2019-12-02
«Prodi al Colle? No, quel posto ora spetta al centrodestra»
Il direttore del tg di La 7 Enrico Mentana: «Se la sinistra ha a cuore il bene di tutti, dimentichi il Quirinale. Tocca a un galantuomo dell'altra parte. Il Pd? Senza idee. E Renzi è una forza minore».Direttore Enrico Mentana, orientarsi è sempre più complicato. Nel governo è caos permanente, su tutti i fronti. Se l'aspettava, dopo tre mesi soltanto?«Sì, perché abbiamo di fronte un governo nato da convenienza e necessità. Con l'urgenza di togliere di mezzo l'alternativa peggiore per chi lo sostiene, vale a dire il voto». Da qui il matrimonio forzato tra Luigi di Maio e Nicola Zingaretti? «Ricordate la canzone di Adriano Celentano, Storia d'amore? Ecco, Matteo Salvini può rivolgersi a Zingaretti con quelle parole: “L'hai sposata sapendo che lei moriva per me…"».E quanto durerà la liason?«Anche i matrimoni di interesse possono durare. Ma è impossibile fare previsioni, anche perché Salvini, Di Maio e il Pd hanno detto tutto e il contrario di tutto. Se ci soffermiamo sulle liti quotidiane viene da pensare che tutto debba crollare domani. Se osserviamo il nervosismo di Salvini, invece…».Si riferisce allo scontro tra lui e il premier, sulla questione del fondo salva Stati?«Uno spettacolo un po' triste, da una parte e dall'altra. Per carità, Salvini ha preso di mira Giuseppe Conte fin dal primo giorno, ed è pur vero che un presidente del Consiglio dovrebbe tenere la misura, senza rispondere come fosse una rissa da bar. Ma è incredibile che le tre entità che pochi mesi fa hanno gestito insieme la partita internazionale, si ritrovino adesso su posizioni così diverse. Anche quello, probabilmente, non era un matrimonio d'amore».Conte ha barattato la riforma del Mes con la permanenza a Palazzo Chigi?«Per fare una cosa del genere bisogna essere dei geni del male. E di Conte si possono dire tante cose, ma non questo. Certo, un avvocato sconosciuto si è trovato improvvisamente accanto ai potenti, e su questo ho notato in lui un certo compiacimento. Ma da qui a dire che ci abbia svenduto…».Nel merito delle trattative sul fondo salva Stati, i giochi sono fatti?«Non è detto. Abbiamo il vizio di pensare al nostro Paese come l'Italietta che non conta nulla, ma restiamo una delle maggiori potenze industriali dell'Unione europea. Mi colpisce invece la situazione paradossale del Partito democratico». Cioè?«Il paradosso sta nel fatto che il Mes, varato con il governo gialloblù, venga difeso dall'unico partito che era all'opposizione, cioè il Pd. Il quale adesso si ritrova col cerino in mano. Ma del resto sono saltati tutti i ruoli. E noi giornalisti spassionati dovremmo riconoscerlo chiaramente: qua sono tutti in fuorigioco».Nella telenovela sentimental-politica degli ultimi tempi, c'è chi prefigura un ritorno di fiamma tra Salvini e Di Maio. Plausibile? «Il problema è che, come accade in ogni soap che si rispetti, è entrata in scena una terza figura piuttosto esigente. Vi do qualche indizio: si chiama Giorgia, è una donna, è italiana, ed è cristiana» . (Ride)La presenza di Giorgia Meloni esclude colpi di testa salviniani?«È impensabile che la Lega faccia un passo senza Fratelli d'Italia. Meloni marca a uomo Salvini. E poi che interesse ha Di Maio a mettere in piedi il terzo governo in due anni?».Eppure ultimamente Di Maio e Salvini insistono sugli stessi argomenti. «Il capo politico dei 5 stelle ha sempre pensato che la maggioranza degli italiani non sia di sinistra, e s'interessi dei temi cari al sovranismo. Non c'è un avvicinamento tra i due, ma solo una più accesa competizione per il consenso». Dunque il centrodestra a tre punte è una formula irrinunciabile?«In caso di elezioni, la Meloni per Salvini è un partner indispensabile. A lei è legata anche l'alleanza con Silvio Berlusconi, che pur depotenziato nei numeri, all'occorrenza è un valido passepartout negli ambienti europei. Quindi non ha senso pensare a un perimetro di centrodestra differente a livello nazionale. È stato possibile un anno e mezzo fa, ma stavolta i patti saranno siglati prima del voto. E l'unica clausola sarà questa: ci si muove tutti insieme». Intanto Matteo Renzi accusa i magistrati che stanno indagando sulla sua fondazione. E parla di «avvertimento».«Su questo tipo di inchieste sono sempre molto cauto. Non dico nulla su questo, come non ho mai detto una parola sui 49 milioni della Lega. Il garantismo è una cosa seria».I guai giudiziari di Renzi minano la stabilità del governo? «Renzi avrà certamente un fianco scoperto, e questa inchiesta lo rallenterà, vediamo per quanto. Ma la scena politica non cambia per via di questa brutta vicenda».Questo vuol dire che Renzi non è più decisivo?