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2022-02-23
Riesce l’assalto di Renzi contro i pm. L’Aula si schiera col fu Rottamatore
Matteo Renzi (Ansa)
Nell’ottavo anniversario della sua nomina a presidente del Consiglio, ieri, Matteo Renzi si è goduto una giornata di grandi soddisfazioni, vissuta con il piglio del padre costituente.
Il Senato doveva decidere se sollevare davanti alla Corte costituzionale il conflitto di attribuzioni per l’utilizzo di comunicazioni Whatsapp di Renzi da parte della Procura di Firenze senza la previa autorizzazione di Palazzo Madama. E l’Aula ha dato un netto responso favorevole all’ex premier con 167 sì e 76 no. Al fianco del fu Rottamatore il centrodestra e anche il Pd di Enrico Letta che ha visto spaccato l’asse con il Movimento 5 stelle e Leu. Un altro regalo per Renzi. Che, per quanto riguarda l’inchiesta Open, in attesa dell’udienza preliminare, ha già incassato cinque sentenze favorevoli della Cassazione sull’illegittimità dei sequestri. Un filotto a cui manca solo l’iscrizione per abuso d’ufficio a Genova dei magistrati che lo accusano di finanziamento illecito.
Ma anche questo risultato sembra alla portata, dopo la presentazione da parte dello stesso leader di Italia viva di una denuncia contro i suoi accusatori, Giuseppe Creazzo, Luca Turco e Antonino Nastasi. Ieri, in modo sibillino, il procuratore facente funzioni del capoluogo ligure, Francesco Pinto, ci ha detto: «Se abbiamo fatto le iscrizioni? Formalmente non ancora. Siamo ancora in fase di identificazione».
L’altro ieri Renzi aveva annunciato: «Sto preparando un intervento dei miei, di quelli che restano. Farò tremare il Senato!».
Non ne ha avuto bisogno. Ha fatto un discorso meno infervorato e sguaiato del solito, quasi da uomo delle istituzioni. Non era più quello del 2019, quello che intervenne in Aula dopo le perquisizioni a carico dei suoi finanziatori e dei suoi collaboratori. Ieri è stato quasi serafico. E anche gli applausi sono stati contenuti.
Ha recitato la sua parte sapendo di avere quasi in tasca la vittoria contro i pm che ritengono che i milioni di euro inviati a Open siano un finanziamento non dichiarato diretto proprio e solo a lui, al politico Matteo Renzi e non alla sua fondazione.
Certo ai pm il senatore non ha risparmiato attacchi, ma questa volta non è sceso sul piano personale, forse per non sentirsi dare dell’eversore. Per lui il voto sul conflitto di attribuzioni non aveva niente a che vedere con la sua posizione di imputato, con la Leopolda o la fondazione. Concetto che ha ribadito più volte. «Oggi non parliamo di me, parliamo di noi, di voi. […] parliamo di Costituzione» ha spiegato ai colleghi, ergendosi a difensore delle guarentigie dei parlamentari.
Ha giocato come il gatto con il topo: «Si vergogni chi pensa che qui stiamo attaccando la magistratura. Noi stiamo rispettando la magistratura al punto da citare la Corte di cassazione». Ha ricordato che per gli ermellini durante l’indagine ci sarebbe stato «un inutile sacrificio di diritti» e «una non consentita funzione esplorativa», la cosiddetta «pesca a strascico». Ha rivendicato che tutti i denari destinati alla fondazione sono arrivati tramite bonifici, in modo trasparente. Ha riaffermato un suo vecchio cavallo di battaglia: «L’indagine qui non è sui soldi, l’indagine qui è su che cosa è un partito e su cosa non lo è». Per lui la situazione è peggiore che durante Tangentopoli: allora interrogavano i tesorieri, adesso i pm «si determinano come i nuovi segretari organizzativi perché forse i partiti non sono più messi bene come prima».
