eszter, Divorzio a Buda, L’isola, La donna giusta e molti altri romanzi, anche delle poesie sebbene lui si considerasse non un poeta, ma uno scrittore di poesie, distinzione sottile che oggi sfugge alla comprensione di qualsiasi versificatore.Qualche anno fa ero a Budapest per immergermi nelle terme, la città è un centro rinomato, dalle elegantissime architetture di quelle presenti nell’Hotel Géllert alle piscine dei sontuosi bagni di Széchenyi, dove cerco di tornare ogni volta vi metta piede, e passai in alcune librerie, in cerca di qualche libro di Márai. E trovai, mi pare alla libreria internazionale, The withering world, ovvero «il mondo che appassisce», che deperisce; è la raccolta delle sue poesie tradotte in inglese. Un libretto di 246 pagine, deliziosamente curato e copertinato. Introduzione di Tibor Fischer, traduzione a cura di John R. Ridland e Peter V. Czipott. L’editore è il londinese Alma Classics. Si tratta di poesie d’occasione, breve canti dedicati a momenti e personaggi che popolano la quotidianità di chi guarda e assapora gli istanti dell’esistenza. I componimenti sono datati fra il 1914 e la fine degli anni Settanta. Vi sono poemetti di decine di versi, i versi lunghissimi, a occupare l’intera riga o più righe, e opere seriali come il Libro di versi (1945), 71 poesie lunghe otto versi, più un epilogo di 35. Ma anche curiose invenzioni come Lo sconosciuto poeta del Ventesimo secolo D.C. (1945), una ricerca di senso in un mondo elementare e misteriosamente preistorico. Una delle poesie che ho trovato più interessanti s’intitola Mikó utca, ovvero Via Mikó, e appartiene alla raccolta Come un pesce o un negro (1932), un termine quest’ultimo, «negro», che ovviamente noi cerchiamo di non usare. Provo a tradurla.Ho amato quella fila di castagni.Pensavo: là, un giorno, costruiròqualcosa che potrei chiuderei con un chiaveenorme girata in una gigante serratura,e giocare alla vita. Ma ho risodi tutta la cosa: esaminato, dovevo deridereamaramente e pretenziosamente… che cos’è?Su questa terra puoi edificare soltantosu sabbia, non importa dove; questo è quelloche voglio, soltanto vivere con la barba lunga,svegliarmi in stanze buie e restarmene lì,a lungo, tranquillo, scandendo paroleda solo, fare le cose lentamente e concuriosità, in qualche modo ancheinutilmente. Da allora avrei vissuto qui, confortato, conoscendo l’indomani,pure, un treno in partenza per nessun luogo,e nulla che mi trattiene: un letto o una tavola, poiché non esistono castelli magici sulla Terra - e anche se l’elenco del telefonocontiene il mio nome, la gente pensa che sia vero…Una stanza filosofica, un mondo perfetto fatto di assenza, di mancanza di responsabilità, se non verso sé stessi, ma nella misura forse ingenua di coloro che credono che il vuoto sia l’unica via all’assenza di dolore. La tranquillità, la barba lunga degli eremiti di montagna, o del deserto, un domani noto poiché gemello di ieri, o di oggi. Ma tutto non si capisce, d’altronde le poesie non vengono scritte per essere istantanee fotografiche, c’è sempre un bosco inaccessibile, un albero invisibile, o una porta irraggiungibile. I volti talora non servono per capirsi, gli occhi per vedersi o le bocche per comprendersi. Le mani afferrano ma possono anche trasformarsi in ala, in coda, o in un coltello affilato. La consistenza e la forza inaudita della natura nelle poesie quanto nei romanzi di Sándor Márai si riduce a palcoscenico occasionale, gli uomini e le donne si impegnano ad esistere, ad affermarsi, a costruirsi quella casa robusta fra i castagni, come suggeriva nel primo verso della poesia appena tradotta; ma alla fine lì sotto c’è la sabbia, il vento potrebbe sempre gonfiarsi e tirarla via, staccare le assi del tetto, schiodare via le finestre, sbriciolare tutta la nostra tappezzeria sentimentale. I matrimoni si disperdono, l’onore e la gloria della guerra e i titoli militari svaniscono, gli altri ci deridono, non ci prendono sul serio, ci rimpiccioliscono e dunque, alla fine, anche i nostri nomi sulle rubriche del telefono, oggi digitali, quindi ancora più effimere delle vecchie agende che un tempo collezionavano polveri accanto ai telefoni in onice o a disco degli anni Sessanta e Settanta, prima o poi non si leggeranno più: tutti i treni arrivano a destinazione.
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