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2018-04-11
Renzi è sempre lì: un occhio al M5s e l'altro a Forza Italia
ANSA
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Riduci
Matteo Renzi ieri non ha partecipato all'assemblea dei gruppi parlamentari del Pd. La scelta di non essere presente, ha spiegato una fonte a lui vicina, è stata dettata dalla volontà di non condizionare il dibattito interno al partito. Questo, quanto meno, è ciò che riferisce un dispaccio dell'agenzia Ansa. In realtà l'assenza del segretario dimissionario serve proprio a condizionare il dibattito interno al Pd, annullandolo. Come si fa, infatti, a discutere di qualche cosa se il principale accusato non c'è e non si fa difendere da nessuno? Con chi discutono Andrea Orlando e Dario Franceschini, con loro stessi? Sarebbe un po' come se un'assemblea societaria fosse convocata per prendere importanti decisioni e l'azionista di maggioranza non si facesse vedere. Ovviamente la riunione sarebbe aggiornata a data da destinarsi, e i provvedimenti attesi verrebbero rinviati. Ed è quanto è successo ieri. Ma è anche quanto accaduto settimane fa, quando, il giorno della direzione che doveva prendere atto del disastroso risultato elettorale del 4 marzo, Renzi se ne uscì con una bella intervista al Corriere della Sera in cui bruciava gli argomenti all'ordine del giorno dell'assemblea. Il segretario sconfitto, invece di farsi da parte per lasciare che altri dibattessero delle ragioni della sconfitta, dettava la linea da tenere nonostante lui fosse dimissionario e annunciava un suo prossimo ritorno, perché «la ruota gira, e la rivincita può arrivare presto». Ecco, Renzi è fermo lì, alla partita di ritorno, convinto che al primo turno abbiano vinto gli altri, ma al secondo possa rivincere lui.Del resto l'ex presidente del Consiglio ha già messo in posizione sulla scacchiera la sue pedine. Al Senato il fedelissimo Andrea Marcucci, erede di un'azienda toscana partecipata dalla Cassa depositi e prestiti. Alla Camera invece c'è Graziano Delrio, che magari fedelissimo non è, ma è incapace di opporsi allo strapotere renziano. Poi, certo, c'è Maurizio Martina, il segretario reggente, uno che a ben guardare è ancora più debole del ministro delle Infrastrutture. Ma anche mettendo insieme tutti quelli che si distinguono dalla linea dell'ex segretario, cioè Martina, ma anche Orlando e Franceschini, non si riesce a trovare un oppositore vero a Renzi, il quale, che sia presente fisicamente o solo con lo spirito, rimane il padrone assoluto del Pd, ossia colui che è in grado non solo di condizionarne la linea, ma di dettarla. E infatti, al momento, non c'è nessun organismo dirigente che si sia azzardato ad approfondire le ragioni della sconfitta, dando a Renzi quel che è di Renzi. Né si registrano concrete possibilità di un congresso vero o di una reale competizione. Ciò che un tempo era la parola magica, simbolo di democrazia dal basso, adesso è stata derubricata con fastidio come una procedura che fa perdere tempo. Niente primarie, dunque, nessuna consultazione popolare. Quelle andavano bene prima, quando Renzi doveva scalare il Pd e farsi legittimare senza passare dal voto. Adesso no: meglio fare tutto nelle segrete stanze, lasciando che il dimissionario possa continuare a dirigere il partito da lontano, dal suo seggio di senatore senza incarichi.Per ora, in vista della partita per l'elezione del nuovo segretario, pare che Renzi abbia accantonato il progetto di farsi un nuovo partito. Non che l'idea sia definitivamente stata archiviata. No, diciamo che al momento è sospesa. Del resto, che ragione c'è di farsi un partito nuovo se si controlla ancora quello vecchio? Al massimo si può cambiare l'insegna e rifare il trucco a ciò che già si ha, aggiungendo un po' di marketing. Tuttavia, ciò che l'ex presidente del Consiglio non ha abbandonato è l'idea di riprendersi la scena. Altro che «faccio il senatore semplice di Scandicci» e «per due anni non parlo». Renzi scalpita e non vede l'ora di ritornare sotto i riflettori e di occupare una poltrona adatta al suo rango. È per questo che nelle ultime ore, secondo alcuni, sarebbe sbocciata l'idea del dietrofront. Dopo aver scandito che il Pd sarebbe rimasto là dove lo hanno messo gli italiani, cioè all'opposizione, adesso il segretario detronizzato medita di rinunciare all'Aventino per rispondere alla richiesta di responsabilità avanzata dal presidente Mattarella. In breve, dopo che Luigi Di Maio ha messo da parte la pregiudiziale su di lui, Renzi medita di tornare in pista. In fondo, due mesi di astinenza possono bastare. Sì, aveva detto due anni, ma forse per lui due anni o due mesi fanno poca differenza. E poi il suo motto è avanti, mica sto fermo. Dunque prepariamoci. Anzi, già che ci siamo tenete d'occhio Forza Italia, perché è nell'orto del Cavaliere che Renzi vuole andare a zappettare. Il piano è preparare il terreno per poi piantarci la tenda.
