2018-06-01
Il Friuli Venezia Giulia si libera dal giogo Lgbt
La Regione guidata da Massimiliano Fedriga decide di uscire dalla rete Re.a.dy, che vincola le pubbliche amministrazioni alle associazioni gay. Un modo efficace per rifiutare il pensiero unico. L'assessore Alessia Rosolen: «Non accettiamo l'indottrinamento».Intanto, i cinema d'Italia si riempiono di pellicole omosex. Da Favola a L'arte della fuga, il grande schermo celebra gli amori tra uomini.Lo speciale contiene due articoliDalle nostre parti domina un equivoco che merita di essere sciolto. Ovvero l'idea che rispettare le persone omosessuali significhi accettare ogni richiesta proveniente dalle associazioni Lgbti. Tendiamo a confondere il diritto di uomini e donne a non essere maltrattati o discriminati con le pretese di organizzazioni che hanno precisi obiettivi politici e che seguono una ideologia non solo discutibile, ma probabilmente nemmeno rappresentativa dell'intero universo gay. Tale sovrapposizione è pericolosa, e fornisce alle varie associazioni un notevole potere di ricatto: «Non fai quello che chiediamo? Allora sei omofobo». Guardiamo che cosa è accaduto a Chiara Appendino. Il sindaco di Torino non può certo essere accusato di omofobia, anzi, nelle scorse settimane è diventato il paladino del fronte Lgbti. Ha guidato la ribellione dei Comuni italiani che intendono registrare i bimbi di coppie gay come figli di due madri o due padri, ha persino scavalcato la legge sull'utero in affitto. Eppure, agli attivisti arcobaleno non basta. Nei giorni scorsi, l'Appendino ha firmato un protocollo d'intesa con il governatore di San Pietroburgo, Georgy Poltavchenko. Un accordo importante, per altro in controtendenza rispetto alle solite paranoie antirusse che dominano dalle nostre parti. Ebbene, ai leader gay la cosa non è andata giù. Secondo Alessandro Battaglia, coordinatore del Torino pride, l'accordo con i russi è «oltremodo offensivo: come è noto la Russia del presidente Putin è tra le nazioni più omo-transfobiche e il governatore Georgy Poltavchenko è colui che non perse un solo secondo, nel 2012, nel firmare una orrenda legge contro la cosiddetta “propaganda gay"». Battaglia, ovviamente, invita il sindaco torinese a «riconsiderare questa scelta» e a schierarsi nettamente «contro l'omo-transfobia». Curioso: la Appendino si è esposta come nessuno mai per accontentare le associazioni, ma dopo un paio di settimane già le sventolano sotto il naso lo spauracchio dell'omofobia. Il ricatto funziona sempre nello stesso modo: se non si offrono prebende alle associazioni arcobaleno, ecco che scatta l'accusa. Ne sa qualcosa un'altra pentastellata, ovvero Virginia Raggi. Il sindaco di Roma, in queste ore, subisce il fuoco di fila di una marea di associazioni che la accusano di non avere iscritto all'anagrafe la figlia di una coppia lesbica, probabilmente nata all'estero. In realtà, il Comune di Roma, settimane fa, ha registrato il figlio di due gay nato in Canada da madre surrogata. Può anche darsi che, nel caso delle due lesbiche, l'amministrazione stia solo prendendo tempo, trattandosi di una questione complessa e non proprio in linea con le leggi vigenti. Ma poco importa: per gli attivisti arcobaleno, l'infrazione è già diventata regola. Non chiedono, pretendono che la Raggi li accontenti e firmi subito le pratiche agognate dalle due mamme. Le intimano di non «negare, ancora una volta, i diritti dei più deboli: i bambini», come ha detto Sebastiano Secci, portavoce del Roma Pride, quasi che davvero ci fossero in gioco i bisogni dei più piccoli e non i desideri delle mamme. Fortuna che, nel nostro Paese, c'è un'istituzione decisa a sottrarsi al ricatto, in totale controtendenza rispetto al resto d'Italia. È la Regione Friuli Venezia Giulia governata dal leghista Massimiliano Fedriga, fresco di vittoria alle elezioni. L'amministrazione regionale ha deliberato di uscire da Re.a.dy, la Rete nazionale delle pubbliche amministrazioni anti discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere. Re.a.dy è nata nel 2006 per volontà del Comune di Roma e di quello di Torino. Ne fanno parte numerosi Comuni, Province e Regioni italiane, i quali hanno firmato una carta di intenti impegnandosi a «promuovere sul piano locale politiche che sappiano rispondere ai bisogni delle persone Lgbti, contribuendo a migliorarne la qualità della vita e creando un clima sociale di rispetto e di confronto libero da pregiudizi». L'intento politico di questa rete è evidente e dichiarato, visto che Re.a.dy vuole battersi per «il riconoscimento dei diritti delle persone Lgbt nei confronti del governo centrale, sulla base delle numerose affermazioni contenute nelle risoluzioni e nei trattati dell'Unione europea». Attualmente, del network arcobaleno fanno parte 118 soggetti, di cui otto Regioni: Abruzzo, Campania, Emilia Romagna, Lazio, Liguria, Marche, Puglia e Toscana. Fino all'altro giorno, c'era pure il Friuli Venezia Giulia, ma l'assessore alla Famiglia, Alessia Rosolen, ha deciso di tirarsi fuori. «La nostra decisione», spiega alla Verità, «nasce dalla discriminazione che è stata fatta quando si è deciso di affidare l'educazione al rispetto della diversità esclusivamente alle associazioni Lgbti». Già, perché le amministrazioni precedenti avevano deliberato di entrare nella rete e di affidare all'Arcigay il compito di formare gli studenti friulani sui temi «dell'inclusione sociale, delle pari opportunità e della non