2019-03-30
Brutta aria in Medioriente, l'Iran vuole allargarsi in Iraq
True
Ansa
Come riporta la testata The National Interest, uno degli strumenti adottati da Teheran per rafforzarsi in Iraq a spese degli americani è costituito da alcuni gruppi paramilitari sciiti locali. Gruppi che, almeno in certi casi, appaiono sempre più legati alle strutture del governo, oltre che ai parlamentari iracheni maggiormente ostili alla presenza statunitense sul territorio. Presenza che - ricordiamolo - è iniziata nel 2014, ai tempi di Barack Obama, per contrastare le forze dell'Isis nella regione. Presenza che vede attualmente circa cinquemila soldati statunitensi di stanza in Iraq. Sigle come Asa'ib Ahl al-Haq e Harakat Hezbollah al-Nujaba - storicamente finanziate e addestrate da Teheran - stanno chiedendo da diversi mesi un passo indietro degli americani dal territorio iracheno. Anche Kata'ib Hezbollah, un altro gruppo di combattenti appoggiato dall'Iran, ha minacciato che i propri miliziani intraprenderanno azioni contro le truppe americane, se il governo di Baghdad e il parlamento iracheno non si decideranno a espellere le forze straniere dal Paese.
Washington, dal canto suo, non dorme sonni troppo tranquilli, essendo consapevole di come Teheran sia riuscita efficacemente ad usare la lotta allo Stato Islamico per consolidare la propria influenza in Iraq. Una situazione che lo Zio Sam non sembra troppo disposto ad accettare. E - non a caso - poche settimane fa, il Dipartimento del Tesoro americano ha comminato delle sanzioni proprio a Harakat Hezbollah al-Nujaba. Per tutta risposta, l'organizzazione paramilitare ha replicato auspicando un fronte comune contro Stati Uniti e Israele, che - nelle sue intenzioni - dovrebbe estendersi dalla Sira all'Iraq, passando per il Libano. Una linea dura, insomma, che ha il principale obiettivo di rafforzare i legami tra l'Iran e i parlamentari iracheni, per cercare di mettere Washington all'angolo.
In questo parapiglia, la posizione ufficiale dell'Iraq resta per il momento relativamente ambivalente. All'American University of Iraq, all'inizio di marzo, il presidente iracheno Barham Salih ha espresso preoccupazione per come le tensioni tra Stati Uniti e Iran possano comportare delle ripercussioni spiacevoli per il proprio Paese. Ha voluto poi evidenziare che le truppe americane si trovano in Iraq con il principale obiettivo di addestrare le forze irachene a combattere il terrorismo, chiarendo tuttavia al contempo che non ci siano basi permanenti statunitensi sul territorio e che non dovrebbero esserci altre azioni da parte delle forze americane. In particolare, non va dimenticato che - lo scorso febbraio - Salih si sia mostrato non poco infastidito per le affermazioni di Donald Trump, secondo cui gli americani dovrebbero restare in territorio iracheno per tenere d'occhio l'Iran. Insomma, pur evitando di prendere eccessivamente le distanze da Washington, Baghdad sembra stia diventando sempre più insofferente verso la presenza statunitense in casa propria. Tutto questo, mentre i rapporti con Teheran tendono a irrobustirsi.
Non a caso, in occasione della visita di Rohani, il ministro degli esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, ha dichiarato: «Abbiamo buoni legami con l'Iraq. È nostro vicino e gli Stati Uniti non sono in grado di fermare i loro legami bilaterali». Senza poi trascurare che - sempre in questo contesto - Teheran e Baghdad abbiano siglato una serie di accordi commerciali preliminari inerenti ai più disparati settori (dal petrolio ai trasporti, passando per la sanità). In particolare, queste intese fanno parte di una più complessiva strategia della Repubblica Islamica per cercare di tutelare la propria economia, dopo il ritorno delle sanzioni statunitensi dovute all'uscita di Washington dall'accordo sul nucleare l'anno scorso. Del resto, già a novembre del 2018 Rohani aveva affermato di voler incrementare il volume degli scambi commerciali con Baghdad, passando dagli attuali dodici miliardi di dollari all'importante soglia dei venti miliardi. In quest'ottica, non va dimenticato che tali relazioni piuttosto amichevoli tra i due Paesi non siano esattamente una novità. Dopo la fine, nel 1988, della sanguinosa guerra che li vide contrapposti, Iraq e Iran hanno iniziato un progressivo processo di avvicinamento diplomatico e commerciale. Non soltanto Teheran si oppose all'invasione irachena del 2003, condotta dagli Stati Uniti. Ma ha anche effettuato massicci investimenti nella ricostruzione postbellica, incrementando inoltre le relazioni ad alti livelli.
