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2018-06-01
Il Friuli Venezia Giulia si libera dal giogo Lgbt
ANSA
Dalle nostre parti domina un equivoco che merita di essere sciolto. Ovvero l'idea che rispettare le persone omosessuali significhi accettare ogni richiesta proveniente dalle associazioni Lgbti. Tendiamo a confondere il diritto di uomini e donne a non essere maltrattati o discriminati con le pretese di organizzazioni che hanno precisi obiettivi politici e che seguono una ideologia non solo discutibile, ma probabilmente nemmeno rappresentativa dell'intero universo gay. Tale sovrapposizione è pericolosa, e fornisce alle varie associazioni un notevole potere di ricatto: «Non fai quello che chiediamo? Allora sei omofobo». Guardiamo che cosa è accaduto a Chiara Appendino. Il sindaco di Torino non può certo essere accusato di omofobia, anzi, nelle scorse settimane è diventato il paladino del fronte Lgbti. Ha guidato la ribellione dei Comuni italiani che intendono registrare i bimbi di coppie gay come figli di due madri o due padri, ha persino scavalcato la legge sull'utero in affitto. Eppure, agli attivisti arcobaleno non basta.
Nei giorni scorsi, l'Appendino ha firmato un protocollo d'intesa con il governatore di San Pietroburgo, Georgy Poltavchenko. Un accordo importante, per altro in controtendenza rispetto alle solite paranoie antirusse che dominano dalle nostre parti. Ebbene, ai leader gay la cosa non è andata giù. Secondo Alessandro Battaglia, coordinatore del Torino pride, l'accordo con i russi è «oltremodo offensivo: come è noto la Russia del presidente Putin è tra le nazioni più omo-transfobiche e il governatore Georgy Poltavchenko è colui che non perse un solo secondo, nel 2012, nel firmare una orrenda legge contro la cosiddetta “propaganda gay"». Battaglia, ovviamente, invita il sindaco torinese a «riconsiderare questa scelta» e a schierarsi nettamente «contro l'omo-transfobia». Curioso: la Appendino si è esposta come nessuno mai per accontentare le associazioni, ma dopo un paio di settimane già le sventolano sotto il naso lo spauracchio dell'omofobia. Il ricatto funziona sempre nello stesso modo: se non si offrono prebende alle associazioni arcobaleno, ecco che scatta l'accusa.
Ne sa qualcosa un'altra pentastellata, ovvero Virginia Raggi. Il sindaco di Roma, in queste ore, subisce il fuoco di fila di una marea di associazioni che la accusano di non avere iscritto all'anagrafe la figlia di una coppia lesbica, probabilmente nata all'estero. In realtà, il Comune di Roma, settimane fa, ha registrato il figlio di due gay nato in Canada da madre surrogata. Può anche darsi che, nel caso delle due lesbiche, l'amministrazione stia solo prendendo tempo, trattandosi di una questione complessa e non proprio in linea con le leggi vigenti. Ma poco importa: per gli attivisti arcobaleno, l'infrazione è già diventata regola. Non chiedono, pretendono che la Raggi li accontenti e firmi subito le pratiche agognate dalle due mamme. Le intimano di non «negare, ancora una volta, i diritti dei più deboli: i bambini», come ha detto Sebastiano Secci, portavoce del Roma Pride, quasi che davvero ci fossero in gioco i bisogni dei più piccoli e non i desideri delle mamme.
Fortuna che, nel nostro Paese, c'è un'istituzione decisa a sottrarsi al ricatto, in totale controtendenza rispetto al resto d'Italia. È la Regione Friuli Venezia Giulia governata dal leghista Massimiliano Fedriga, fresco di vittoria alle elezioni. L'amministrazione regionale ha deliberato di uscire da Re.a.dy, la Rete nazionale delle pubbliche amministrazioni anti discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere.
