L’ultima pensata del giornale romano è privare gli evasori del diritto di recarsi alle urne. Forse in casa Gedi non ricordano i guai col fisco della famiglia Agnelli e la presunta truffa all’Inps in cui sarebbero coinvolti i vertici del gruppo che edita il quotidiano.
L’ultima pensata del giornale romano è privare gli evasori del diritto di recarsi alle urne. Forse in casa Gedi non ricordano i guai col fisco della famiglia Agnelli e la presunta truffa all’Inps in cui sarebbero coinvolti i vertici del gruppo che edita il quotidiano.A Repubblica hanno avuto una bella pensata: togliamo il diritto di voto agli evasori. A dire il vero, per arrivare a sostenere che chi fa il furbo con il fisco dovrebbe essere punito con la perdita del diritto di mettere la crocetta sulla scheda elettorale l’hanno presa un po’ larga, partendo da 250 anni fa, quando i patrioti americani si ribellarono al regime coloniale britannico. Al grido di «No taxation without representation», ovvero nessuna tassazione senza rappresentanza, i coloni distrussero l’intero carico di tè sbarcato da un mercantile della Compagnia delle Indie Orientali, stabilendo un collegamento diretto fra il diritto di voto e l’obbligo di pagare le imposte. Dunque, secondo Repubblica bisogna tornare alle origini e per contrastare l’evasione fiscale occorrono, oltre a misure tecniche, «segnali di cultura pubblica chiari e netti». Quindi, sulla scia dei patrioti americani «si potrebbe rovesciare il loro motto e stabilire che chi non contribuisce alla cassa comune non ha diritto di eleggere i propri rappresentanti». Evviva. Che idea geniale. Come avevamo fatto a non pensarci prima. «Il partito dell’evasione fiscale non ne sarebbe lieto», sentenzia il quotidiano di casa Agnelli, «ma noi tutti sicuramente ce ne gioveremmo».Inutile dire che sotto sotto c’è l’idea che con questa semplice privazione del diritto di voto, la sinistra tornerebbe a vincere le elezioni, perché a votare per il centrodestra sarebbero, secondo loro, gli evasori. Sì, partite Iva, professionisti, artigiani e pure negozianti, tutti accomunati dal medesimo interesse e dalla medesima avversione politica per la sinistra. Dunque, che cosa c’è di meglio che far fuori questi elettori in un colpo solo con una bella interdizione dai pubblici uffici? Con un semplice codicillo, i guai di Letta e compagni sarebbero risolti e potrebbero ritornare a governare come hanno fatto negli ultimi dieci anni senza dover ricorrere ad artifici e scissioni per non mollare la poltrona di Palazzo Chigi. Certo, c’è da valutare quale sarebbe l’impatto sull’opinione pubblica italiana e sull’efficacia di «segnali di cultura chiari e netti». Siamo sicuri che gli elettori reagirebbero come si immaginano i redattori di Maurizio Molinari, cioè pagando le tasse o togliendosi di torno in modo che la sinistra possa ricominciare a respirare? Io qualche dubbio ce l’ho, anche perché abbiamo passato in rassegna l’andamento delle ultime elezioni. Da tempo, l’affluenza al voto tende a scendere e all’ultimo appuntamento con le urne, quello del 25 settembre, gli italiani che hanno ritirato la scheda sono stati il 63,9% degli aventi diritto. Significa che più del 36% ha preferito andare al mare, fare shopping o anche solo restare in pantofole a casa propria. In pratica, su 50 milioni di elettori, 18 hanno ignorato il richiamo delle urne. Dunque, togliere il diritto di voto a chi fa il furbo potrebbe non essere quella sanzione forte e quel segnale di cultura pubblica che tanto piace a chi scrive su Repubblica, perché gli evasori potrebbero decidere di non volere la «representation», preferendo la «No taxation». Peraltro, legare il voto alle tasse potrebbe avere una brutta conseguenza e cioè che tanti italiani decidano di rinunciare volontariamente al diritto di voto pur di non dovere pagare le imposte. Se il motto dei patrioti americani può essere rovesciato, come dice Repubblica, si può anche adottare nella sua versione originale, buttando a mare non le casse di tè importate dalle Indie, ma le cartelle inviate dall’Agenzia delle entrate. I colleghi del quotidiano di Largo Fochetti forse non hanno pensato a questo risvolto, ma sono certo che qualcuno saprebbe approfittarne.Ciò detto, l’idea di Repubblica è affascinante e avrebbe effetti interessanti. Prendete per esempio la famiglia Agnelli, a