Ha evidenziato, con una punta di malizia, che l’accusa punta sulla testimonianza di alcuni suoi ex colleghi del Pd, mentre la difesa sfodera le sentenze della Cassazione. Ha ribadito che la legge deve essere uguale per tutti e che quindi la sua denuncia a Genova non è un atto «eversivo», bensì un richiamo al rispetto delle norme da parte dei «custodi della legge» che, come i politici, non hanno diritto all’«impunità».
Mentre spiegava che il punto della questione non è il fatto che la sua sfera personale sia stata data «in pasto» ai giornali e non solo, dalle lettere personali (come quella di babbo Tiziano) al conto corrente, ha, però, gridato che «non è consentito a nessuno di violentare la vita delle altre persone». Ha definito il mondo dei media «corresponsabile» della Guerra dei trent’anni tra politica e magistratura, soprattutto quando per la presunta «gazzetta della Procura», «la velina» dei pm «vale più della sentenza della Cassazione».
L’attacco ai magistrati fiorentini è andato avanti: «Si ritengono depositari di una imprecisata verità fattuale, sostituti del potere politico nell’organizzazione delle forme della politica, ispiratori di articoli, commenti e veline, ma addirittura si ritengono padri e madri costituenti pronti a disattendere il dettato costituzionale». Poi ha giurato di non voler scappare dal processo, perché in aula andrà «a testa alta», udienza dopo udienza, a dire che «siamo di fronte a uno scandalo». La sua richiesta di sollevare il conflitto di attribuzioni avrebbe un unico obiettivo, quello di ribadire che son reato «rubare», «l’abuso d’ufficio», «non rispettare la Costituzione», «violare il segreto istruttorio», «diffamare», mentre non lo è «fare politica». In sostanza i mariuoli sono i pm di Firenze e alcuni giornalisti, non i politici, non lui. Che continua «a difendere l’idea che la politica non faccia schifo» e che intende combattere i populisti politici, ma soprattutto «coloro i quali che violano le regole della Costituzione perché pensano di fare paura a chi invece paura non ha». Per capire a chi si riferisca, citofonare Procura di Firenze.
Ma la famiglia perde in tribunale
Quando la magistratura serve a mettere la mordacchia ai giornalisti i Renzi le si rivolgono fiduciosi. Qualche volta vincono. Ma ultimamente capita che perdano. Come è successo in due cause collegate a ben otto articoli di nostri giornalisti. A dicembre La Verità, assistita dall’avvocato Claudio Mangiafico, ha vinto un’importante causa in primo grado contro Andrea Conticini e la moglie Matilde Renzi (sorella di Matteo), per due articoli a firma Giacomo Amadori e Paolo Sebastiani in cui avevamo raccontato di come i regali ricevuti dal fu Rottamatore nella sua veste di presidente del Consiglio fossero stati trasferiti nel capannone di famiglia a Rignano sull’Arno e, forse, alcuni pezzi, nell’appartamento soprastante, quello dei due coniugi.
A dicembre il giudice Liliana Anselmo ha condannato i due coniugi al pagamento delle spese di lite: 3.000 euro, oltre a Iva, cassa di previdenza avvocati e al 15 % per spese generali e rimborso spese vive se dovute.
Si legge nella sentenza: «L’espressione utilizzata dai giornalisti circa la presenza di tali oggetti (preziosi o anche no) presso l’abitazione degli attori è “dubitativa” (sarebbero)» e «risulta essere proporzionata e misurata, non violenta né degradante, restando confinata nell’ambito del concetto di continenza». Inoltre la toga evidenzia come sui fatti descritti sia «stata aperta un’indagine conoscitiva interna di Palazzo Chigi».
Nella sentenza è ricostruito anche il passaggio di mano di alcuni regali: «Gli attori (i coniugi, ndr) non hanno negato che determinati oggetti, ricevuti dall’allora premier Matteo Renzi come omaggi di Stato, siano stati custoditi in un luogo diverso dal caveau romano» e cioè a casa di un pensionato fiorentino, «sol perché la sua collaboratrice domestica li aveva a sua volta ottenuti da suo marito, signor Ravasio», un dipendente dei Renzi, «che, a sua volta, li aveva ottenuti da un componente della famiglia» del fu Rottamatore.
