
Il gesto di Simeone sconvolge i perbenisti, che gli danno del «troglodita» e invocano una squalifica. Di certo il mister dell'Atletico è stato inelegante, ma chi pretende di imporre la parità di genere nel pallone è un illuso: sarà sempre il gioco della tribù maschile.«Quel troglodita di Simeone», scrive Fabrizio Bocca su Repubblica, in riferimento all'esultanza particolarmente esuberante del tecnico dell'Atletico Madrid, che dopo il primo gol alla Juventus nel match di mercoledì sera si è girato verso la sua tribuna e ha portato le mani a Sud dell'Equatore, a indicare, in modo un filino didascalico, los huevos, gli attributi. Perché si vince con la tecnica, con la tattica, con la preparazione atletica. Ma anche con il coraggio, la determinazione, la cattiveria, la tenacia. In una parola: con le palle. Messaggio peraltro candidamente ribadito nel dopo partita, quando l'allenatore argentino ha spiegato: «Per vincere servono gli attributi. E io li ho». Un concetto compatto, liscio, privo di chiaroscuri, apparentemente ignaro del Me too, del neofemminismo, dei boldrinismi globali. Si capisce che Repubblica l'abbia presa male. Perché Simeone è un grande tecnico, certo, «però uno che festeggia in quel modo così volgare un gol fatto dai suoi giocatori è anche un troglodita maleducato che dovrebbe essere squalificato pesantemente», ha tuonato Bocca, aggiungendo che l'allenatore «meriterebbe un daspo per volgarità e antisportività. È giusto che la partita di ritorno se la veda dalla tribuna. E sarebbe già tanto». Le frustate anti maschiliste, purtroppo, sembra siano momentaneamente illegali. Intendiamoci: pare improbabile che la performance di Simeone possa valergli l'invito a corte per prendere il tè con la regina Sofia. Né corrisponde al vero che chiunque sieda in panchina sia necessariamente chiamato a una falloforia in mondovisione. Il dirimpettaio di Simeone di mercoledì sera, Massimiliano Allegri, è difficile immaginarselo mentre espone la mercanzia alla tribuna. E lo stesso vale per un Pep Guardiola, un Zinedine Zidane, un Arsène Wenger, un Ernesto Valverde, un Carlo Ancelotti. E lo stesso José Mourinho, pure maestro della provocazione, è sempre stato troppo pieno di sé per sventolare sotto al naso delle platee ciò che hanno tutti (i testicoli) anziché ciò che ha solo lui e pochi altri (i trofei). Insomma, elegante, Simeone, proprio non lo è stato. Si poteva evitare? Magari sì. Ma guai a ritenere che l'argomento impugnato dal tecnico non abbia a che fare con il calcio. Con il calcio come sport, ma soprattutto come rituale della tribù maschile, appunto. La rozza, infantile, caciarona tribù maschile. E i bambini che guardano? Beh, forse è giusto che imparino che nella vita situazioni diverse richiedono registri diversi. Anche perché il calcio, facciamola finita per una volta con questa eterna ipocrisia, non è il luogo delle fantomatiche «famiglie» che andrebbero riportate allo stadio. Al contrario, è il luogo di un'iniziazione patrilineare. «Di padre in figlio», come recitava quella bellissima coreografia della curva Nord della Lazio, in cui si vedeva un genitore allacciare le scarpe al suo piccolo baby tifoso. E qui arriviamo all'affaire Collovati, che poi è un affaire Simeone espresso in parole anziché mimato. L'ex campione del mondo, va detto, ha espresso un concetto giusto con parole sbagliate, come ha spiegato Giancarlo Dotto sul Corriere dello Sport: «Una donna, ma diciamola femmina, che parla di calcio, non mi rivolta lo stomaco, smette di esistere l'attimo stesso in cui lo fa. Ma non perché sia inadeguata e blateri sfondoni, come insinua maldestro Collovati. Smette di esistere, al contrario, quanto più è adeguata, quando ne parla in modo credibile e ti sorprendi a pensare “Toh, è più brava di Beppe Bergomi". Lì mi diventa insopportabile. Arrivo a detestarla, per quanto si sottrae al dovere estetico ed etico della differenza, precipitando nell'aberrazione della citazione maschile». Non è un caso se, quando si pronuncia una volgarità in pubblico, si chiede «scusa alle signore», per poi venire accusati di profferire «battute da spogliatoio» o «da caserma», ovvero i due luoghi in cui gli uomini stanno da soli fra loro. La donna è custode delle buone maniere e in quanto tale civilizza l'uomo. Il quale, però, fa sempre resistenza a questa forza, perché deve mantenere un qualche legame con quello che Claudio Risé chiama «il selvatico». Un uomo solamente selvatico, uno che non può fare a meno di mostrare gli attributi, sempre e comunque, diventa certamente un mostro. Ma uno che taglia le radici con quella dimensione è uno zombie. «Trogloditi», dice Repubblica. Il termine viene da trògle, caverna, e dùo, «penetrare in un luogo». Noi siamo usciti dalle caverne tanto tempo fa. E questo è un bene, ovviamente. Ma ogni tanto dobbiamo rientrarci, per trovare qualcosa di noi stessi che non può andare perduto per compiacere i rieducatori del femminismo paranoico.
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