Re.a.dy è nata nel 2006 per volontà del Comune di Roma e di quello di Torino. Ne fanno parte numerosi Comuni, Province e Regioni italiane, i quali hanno firmato una carta di intenti impegnandosi a «promuovere sul piano locale politiche che sappiano rispondere ai bisogni delle persone Lgbti, contribuendo a migliorarne la qualità della vita e creando un clima sociale di rispetto e di confronto libero da pregiudizi». L'intento politico di questa rete è evidente e dichiarato, visto che Re.a.dy vuole battersi per «il riconoscimento dei diritti delle persone Lgbt nei confronti del governo centrale, sulla base delle numerose affermazioni contenute nelle risoluzioni e nei trattati dell'Unione europea». Attualmente, del network arcobaleno fanno parte 118 soggetti, di cui otto Regioni: Abruzzo, Campania, Emilia Romagna, Lazio, Liguria, Marche, Puglia e Toscana.
Fino all'altro giorno, c'era pure il Friuli Venezia Giulia, ma l'assessore alla Famiglia, Alessia Rosolen, ha deciso di tirarsi fuori. «La nostra decisione», spiega alla Verità, «nasce dalla discriminazione che è stata fatta quando si è deciso di affidare l'educazione al rispetto della diversità esclusivamente alle associazioni Lgbti». Già, perché le amministrazioni precedenti avevano deliberato di entrare nella rete e di affidare all'Arcigay il compito di formare gli studenti friulani sui temi «dell'inclusione sociale, delle pari opportunità e della non discriminazione».
L'opinione della Rosolen è totalmente condivisibile: «Sono in primis le famiglie e poi le istituzioni scolastiche a dover insegnare ai ragazzi il rispetto di ogni tipo di diversità. Famiglie e scuole hanno tutti gli strumenti necessari per farlo. Tra l'altro, la diversità non si limita all'orientamento sessuale». L'azione delle associazioni Lgbti, secondo l'assessore, è un «indebito indottrinamento». Come prevedibile, gli attivisti arcobaleno hanno protestato, e persino il Pd ha parlato di «primo passo verso l'intolleranza».
Qui, però, razzismo e discriminazione non c'entrano proprio nulla. Per quale motivo un'istituzione pubblica dovrebbe affidare compiti educativi ad organizzazioni con evidenti scopi politici? Senza contare, tra l'altro, che l'ideologia Lgbti ormai è capillarmente diffusa. Basti guardare quanti libri e film trattano l'argomento, sempre dalla stessa prospettiva. A breve, per dire, sarà disponibile anche in Italia la serie Netflix Alex Strangelove, una specie di inno alla «fluidità sessuale». Se dai media mainstream arrivano di continuo messaggio di questo tipo, perché pure la scuola dovrebbe riproporre l'indottrinamento?
Anche il Comune di Sesto San Giovanni, l'anno scorso, ha deciso di uscire da Re.a.dy. Sarebbe interessante che altre amministrazioni di centrodestra (ad esempio quella che guida la Liguria) seguissero l'esempio. Si tratterebbe di un atto concreto e potente contro il pensiero unico.
Francesco Borgonovo
Il botteghino si tinge di arcobaleno
Viva le donne, anzi no. Mentre Michela Murgia, ultima giapponese del femminismo, continua la sua campagna solitaria contro la mancanza di firme femminili in prima pagina nei principali giornali italiani, Natalia Aspesi in prima pagina su Repubblica ci finisce, ma per scrivere questo: «Escono quasi contemporaneamente in questi giorni una serie di film dove le donne non hanno alcun ruolo se non quello di moglie abbandonata, mamma o nonna. Oppure amica. Oppure innamorata clandestina. Oppure non si sa».
Contrordine, compagne: l'assenza di donne ora è un segno di progresso. A patto che gli uomini che restano siano un po' fru fru. Il pensiero unico funziona così, vittima grande scaccia vittima piccola: la donna scaccia l'uomo, il gay scaccia la donna, il trans scaccia il gay, il trans nero scaccia il trans bianco, e così via, con l'unico soggetto destinato a ricevere solo contumelie identificato nel maschio bianco eterosessuale. La Aspesi festeggia l'uscita nelle sale di una serie di pellicole a tema gay o gender. A cominciare da Favola, l'adattamento cinematografico dello spettacolo teatrale Favola. C'era una volta una bambina, e dico c'era perché ora non c'è più, scritto e interpretato dall'attore Filippo Timi. Al centro del film, una casalinga dalla sessualità incerta nei cotonati anni Cinquanta. Ma non solo: c'è The happy prince, sugli ultimi amori del vecchio Oscar Wilde, c'è L' arte della fuga, sui dilemmi amorosi di un giovanotto francese di buona famiglia, c'è La terra di Dio, sulla relazione tra un contadino inglese e uno rumeno, c'è Sposami, stupido!, su uno studente extracomunitario che sposa un amico maschio. E così via. Il cinema parla di amori omosex, evviva, il progresso è salvo.