Conticini e Matilde Renzi nel giudizio «non contestano, anzi sostengono […] che in effetti il signor Ravasio», sottoposto per questo a una contestazione di illecito disciplinare, «aveva “gestito” come propri degli oggetti che si trovavano in Rignano Sull’Arno, quando», sottolinea il giudice, «avrebbero dovuto trovarsi a Roma, nel caveau dedicato alla loro custodia». Quindi la Anselmo conclude: «Definitivamente si ritiene che i due articoli non realizzino condotte diffamatorie dell’onore e della reputazione degli attori».
La causa è stata chiusa dopo la rinuncia all’appello degli attori a fronte della rinuncia del quotidiano a chiedere le spese legali liquidate in sentenza.
Definitiva anche l’assoluzione per cinque articoli firmati da chi scrive e per uno di Franco Bechis, tutti scoop su vicende riguardanti i collegamenti tra Tiziano Renzi e alcuni dei soggetti coinvolti nelle vicende di Banca Etruria. Erano apparsi su Libero e l’avvocato che ci ha difeso con successo è stato Luca Lo Giudice.
A chiamarci in causa è stato proprio il babbo e il giudice Massimo Donnarumma ha respinto le doglianze del genitore.
«Il diritto di critica, a differenza del diritto di cronaca, consente l’utilizzo di un linguaggio sicuramente più pungente ed incisivo» puntualizza la toga, basta che «i fatti ed i comportamenti posti a fondamento dell’interpretazione necessariamente soggettiva siano veritieri o verosimili». Cosa che sarebbe accaduta.
Gli avvocati del babbo si sono lamentati anche di questa frase: «È proprio vero che nel magico mondo di Renzi la commistione tra amicizia, politica e affari è quasi un marchio di fabbrica». Ma questo commento per il giudice «non assume una connotazione di illiceità, non rinvenendosi un superamento dei limiti della critica politica» e il giornalista, legittimamente «non condivide e critica “la commistione” cui fa riferimento». Così la proposizione non è altro che «il compendio di quanto è stato precedentemente narrato e delle relazioni societarie descritte».
Il giudice specifica anche che «ciò che distingue la critica dall’insulto è la mancanza di gratuità del giudizio negativo, in quanto l’opinione sfavorevole, per essere legittima, deve essere, in qualche modo, giustificata da un ragionamento, deve esser motivata». Cosa che sarebbe accaduta. Infatti anche taluni giudizi «fortemente critici rispetto» a Tiziano Renzi sono «pur sempre espressioni argomentate» e non debordano «nell’offesa o nell’insulto». In conclusione la toga non rileva nei nostri servizi alcuna «campagna di stampa diffamatoria» e «i collegamenti» che abbiamo fatto «tra Tiziano Renzi ed imprenditori sottoposti ad indagini» sono in sé una «circostanza neutra».
Quanto alle «allusioni» del faccendiere Flavio Carboni, recentemente scomparso, sui «rapporti» tra l’allora coindagato Valeriano Mureddu, Renzi senior e Pier Luigi Boschi, per il giudice sono state «correttamente virgolettate e pronunciate dal soggetto intervistato» e «il giornalista si è astenuto dal commentarle, limitandosi a riportarne pedissequamente il contenuto».
Alla fine delle 12 pagine della sentenza il giudice ha respinto la richiesta di 300.000 euro di risarcimento e ha condannato Tiziano Renzi al pagamento delle spese di lite, liquidate in 12.670 euro, oltre alle spese generali, a Iva e Cpa.