discriminazione». L'opinione della Rosolen è totalmente condivisibile: «Sono in primis le famiglie e poi le istituzioni scolastiche a dover insegnare ai ragazzi il rispetto di ogni tipo di diversità. Famiglie e scuole hanno tutti gli strumenti necessari per farlo. Tra l'altro, la diversità non si limita all'orientamento sessuale». L'azione delle associazioni Lgbti, secondo l'assessore, è un «indebito indottrinamento». Come prevedibile, gli attivisti arcobaleno hanno protestato, e persino il Pd ha parlato di «primo passo verso l'intolleranza». Qui, però, razzismo e discriminazione non c'entrano proprio nulla. Per quale motivo un'istituzione pubblica dovrebbe affidare compiti educativi ad organizzazioni con evidenti scopi politici? Senza contare, tra l'altro, che l'ideologia Lgbti ormai è capillarmente diffusa. Basti guardare quanti libri e film trattano l'argomento, sempre dalla stessa prospettiva. A breve, per dire, sarà disponibile anche in Italia la serie Netflix Alex Strangelove, una specie di inno alla «fluidità sessuale». Se dai media mainstream arrivano di continuo messaggio di questo tipo, perché pure la scuola dovrebbe riproporre l'indottrinamento? Anche il Comune di Sesto San Giovanni, l'anno scorso, ha deciso di uscire da Re.a.dy. Sarebbe interessante che altre amministrazioni di centrodestra (ad esempio quella che guida la Liguria) seguissero l'esempio. Si tratterebbe di un atto concreto e potente contro il pensiero unico. Francesco Borgonovo<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ready-friuli-2573977343.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-botteghino-si-tinge-di-arcobaleno" data-post-id="2573977343" data-published-at="1762782812" data-use-pagination="False"> Il botteghino si tinge di arcobaleno Viva le donne, anzi no. Mentre Michela Murgia, ultima giapponese del femminismo, continua la sua campagna solitaria contro la mancanza di firme femminili in prima pagina nei principali giornali italiani, Natalia Aspesi in prima pagina su Repubblica ci finisce, ma per scrivere questo: «Escono quasi contemporaneamente in questi giorni una serie di film dove le donne non hanno alcun ruolo se non quello di moglie abbandonata, mamma o nonna. Oppure amica. Oppure innamorata clandestina. Oppure non si sa». Contrordine, compagne: l'assenza di donne ora è un segno di progresso. A patto che gli uomini che restano siano un po' fru fru. Il pensiero unico funziona così, vittima grande scaccia vittima piccola: la donna scaccia l'uomo, il gay scaccia la donna, il trans scaccia il gay, il trans nero scaccia il trans bianco, e così via, con l'unico soggetto destinato a ricevere solo contumelie identificato nel maschio bianco eterosessuale. La Aspesi festeggia l'uscita nelle sale di una serie di pellicole a tema gay o gender. A cominciare da Favola, l'adattamento cinematografico dello spettacolo teatrale Favola. C'era una volta una bambina, e dico c'era perché ora non c'è più, scritto e interpretato dall'attore Filippo Timi. Al centro del film, una casalinga dalla sessualità incerta nei cotonati anni Cinquanta. Ma non solo: c'è The happy prince, sugli ultimi amori del vecchio Oscar Wilde, c'è L' arte della fuga, sui dilemmi amorosi di un giovanotto francese di buona famiglia, c'è La terra di Dio, sulla relazione tra un contadino inglese e uno rumeno, c'è Sposami, stupido!, su uno studente extracomunitario che sposa un amico maschio. E così via. Il cinema parla di amori omosex, evviva, il progresso è salvo. E se per raggiungere questo traguardo di civiltà abbiamo dovuto relegare le donne fuori dalla trama, o nei panni di comprimarie stereotipate, beh, allora si tratterà di danni collaterali nel trionfo dell'ideologia occidentale. Aspesi, comunque, è raggiante: «Le cinestorie omosessuali non sono più un genere, ma si ritrovano in ogni genere, storico, sofisticato, rustico, drammatico, comico, melò». Una volta il cinema a trama gay doveva essere ben recensito per ragioni politiche. Oggi, invece, «finalmente si può dire “è una porcheria", sia pure con una certa prudenza difensiva», assicura la giornalista. Lo spirito del tempo è talmente avanzato che la giornalista di Repubblica può persino reclamare la visione di un po' di carne nuda. «Non si vuole essere pecorecci, ma certamente la natica dovrebbe essere un must in storie tra maschi (e non solo)». Immaginate un paludato editoriale su un giornalone liberal che si lamentasse di un film in cui le forme della protagonista femminile siano troppo nascoste: l'intero circuito mondiale del Me too si trasferirebbe sotto la redazione. In tutto questo delirio zeppo di cortocircuiti e contraddizioni, resta se non altro una logica conseguenza da trarre che ha un sapore rassicurante: se i film che hanno per protagonisti gli omosessuali sono usciti dal circuito del cinema di nicchia, se sono per tutti, se queste pellicole sono ormai entrate nel circuito della normalità, allora questo significa che la nostra società è «progredita», quindi l'eterno allarme sull'omofobia montante può serenamente rientrare. Non tutto il male vien per nuocere. Adriano Scianca
(Guardia di Finanza)
I peluches, originariamente disegnati da un artista di Hong Kong e venduti in tutto il mondo dal colosso nella produzione e vendita di giocattoli Pop Mart, sono diventati in poco tempo un vero trend, che ha generato una corsa frenetica all’acquisto dopo essere stati indossati sui social da star internazionali della musica e del cinema.