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Attualmente gli Stati Uniti mantengono 84.000 militari in Europa, dislocati in circa cinquanta basi. I principali snodi si trovano in Germania, Italia e Regno Unito, mentre la Francia non ospita alcuna base americana permanente. Il quartier generale del comando statunitense in Europa è situato a Stoccarda, da dove viene coordinata una forza che, secondo un rapporto del Congresso, risulta «strettamente integrata nelle attività e negli obiettivi della Nato».
Sul piano strategico-nucleare, sei basi Nato, distribuite in cinque Paesi membri – Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia – custodiscono circa 100 ordigni nucleari statunitensi. Si tratta delle bombe tattiche B61, concepite esclusivamente per l’impiego da parte di bombardieri o caccia americani o alleati certificati. Dalla sua istituzione nel 1949, con il Trattato di Washington, la Nato è stata il perno della sicurezza americana in Europa, come ricorda il Center for Strategic and International Studies. L’articolo 5 garantisce che un attacco contro uno solo dei membri venga considerato un’aggressione contro tutti, estendendo di fatto l’ombrello militare statunitense all’intero continente.
Questo impianto, rimasto sostanzialmente invariato dalla fine della Seconda guerra mondiale, oggi appare messo in discussione. Il discorso del vicepresidente J.D. Vance alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, i segnali di dialogo tra Donald Trump e Vladimir Putin sull’Ucraina e la diffusione di una dottrina strategica definita «aggressiva» da più capitali europee hanno alimentato il timore di un possibile ridimensionamento dell’impegno americano.
Sul fronte finanziario, Washington ha alzato ulteriormente l’asticella chiedendo agli alleati di destinare il 5% del Pil alla difesa. Un obiettivo giudicato irrealistico nel breve termine dalla maggior parte degli Stati membri. Nel 2014, solo tre Paesi – Stati Uniti, Regno Unito e Grecia – avevano raggiunto la soglia minima del 2%. Oggi 23 Paesi Nato superano quel livello, e 16 di essi lo hanno fatto soltanto dopo il 2022, sotto la spinta del conflitto ucraino. La guerra in Ucraina resta infatti il contesto determinante. La Russia controlla quasi il 20% del territorio ucraino. Già dopo l’annessione della Crimea nel 2014, la Nato aveva rafforzato il fianco orientale schierando quattro gruppi di battaglia nei Paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) e in Polonia. Dopo il 24 febbraio 2022, altri quattro battlegroup sono stati dispiegati in Bulgaria, Ungheria, Romania e Slovacchia.
Queste forze contano complessivamente circa 10.000 soldati, tra cui 770 militari francesi – 550 in Romania e 220 in Estonia – e si aggiungono al vasto sistema di basi navali, aeree e terrestri già presenti sul continente. Nonostante questi numeri, la capacità reale dell’Europa rimane limitata. Come osserva Camille Grand, ex vicesegretario generale della Nato, molti eserciti europei, protetti per decenni dall’ombrello americano e frenati da bilanci contenuti, si sono trasformati in «eserciti bonsai»: strutture ridotte, con capacità parziali ma prive di profondità operativa. I dati confermano il quadro: 12 Paesi europei non dispongono di carri armati, mentre 14 Stati non possiedono aerei da combattimento. In molti casi, i mezzi disponibili non sono sufficientemente moderni o pronti all’impiego.