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Italia viva, Pd e centrodestra votano per il conflitto di attribuzione. Sui messaggi usati nell’inchiesta Open deciderà la Consulta. L’attacco del senatore semplice: «Non si può violentare la vita delle persone».Il giudice dà torto ad Andrea Conticini e alla moglie Matilde, sorella dell’ex premier, per i nostri articoli sui regali di Stato finiti a Rignano. Sconfitto pure babbo Tiziano.Lo speciale contiene due articoliNell’ottavo anniversario della sua nomina a presidente del Consiglio, ieri, Matteo Renzi si è goduto una giornata di grandi soddisfazioni, vissuta con il piglio del padre costituente. Il Senato doveva decidere se sollevare davanti alla Corte costituzionale il conflitto di attribuzioni per l’utilizzo di comunicazioni Whatsapp di Renzi da parte della Procura di Firenze senza la previa autorizzazione di Palazzo Madama. E l’Aula ha dato un netto responso favorevole all’ex premier con 167 sì e 76 no. Al fianco del fu Rottamatore il centrodestra e anche il Pd di Enrico Letta che ha visto spaccato l’asse con il Movimento 5 stelle e Leu. Un altro regalo per Renzi. Che, per quanto riguarda l’inchiesta Open, in attesa dell’udienza preliminare, ha già incassato cinque sentenze favorevoli della Cassazione sull’illegittimità dei sequestri. Un filotto a cui manca solo l’iscrizione per abuso d’ufficio a Genova dei magistrati che lo accusano di finanziamento illecito. Ma anche questo risultato sembra alla portata, dopo la presentazione da parte dello stesso leader di Italia viva di una denuncia contro i suoi accusatori, Giuseppe Creazzo, Luca Turco e Antonino Nastasi. Ieri, in modo sibillino, il procuratore facente funzioni del capoluogo ligure, Francesco Pinto, ci ha detto: «Se abbiamo fatto le iscrizioni? Formalmente non ancora. Siamo ancora in fase di identificazione». L’altro ieri Renzi aveva annunciato: «Sto preparando un intervento dei miei, di quelli che restano. Farò tremare il Senato!». Non ne ha avuto bisogno. Ha fatto un discorso meno infervorato e sguaiato del solito, quasi da uomo delle istituzioni. Non era più quello del 2019, quello che intervenne in Aula dopo le perquisizioni a carico dei suoi finanziatori e dei suoi collaboratori. Ieri è stato quasi serafico. E anche gli applausi sono stati contenuti. Ha recitato la sua parte sapendo di avere quasi in tasca la vittoria contro i pm che ritengono che i milioni di euro inviati a Open siano un finanziamento non dichiarato diretto proprio e solo a lui, al politico Matteo Renzi e non alla sua fondazione. Certo ai pm il senatore non ha risparmiato attacchi, ma questa volta non è sceso sul piano personale, forse per non sentirsi dare dell’eversore. Per lui il voto sul conflitto di attribuzioni non aveva niente a che vedere con la sua posizione di imputato, con la Leopolda o la fondazione. Concetto che ha ribadito più volte. «Oggi non parliamo di me, parliamo di noi, di voi. […] parliamo di Costituzione» ha spiegato ai colleghi, ergendosi a difensore delle guarentigie dei parlamentari. Ha giocato come il gatto con il topo: «Si vergogni chi pensa che qui stiamo attaccando la magistratura. Noi stiamo rispettando la magistratura al punto da citare la Corte di cassazione». Ha ricordato che per gli ermellini durante l’indagine ci sarebbe stato «un inutile sacrificio di diritti» e «una non consentita funzione esplorativa», la cosiddetta «pesca a strascico». Ha rivendicato che tutti i denari destinati alla fondazione sono arrivati tramite bonifici, in modo trasparente. Ha riaffermato un suo vecchio cavallo di battaglia: «L’indagine qui non è sui soldi, l’indagine qui è su che cosa è un partito e su cosa non lo è». Per lui la situazione è peggiore che durante Tangentopoli: allora interrogavano i tesorieri, adesso i pm «si determinano come i nuovi segretari organizzativi perché forse i partiti non sono più messi bene come prima».Ha