In particolare, i Baschi Verdi del Gruppo Pronto Impiego, attraverso un’analisi sulla distribuzione e vendita di giocattoli a Palermo nonché in virtù del costante monitoraggio dei profili social creati dagli operatori del settore, hanno individuato sette esercizi commerciali che disponevano anche degli iconici Labubu, focalizzando l’attenzione soprattutto sul prezzo di vendita, considerando che gli originali, a seconda della tipologia e della dimensione vengono venduti con un prezzo di partenza di circa 35 euro fino ad arrivare a diverse migliaia di euro per i pezzi meno diffusi o a tiratura limitata.
A seguito dei preliminari sopralluoghi effettuati all’interno dei negozi di giocattoli individuati, i finanzieri ne hanno selezionati sette, i quali, per prezzi praticati, fattura e packaging dei prodotti destavano particolari sospetti circa la loro originalità e provenienza.
I controlli eseguiti presso i sette esercizi commerciali hanno fatto emergere come nella quasi totalità dei casi i Labubu fossero imitazioni perfette degli originali, realizzati con materiali di qualità inferiore ma riprodotti con una cura tale da rendere difficile per un comune acquirente distinguere gli esemplari autentici da quelli falsi. I prodotti, acquistati senza fattura da canali non ufficiali o da piattaforme e-commerce, perlopiù facenti parte della grande distribuzione, venivano venduti a prezzi di poco inferiori a quelli praticati per gli originali e riportavano loghi, colori e confezioni del tutto simili a questi ultimi, spesso corredati da etichette e codici identificativi non conformi o totalmente falsificati.
Questi elementi, oltre al fatto che in alcuni casi i negozi che li ponevano in vendita fossero specializzati in giocattoli originali di ogni tipo e delle più note marche, potevano indurre il potenziale acquirente a pensare che si trattasse di prodotti originali venduti a prezzi concorrenziali.
In particolare, in un caso, l’intervento dei Baschi Verdi è stato effettuato in un negozio di giocattoli appartenente a una nota catena di distribuzione all’interno di un centro commerciale cittadino. Proprio in questo negozio è stato rinvenuto il maggior numero di pupazzetti falsi, ben 3.000 tra esercizio e magazzino, dove sono stati trovati molti cartoni pieni sia di Labubu imbustati che di scatole per il confezionamento, segno evidente che gli addetti al negozio provvedevano anche a creare i pacchetti sorpresa, diventati molto popolari proprio grazie alla loro distribuzione tramite blind box, ossia scatole a sorpresa, che hanno creato una vera e propria dipendenza dall’acquisto per i collezionisti di tutto il mondo. Tra gli esemplari sequestrati anche alcune copie più piccole di un modello, in teoria introvabile, venduto nel mese di giugno a un’asta di Pechino per 130.000 euro.
Soprattutto in questo caso la collocazione all’interno di un punto vendita regolare e inserito in un contesto commerciale di fiducia, unita alla cura nella realizzazione delle confezioni, avrebbe potuto facilmente indurre in errore i consumatori convinti di acquistare un prodotto ufficiale.
I sette titolari degli esercizi commerciali ispezionati e destinatari dei sequestri degli oltre 10.000 Labubu falsi che, se immessi sul mercato avrebbero potuto fruttare oltre 500.000 euro, sono stati denunciati all’Autorità Giudiziaria per vendita di prodotti recanti marchi contraffatti.
L’attività s’inquadra nel quotidiano contrasto delle Fiamme Gialle al dilagante fenomeno della contraffazione a tutela dei consumatori e delle aziende che si collocano sul mercato in maniera corretta e che, solo nell’ultimo anno, ha portato i Baschi Verdi del Gruppo P.I. di Palermo a denunciare 37 titolari di esercizi commerciali e a sequestrare oltre 500.000 articoli contraffatti, tra pelletteria, capi d’abbigliamento e profumi recanti marchi delle più note griffe italiane e internazionali.
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