E se per raggiungere questo traguardo di civiltà abbiamo dovuto relegare le donne fuori dalla trama, o nei panni di comprimarie stereotipate, beh, allora si tratterà di danni collaterali nel trionfo dell'ideologia occidentale. Aspesi, comunque, è raggiante: «Le cinestorie omosessuali non sono più un genere, ma si ritrovano in ogni genere, storico, sofisticato, rustico, drammatico, comico, melò». Una volta il cinema a trama gay doveva essere ben recensito per ragioni politiche. Oggi, invece, «finalmente si può dire “è una porcheria", sia pure con una certa prudenza difensiva», assicura la giornalista. Lo spirito del tempo è talmente avanzato che la giornalista di Repubblica può persino reclamare la visione di un po' di carne nuda. «Non si vuole essere pecorecci, ma certamente la natica dovrebbe essere un must in storie tra maschi (e non solo)». Immaginate un paludato editoriale su un giornalone liberal che si lamentasse di un film in cui le forme della protagonista femminile siano troppo nascoste: l'intero circuito mondiale del Me too si trasferirebbe sotto la redazione. In tutto questo delirio zeppo di cortocircuiti e contraddizioni, resta se non altro una logica conseguenza da trarre che ha un sapore rassicurante: se i film che hanno per protagonisti gli omosessuali sono usciti dal circuito del cinema di nicchia, se sono per tutti, se queste pellicole sono ormai entrate nel circuito della normalità, allora questo significa che la nostra società è «progredita», quindi l'eterno allarme sull'omofobia montante può serenamente rientrare. Non tutto il male vien per nuocere.
Adriano Scianca
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La Regione guidata da Massimiliano Fedriga decide di uscire dalla rete Re.a.dy, che vincola le pubbliche amministrazioni alle associazioni gay. Un modo efficace per rifiutare il pensiero unico. L'assessore Alessia Rosolen: «Non accettiamo l'indottrinamento».Intanto, i cinema d'Italia si riempiono di pellicole omosex. Da Favola a L'arte della fuga, il grande schermo celebra gli amori tra uomini.Lo speciale contiene due articoliDalle nostre parti domina un equivoco che merita di essere sciolto. Ovvero l'idea che rispettare le persone omosessuali significhi accettare ogni richiesta proveniente dalle associazioni Lgbti. Tendiamo a confondere il diritto di uomini e donne a non essere maltrattati o discriminati con le pretese di organizzazioni che hanno precisi obiettivi politici e che seguono una ideologia non solo discutibile, ma probabilmente nemmeno rappresentativa dell'intero universo gay. Tale sovrapposizione è pericolosa, e fornisce alle varie associazioni un notevole potere di ricatto: «Non fai quello che chiediamo? Allora sei omofobo». Guardiamo che cosa è accaduto a Chiara Appendino. Il sindaco di Torino non può certo essere accusato di omofobia, anzi, nelle scorse settimane è diventato il paladino del fronte Lgbti. Ha guidato la ribellione dei Comuni italiani che intendono registrare i bimbi di coppie gay come figli di due madri o due padri, ha persino scavalcato la legge sull'utero in affitto. Eppure, agli attivisti arcobaleno non basta. Nei giorni scorsi, l'Appendino ha firmato un protocollo d'intesa con il governatore di San Pietroburgo, Georgy Poltavchenko. Un accordo importante, per altro in controtendenza rispetto alle solite paranoie antirusse che dominano dalle nostre parti. Ebbene, ai leader gay la cosa non è andata giù. Secondo Alessandro Battaglia, coordinatore del Torino pride, l'accordo con i russi è «oltremodo offensivo: come è noto la Russia del presidente Putin è tra le nazioni più omo-transfobiche e il governatore Georgy Poltavchenko è colui che non perse un solo secondo, nel 2012, nel firmare una orrenda legge contro la cosiddetta “propaganda gay"». Battaglia, ovviamente, invita il sindaco torinese a «riconsiderare questa scelta» e a schierarsi nettamente «contro l'omo-transfobia». Curioso: la Appendino si è esposta come nessuno mai per accontentare le associazioni, ma dopo un paio di settimane già le sventolano sotto il naso lo spauracchio dell'omofobia. Il