evidenziato, con una punta di malizia, che l’accusa punta sulla testimonianza di alcuni suoi ex colleghi del Pd, mentre la difesa sfodera le sentenze della Cassazione. Ha ribadito che la legge deve essere uguale per tutti e che quindi la sua denuncia a Genova non è un atto «eversivo», bensì un richiamo al rispetto delle norme da parte dei «custodi della legge» che, come i politici, non hanno diritto all’«impunità».Mentre spiegava che il punto della questione non è il fatto che la sua sfera personale sia stata data «in pasto» ai giornali e non solo, dalle lettere personali (come quella di babbo Tiziano) al conto corrente, ha, però, gridato che «non è consentito a nessuno di violentare la vita delle altre persone». Ha definito il mondo dei media «corresponsabile» della Guerra dei trent’anni tra politica e magistratura, soprattutto quando per la presunta «gazzetta della Procura», «la velina» dei pm «vale più della sentenza della Cassazione».L’attacco ai magistrati fiorentini è andato avanti: «Si ritengono depositari di una imprecisata verità fattuale, sostituti del potere politico nell’organizzazione delle forme della politica, ispiratori di articoli, commenti e veline, ma addirittura si ritengono padri e madri costituenti pronti a disattendere il dettato costituzionale». Poi ha giurato di non voler scappare dal processo, perché in aula andrà «a testa alta», udienza dopo udienza, a dire che «siamo di fronte a uno scandalo». La sua richiesta di sollevare il conflitto di attribuzioni avrebbe un unico obiettivo, quello di ribadire che son reato «rubare», «l’abuso d’ufficio», «non rispettare la Costituzione», «violare il segreto istruttorio», «diffamare», mentre non lo è «fare politica». In sostanza i mariuoli sono i pm di Firenze e alcuni giornalisti, non i politici, non lui. Che continua «a difendere l’idea che la politica non faccia schifo» e che intende combattere i populisti politici, ma soprattutto «coloro i quali che violano le regole della Costituzione perché pensano di fare paura a chi invece paura non ha». Per capire a chi si riferisca, citofonare Procura di Firenze.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/riesce-lassalto-di-renzi-contro-i-pm-laula-si-schiera-col-fu-rottamatore-2656771673.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="ma-la-famiglia-perde-in-tribunale" data-post-id="2656771673" data-published-at="1645573493" data-use-pagination="False"> Ma la famiglia perde in tribunale Quando la magistratura serve a mettere la mordacchia ai giornalisti i Renzi le si rivolgono fiduciosi. Qualche volta vincono. Ma ultimamente capita che perdano. Come è successo in due cause collegate a ben otto articoli di nostri giornalisti. A dicembre La Verità, assistita dall’avvocato Claudio Mangiafico, ha vinto un’importante causa in primo grado contro Andrea Conticini e la moglie Matilde Renzi (sorella di Matteo), per due articoli a firma Giacomo Amadori e Paolo Sebastiani in cui avevamo raccontato di come i regali ricevuti dal fu Rottamatore nella sua veste di presidente del Consiglio fossero stati trasferiti nel capannone di famiglia a Rignano sull’Arno e, forse, alcuni pezzi, nell’appartamento soprastante, quello dei due coniugi. A dicembre il giudice Liliana Anselmo ha condannato i due coniugi al pagamento delle spese di lite: 3.000 euro, oltre a Iva, cassa di previdenza avvocati e al 15 % per spese generali e rimborso spese vive se dovute. Si legge nella sentenza: «L’espressione utilizzata dai giornalisti circa la presenza di tali oggetti (preziosi o anche no) presso l’abitazione degli attori è “dubitativa” (sarebbero)» e «risulta essere proporzionata e misurata, non violenta né degradante, restando confinata nell’ambito del concetto di continenza». Inoltre la toga evidenzia come sui fatti descritti sia «stata aperta un’indagine conoscitiva interna di Palazzo Chigi». Nella sentenza è ricostruito anche il