La dipendenza diventa totale nelle capacità strategiche. Intelligence, sorveglianza e ricognizione, così come droni, satelliti, aerei da rifornimento e da trasporto, restano largamente insufficienti senza il supporto statunitense. L’operazione francese in Mali nel 2013 richiese l’intervento di aerei americani per il rifornimento in volo, mentre durante la guerra in Libia nel 2011 le scorte di bombe a guida laser si esaurirono rapidamente. Secondo le stime del Bruegel Institute, riprese da Le Figaro, per garantire una sicurezza credibile senza l’appoggio degli Stati Uniti l’Europa dovrebbe investire almeno 250 miliardi di euro all’anno. Una cifra che fotografa con precisione il divario accumulato e pone una domanda politica inevitabile: il Vecchio Continente è disposto a sostenere un simile sforzo, o continuerà ad affidare la propria difesa a un alleato sempre meno disposto a farsene carico?
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Riduci
(Totaleu)
Lo ha detto il Ministro per gli Affari europei in un’intervista margine degli Ecr Study Days a Roma.
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Ed è quel che ha pensato il gran capo della Fifa, l’imbarazzante Infantino, dopo aver intestato a Trump un neonato riconoscimento Fifa. Solo che stavolta lo show diventa un caso diplomatico e rischia di diventare imbarazzante e difficile da gestire perché, come dicevamo, la partita celebrativa dell’orgoglio Lgbtq+ sarà Egitto contro Iran, due Paesi dove gay, lesbiche e trans finiscono in carcere o addirittura condannate a morte.
Ora, delle due l’una: o censuri chi non si adegua a certe regole oppure imporre le proprie regole diventa ingerenza negli affari altrui. E non si può. Com’è noto il match del 26 giugno a Seattle, una delle città in cui la cultura Lgbtq+ è più radicata, era stata scelto da tempo come pride match, visto che si giocherà di venerdì, alle porte del nel weekend dell’orgoglio gay. Diciamo che la sorte ha deciso di farsi beffa di Infantino e del politically correct. Infatti le due nazioni hanno immediatamente protestato: che c’entriamo noi con queste convenzioni occidentali? Del resto la protesta ha un senso: se nessuno boicotta gli Stati dove l’omosessualità è reato, perché poi dovrebbero partecipare ad un rito occidentale? Per loro la scelta è «inappropriata e politicamente connotata». Così Iran ed Egitto hanno presentato un’obiezione formale, tant’è che Mehdi Taj, presidente della Federcalcio iraniana, ha spiegato la posizione del governo iraniano e della sua federazione: «Sia noi che l’Egitto abbiamo protestato. È stata una decisione irragionevole che sembrava favorire un gruppo particolare. Affronteremo sicuramente la questione». Se le Federcalcio di Iran ed Egitto non hanno intenzione di cedere a una pressione internazionale che ingerisce negli affari interni, nemmeno la Fifa ha intenzione di fare marcia indietro. Secondo Eric Wahl, membro del Pride match advisory committee, «La partita Egitto-Iran a Seattle in giugno capita proprio come pride match, e credo che sia un bene, in realtà. Persone Lgbtq+ esistono ovunque. Qui a Seattle tutti sono liberi di essere se stessi». Certo, lì a Seattle sarà così ma il rischio che la Fifa non considera è quello di esporre gli atleti egiziani e soprattutto iraniani a ritorsioni interne. Andremo al Var? Meglio di no, perché altrimenti dovremmo rivedere certi errori macroscopici su altri diritti dei quali nessun pride si era occupato organizzando partite ad hoc. Per esempio sui diritti dei lavoratori; eppure non pochi operai nei cantieri degli stadi ci hanno lasciato le penne. Ma evidentemente la fretta di rispettare i tempi di consegna fa chiudere entrambi gli occhi. Oppure degli operai non importa nulla. E qui tutto il mondo è Paese.
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