ricatto funziona sempre nello stesso modo: se non si offrono prebende alle associazioni arcobaleno, ecco che scatta l'accusa. Ne sa qualcosa un'altra pentastellata, ovvero Virginia Raggi. Il sindaco di Roma, in queste ore, subisce il fuoco di fila di una marea di associazioni che la accusano di non avere iscritto all'anagrafe la figlia di una coppia lesbica, probabilmente nata all'estero. In realtà, il Comune di Roma, settimane fa, ha registrato il figlio di due gay nato in Canada da madre surrogata. Può anche darsi che, nel caso delle due lesbiche, l'amministrazione stia solo prendendo tempo, trattandosi di una questione complessa e non proprio in linea con le leggi vigenti. Ma poco importa: per gli attivisti arcobaleno, l'infrazione è già diventata regola. Non chiedono, pretendono che la Raggi li accontenti e firmi subito le pratiche agognate dalle due mamme. Le intimano di non «negare, ancora una volta, i diritti dei più deboli: i bambini», come ha detto Sebastiano Secci, portavoce del Roma Pride, quasi che davvero ci fossero in gioco i bisogni dei più piccoli e non i desideri delle mamme. Fortuna che, nel nostro Paese, c'è un'istituzione decisa a sottrarsi al ricatto, in totale controtendenza rispetto al resto d'Italia. È la Regione Friuli Venezia Giulia governata dal leghista Massimiliano Fedriga, fresco di vittoria alle elezioni. L'amministrazione regionale ha deliberato di uscire da Re.a.dy, la Rete nazionale delle pubbliche amministrazioni anti discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere. Re.a.dy è nata nel 2006 per volontà del Comune di Roma e di quello di Torino. Ne fanno parte numerosi Comuni, Province e Regioni italiane, i quali hanno firmato una carta di intenti impegnandosi a «promuovere sul piano locale politiche che sappiano rispondere ai bisogni delle persone Lgbti, contribuendo a migliorarne la qualità della vita e creando un clima sociale di rispetto e di confronto libero da pregiudizi». L'intento politico di questa rete è evidente e dichiarato, visto che Re.a.dy vuole battersi per «il riconoscimento dei diritti delle persone Lgbt nei confronti del governo centrale, sulla base delle numerose affermazioni contenute nelle risoluzioni e nei trattati dell'Unione europea». Attualmente, del network arcobaleno fanno parte 118 soggetti, di cui otto Regioni: Abruzzo, Campania, Emilia Romagna, Lazio, Liguria, Marche, Puglia e Toscana. Fino all'altro giorno, c'era pure il Friuli Venezia Giulia, ma l'assessore alla Famiglia, Alessia Rosolen, ha deciso di tirarsi fuori. «La nostra decisione», spiega alla Verità, «nasce dalla discriminazione che è stata fatta quando si è deciso di affidare l'educazione al rispetto della diversità esclusivamente alle associazioni Lgbti». Già, perché le amministrazioni precedenti avevano deliberato di entrare nella rete e di affidare all'Arcigay il compito di formare gli studenti friulani sui temi «dell'inclusione sociale, delle pari opportunità e della non discriminazione». L'opinione della Rosolen è totalmente condivisibile: «Sono in primis le famiglie e poi le istituzioni scolastiche a dover insegnare ai ragazzi il rispetto di ogni tipo di diversità. Famiglie e scuole hanno tutti gli strumenti necessari per farlo. Tra l'altro, la diversità non si limita all'orientamento sessuale». L'azione delle associazioni Lgbti, secondo l'assessore, è un «indebito indottrinamento». Come prevedibile, gli attivisti arcobaleno hanno protestato, e persino il Pd ha parlato di «primo passo verso l'intolleranza». Qui, però, razzismo e discriminazione non c'entrano proprio nulla. Per quale motivo un'istituzione pubblica dovrebbe affidare compiti educativi ad organizzazioni con evidenti scopi politici? Senza contare, tra l'altro, che l'ideologia Lgbti ormai è capillarmente diffusa. Basti guardare quanti libri e film trattano l'argomento, sempre dalla stessa prospettiva. A breve, per dire, sarà disponibile anche in Italia la serie Netflix Alex Strangelove, una specie di inno alla «fluidità sessuale». Se dai media mainstream arrivano di continuo messaggio di questo tipo, perché pure la scuola dovrebbe riproporre l'indottrinamento? Anche il Comune di Sesto San Giovanni, l'anno scorso, ha deciso di uscire da Re.a.dy. Sarebbe interessante che altre amministrazioni di centrodestra (ad esempio quella che guida la Liguria) seguissero l'esempio. Si tratterebbe di un atto concreto e potente contro il pensiero unico. Francesco Borgonovo<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ready-friuli-2573977343.