passaggio di mano di alcuni regali: «Gli attori (i coniugi, ndr) non hanno negato che determinati oggetti, ricevuti dall’allora premier Matteo Renzi come omaggi di Stato, siano stati custoditi in un luogo diverso dal caveau romano» e cioè a casa di un pensionato fiorentino, «sol perché la sua collaboratrice domestica li aveva a sua volta ottenuti da suo marito, signor Ravasio», un dipendente dei Renzi, «che, a sua volta, li aveva ottenuti da un componente della famiglia» del fu Rottamatore. Conticini e Matilde Renzi nel giudizio «non contestano, anzi sostengono […] che in effetti il signor Ravasio», sottoposto per questo a una contestazione di illecito disciplinare, «aveva “gestito” come propri degli oggetti che si trovavano in Rignano Sull’Arno, quando», sottolinea il giudice, «avrebbero dovuto trovarsi a Roma, nel caveau dedicato alla loro custodia». Quindi la Anselmo conclude: «Definitivamente si ritiene che i due articoli non realizzino condotte diffamatorie dell’onore e della reputazione degli attori». La causa è stata chiusa dopo la rinuncia all’appello degli attori a fronte della rinuncia del quotidiano a chiedere le spese legali liquidate in sentenza. Definitiva anche l’assoluzione per cinque articoli firmati da chi scrive e per uno di Franco Bechis, tutti scoop su vicende riguardanti i collegamenti tra Tiziano Renzi e alcuni dei soggetti coinvolti nelle vicende di Banca Etruria. Erano apparsi su Libero e l’avvocato che ci ha difeso con successo è stato Luca Lo Giudice. A chiamarci in causa è stato proprio il babbo e il giudice Massimo Donnarumma ha respinto le doglianze del genitore. «Il diritto di critica, a differenza del diritto di cronaca, consente l’utilizzo di un linguaggio sicuramente più pungente ed incisivo» puntualizza la toga, basta che «i fatti ed i comportamenti posti a fondamento dell’interpretazione necessariamente soggettiva siano veritieri o verosimili». Cosa che sarebbe accaduta. Gli avvocati del babbo si sono lamentati anche di questa frase: «È proprio vero che nel magico mondo di Renzi la commistione tra amicizia, politica e affari è quasi un marchio di fabbrica». Ma questo commento per il giudice «non assume una connotazione di illiceità, non rinvenendosi un superamento dei limiti della critica politica» e il giornalista, legittimamente «non condivide e critica “la commistione” cui fa riferimento». Così la proposizione non è altro che «il compendio di quanto è stato precedentemente narrato e delle relazioni societarie descritte». Il giudice specifica anche che «ciò che distingue la critica dall’insulto è la mancanza di gratuità del giudizio negativo, in quanto l’opinione sfavorevole, per essere legittima, deve essere, in qualche modo, giustificata da un ragionamento, deve esser motivata». Cosa che sarebbe accaduta. Infatti anche taluni giudizi «fortemente critici rispetto» a Tiziano Renzi sono «pur sempre espressioni argomentate» e non debordano «nell’offesa o nell’insulto». In conclusione la toga non rileva nei nostri servizi alcuna «campagna di stampa diffamatoria» e «i collegamenti» che abbiamo fatto «tra Tiziano Renzi ed imprenditori sottoposti ad indagini» sono in sé una «circostanza neutra». Quanto alle «allusioni» del faccendiere Flavio Carboni, recentemente scomparso, sui «rapporti» tra l’allora coindagato Valeriano Mureddu, Renzi senior e Pier Luigi Boschi, per il giudice sono state «correttamente virgolettate e pronunciate dal soggetto intervistato» e «il giornalista si è astenuto dal commentarle, limitandosi a riportarne pedissequamente il contenuto». Alla fine delle 12 pagine della sentenza il giudice ha respinto la richiesta di 300.000 euro di risarcimento e ha condannato Tiziano Renzi al pagamento delle spese di lite, liquidate in 12.670 euro, oltre alle spese generali, a Iva e Cpa.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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