«Lo è stato per far nascere il governo, ma in questa fase non lo è più: è una forza minore. Adesso il governo si regge soprattutto sull'asse 5 stelle e Pd. Sono loro che si guardano in faccia. Lo possiamo intuire anche nelle residue speranze, nel Pd, di trovare un patto purchessia per il voto in Emilia Romagna».Davvero questo esecutivo nasce sulla necessità di scegliere il candidato «giusto» per il Quirinale, sottraendolo alla disponibilità del centrodestra? «No, in realtà il primo obiettivo era quello di fare le nomine, anche se nessuno lo dice. Però questa storia del Quirinale penso sia il vero punto debole del centrosinistra».Cioè?«Da ormai 20 anni il problema della sinistra sembra quello della presidenza della Repubblica, interpretata come contrappeso rispetto a una presunta preponderanza del centrodestra nel Paese. In primo luogo, questo atteggiamento mi sembra una confessione di minorità».E in secondo luogo?«Per me è inconcepibile che, sempre per il bene delle istituzioni democratiche, il presidente della Repubblica debba essere sempre di centrosinistra. Scalfaro-Ciampi-Napolitano-Napolitano bis-Mattarella: il filotto degli ultimi decenni è davvero insensato». Quindi l'eventuale arrivo di Romano Prodi al Quirinale suonerebbe come un sequestro delle istituzioni?«Prodi, come Sergio Mattarella, farebbe gli interessi di tutti. Ma la domanda è un'altra: perché non dire “chi se ne importa"? Perché non scegliere insieme un presidente che magari sia anche un galantuomo di centrodestra? Se metà degli italiani votano centrodestra, perché non può esserlo il capo dello Stato? E lo dice uno che non vota da tanti anni, e non ha mai scelto quel versante».C'è chi sostiene che, lasciando al centrodestra il Quirinale, il sistema democratico s'imbarbarirebbe. «Non sto dicendo di mettere il sindaco di Schio al Quirinale, quello che non voleva le pietre d'inciampo per ricordare le vittime dell'Olocausto. Ci sono personalità di centrodestra che possono ricoprire egregiamente quel ruolo. Se si sfatasse questo sortilegio, faremmo il bene di tutti».Renzi incontra gli emiri. Beppe Grillo incontra i cinesi. Salvini incontra i russi. Che succede: la politica estera si è ridotta a business?«Ma è così da quando è crollato il Muro. Siamo entrati in una fase mercantile della politica estera. Il problema è che noi, contando poco, procediamo in ordine sparso».O, come nel caso di Hong Kong, non procediamo affatto?«Siamo forse il Paese al mondo che più fa finta di non vedere ciò che accade a Hong Kong. Da una parte c'è la richiesta di democrazia, dall'altra la repressione: da che parte stiamo? Vedo ovunque una sana afasia a riguardo».È finito il secolo delle idee veicolate dai partiti? «I partiti ormai non parlano di futuro: amministrano il presente e le sue pulsioni. In Italia la forza che, nel bene e nel male, ha rappresentato la “politica", contrapposta all'“antipolitica", era il Partito democratico. Ma oggi nessuno conosce le idee del Pd: è come se avesse finito il repertorio. Ieri era il partito degli ultimi, oggi dei centri storici. Dov'è finita la sua anima?». Forse in piazza con il popolo delle sardine? «Le sardine rappresentano una volontà di partecipazione e di contrapposizione al sovranismo. Ma non sappiamo ancora se sono un semplice “format" della mobilitazione di una certa parte, come lo furono in passato i girotondi, o se invece sono qualcosa che sposta il perimetro. È presto per dirlo». Nell'epoca della disintermediazione, la tecnologia ha ucciso il giornalismo? «È impensabile che tra 20 anni si vada ancora in edicola per leggere le notizie del giorno prima. Però è pur vero che i popoli, fin dai tempi dei cantastorie, hanno sempre avuto bisogno di mediatori per sapere cosa succede là fuori. Sostenere che “uno vale uno" sulla capacità di informarsi è un'utopia. E l'eterna battaglia sulle nomine Rai lo dimostra». E dunque? «Dunque non sappiamo davvero come potranno evolvere le cose. Per la prima volta il cambiamento della società non dipende dalla politica, ma dalla tecnologia. Possiamo solo sperare che resista la democrazia, la quale tuttavia resta un emblema del Novecento. Da ragazzi ridevamo delle persone che parlavano antiquato, li definivamo “ottocenteschi". Adesso, invece, i “novecenteschi" siamo noi. E dobbiamo accettarlo».
L'ex amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel (Imagoeconomica)