cui il fisco tempo fa contestò di non aver pagato 1,3 miliardi di tasse per aver spostato in Olanda la residenza fiscale della sua cassaforte. La Real casa di Torino, dopo qualche rimostranza, pagò sull’unghia 1 miliardo per «evitare un lungo contenzioso». Si sa, «causa che pende, causa che rende», ovviamente agli avvocati, ma non penso che il problema degli Agnelli fosse la parcella dei legali e tuttavia pagarono quasi tutto ciò che pretendeva l’Agenzia delle entrate. Che facciamo con loro? Gli togliamo il diritto di voto, che tanto stanno già in Olanda? E con il nonno, che secondo la figlia Margherita aveva un tesoretto estero su cui non aveva pagato le imposte di circa 2 miliardi? Gli leviamo a posteriori il cavalierato, inseguendo gli eredi fino a che non saldano il dovuto? E con la truffa all’Inps in cui sarebbero coinvolti i vertici di Gedi, ossia del gruppo editoriale che edita Repubblica, come la mettiamo? Togliamo il diritto di voto anche a loro? Vi dico la verità: io quasi quasi ci sto. Volete mettere la soddisfazione di vedere interdetto dai pubblici uffici chi per una vita ha dato lezioni agli altri…
Andy Mann for Stefano Ricci
Così la famiglia Ricci difende le proprie creazioni della linea Sr Explorer, presentata al Teatro Niccolini insieme alla collezione Autunno-Inverno 2026/2027, concepita in Patagonia. «Più preserveremo le nostre radici, meglio costruiremo un futuro luminoso».
Il viaggio come identità, la natura come maestra, Firenze come luogo d’origine e di ritorno. È attorno a queste coordinate che si sviluppa il nuovo capitolo di Sr Explorer, il progetto firmato da Stefano Ricci. Questa volta, l’ottava, è stato presentato al Teatro Niccolini insieme alla collezione Autunno-Inverno 2026/2027, nata tra la Patagonia e la Terra del Fuoco, terre estreme che hanno guidato una riflessione sull’uomo, sulla natura e sul suo fragile equilibrio. «Guardo al futuro e vedo nuovi orizzonti da esplorare, nuovi territori e un grande desiderio di vivere circondato dalla bellezza», afferma Ricci, introducendo il progetto. «Oggi non vi parlo nel mio ruolo di designer, ma con lo spirito di un esploratore. Come un grande viaggiatore che ha raggiunto luoghi remoti del Pianeta, semplicemente perché i miei obiettivi iniziavano dove altri vedevano dei limiti».
Aimo Moroni e Massimiliano Alajmo
Ultima puntata sulla vita del grande chef, toscano di nascita ma milanese d’adozione. Frequentando i mercati generali impara a distinguere a occhio e tatto gli ingredienti di qualità. E trova l’amore con una partita a carte.
Riprendiamo con la seconda e conclusiva puntata sulla vita di Aimo Moroni. Cesare era un cuoco di origine napoletana che aveva vissuto per alcuni anni all’estero. Si era presentato alla cucina del Carminati con una valigia che, all’interno, aveva ben allineati i ferri del mestiere, coltelli e lame.
Davanti agli occhi curiosi dei due ragazzini l’esordio senza discussioni: «Guai a voi se me li toccate». In realtà una ruvidezza solo di apparenza, in breve capì che Aimo e Gialindo avevano solo il desiderio di apprendere da lui la professione con cui volevano realizzare i propri sogni. Casa sua divenne il laboratorio dove insegnò loro i piccoli segreti di una vita, mettendoli poi alla prova nel realizzare i piatti con la promozione o bocciatura conseguente.
Alessandra Coppola ripercorre la scia di sangue della banda neonazi Ludwig: fanatismo, esoterismo, violenza e una rete oscura che il suo libro Il fuoco nero porta finalmente alla luce.
La premier nipponica vara una manovra da 135 miliardi di dollari Rendimenti sui bond al top da 20 anni: rischio calo della liquidità.
Big in Japan, cantavano gli Alphaville nel 1984. Anni ruggenti per l’ex impero del Sol Levante. Il boom economico nipponico aveva conquistato il mondo con le sue esportazioni e la sua tecnologia. I giapponesi, sconfitti dall’atomica americana, si erano presi la rivincita ed erano arrivati a comprare i grattacieli di Manhattan. Nel 1990 ci fu il top dell’indice Nikkei: da lì in poi è iniziata la «Tokyo decadence». La globalizzazione stava favorendo la Cina, per cui la nuova arma giapponese non era più l’industria ma la finanza. Basso costo del denaro e tanto debito, con una banca centrale sovranista e amica dei governi, hanno spinto i samurai e non solo a comprarsi il mondo.