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-botteghino-si-tinge-di-arcobaleno" data-post-id="2573977343" data-published-at="1765406197" data-use-pagination="False"> Il botteghino si tinge di arcobaleno Viva le donne, anzi no. Mentre Michela Murgia, ultima giapponese del femminismo, continua la sua campagna solitaria contro la mancanza di firme femminili in prima pagina nei principali giornali italiani, Natalia Aspesi in prima pagina su Repubblica ci finisce, ma per scrivere questo: «Escono quasi contemporaneamente in questi giorni una serie di film dove le donne non hanno alcun ruolo se non quello di moglie abbandonata, mamma o nonna. Oppure amica. Oppure innamorata clandestina. Oppure non si sa». Contrordine, compagne: l'assenza di donne ora è un segno di progresso. A patto che gli uomini che restano siano un po' fru fru. Il pensiero unico funziona così, vittima grande scaccia vittima piccola: la donna scaccia l'uomo, il gay scaccia la donna, il trans scaccia il gay, il trans nero scaccia il trans bianco, e così via, con l'unico soggetto destinato a ricevere solo contumelie identificato nel maschio bianco eterosessuale. La Aspesi festeggia l'uscita nelle sale di una serie di pellicole a tema gay o gender. A cominciare da Favola, l'adattamento cinematografico dello spettacolo teatrale Favola. C'era una volta una bambina, e dico c'era perché ora non c'è più, scritto e interpretato dall'attore Filippo Timi. Al centro del film, una casalinga dalla sessualità incerta nei cotonati anni Cinquanta. Ma non solo: c'è The happy prince, sugli ultimi amori del vecchio Oscar Wilde, c'è L' arte della fuga, sui dilemmi amorosi di un giovanotto francese di buona famiglia, c'è La terra di Dio, sulla relazione tra un contadino inglese e uno rumeno, c'è Sposami, stupido!, su uno studente extracomunitario che sposa un amico maschio. E così via. Il cinema parla di amori omosex, evviva, il progresso è salvo. E se per raggiungere questo traguardo di civiltà abbiamo dovuto relegare le donne fuori dalla trama, o nei panni di comprimarie stereotipate, beh, allora si tratterà di danni collaterali nel trionfo dell'ideologia occidentale. Aspesi, comunque, è raggiante: «Le cinestorie omosessuali non sono più un genere, ma si ritrovano in ogni genere, storico, sofisticato, rustico, drammatico, comico, melò». Una volta il cinema a trama gay doveva essere ben recensito per ragioni politiche. Oggi, invece, «finalmente si può dire “è una porcheria", sia pure con una certa prudenza difensiva», assicura la giornalista. Lo spirito del tempo è talmente avanzato che la giornalista di Repubblica può persino reclamare la visione di un po' di carne nuda. «Non si vuole essere pecorecci, ma certamente la natica dovrebbe essere un must in storie tra maschi (e non solo)». Immaginate un paludato editoriale su un giornalone liberal che si lamentasse di un film in cui le forme della protagonista femminile siano troppo nascoste: l'intero circuito mondiale del Me too si trasferirebbe sotto la redazione. In tutto questo delirio zeppo di cortocircuiti e contraddizioni, resta se non altro una logica conseguenza da trarre che ha un sapore rassicurante: se i film che hanno per protagonisti gli omosessuali sono usciti dal circuito del cinema di nicchia, se sono per tutti, se queste pellicole sono ormai entrate nel circuito della normalità, allora questo significa che la nostra società è «progredita», quindi l'eterno allarme sull'omofobia montante può serenamente rientrare. Non tutto il male vien per nuocere. Adriano Scianca
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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