Per il momento, non è chiaro in che modo concretamente Baghdad cercherà di allontanare gli americani dal proprio territorio. Al di là dei suddetti gruppi paramilitari filoiraniani, è maggiormente possibile che a prendere l'iniziativa possano essere alcuni settori del parlamento iracheno. Il punto è che Washington non resterà prevedibilmente a guardare. Se infatti Donald Trump ha sempre mostrato una certa propensione al disimpegno nell'area mediorientale, ampie porzioni dell'establishment americano la pensano in maniera diametralmente opposta. Un indebolimento della posizione statunitense in Iraq, implicando un consolidamento dell'Iran, produrrebbe vantaggi per la Russia, che aumenterebbe così la propria influenza sulla regione. In secondo luogo, l'Iraq rappresenta per lo Zio Sam un'area fondamentale per preservare il proprio ruolo in Siria. Se - anche in questo caso - è vero che Trump stia cercando in tutti i modi di abbandonare definitivamente lo scenario siriano, è altrettanto evidente che il Pentagono non sembri troppo accondiscendente verso la sua idea. Ragion per cui, mantenere un'influenza su Baghdad risulta di vitale importanza. In questo senso, Washington sta cercando di muoversi in due direzioni: puntare sulla necessità che l'Iraq ancora ha dei propri investimenti e cercare di spingere questa nazione a rinsaldare relazioni commerciali con Paesi "amici" (a partire dall'Arabia Saudita).
Nell'ambito di questo complicato quadro, è abbastanza probabile che l'Iraq eviterà di schierarsi troppo nettamente tra i due Stati rivali. Perché, almeno nel breve termine, la linea più conveniente per Baghdad potrebbe rivelarsi proprio la strategia del pendolo.
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Sembra proprio che l'Iran sia sempre più deciso a ridurre l'influenza statunitense in Iraq. Durante una visita di tre giorni a Baghdad compiuta poche settimane fa, il presidente iraniano, Hassan Rohani, ha cercato di rafforzare i legami tra i due Paesi con l'evidente obiettivo di estendere l'ombrello della Repubblica Islamica sul territorio iracheno. Una linea ambiziosa, cui Washington guarda con non poca preoccupazione, perché teme di vedere la propria influenza mediorientale ulteriormente ridotta. Del resto, già da qualche tempo Rohani sembra intenzionato a muoversi in questa direzione. E lo sta facendo attraverso svariate strategie.Come riporta la testata The National Interest, uno degli strumenti adottati da Teheran per rafforzarsi in Iraq a spese degli americani è costituito da alcuni gruppi paramilitari sciiti locali. Gruppi che, almeno in certi casi, appaiono sempre più legati alle strutture del governo, oltre che ai parlamentari iracheni maggiormente ostili alla presenza statunitense sul territorio. Presenza che - ricordiamolo - è iniziata nel 2014, ai tempi di Barack Obama, per contrastare le forze dell'Isis nella regione. Presenza che vede attualmente circa cinquemila soldati statunitensi di stanza in Iraq. Sigle come Asa'ib Ahl al-Haq e Harakat Hezbollah al-Nujaba - storicamente finanziate e addestrate da Teheran - stanno chiedendo da diversi mesi un passo indietro degli americani dal territorio iracheno. Anche Kata'ib Hezbollah, un altro gruppo di combattenti appoggiato dall'Iran, ha minacciato che i propri miliziani intraprenderanno azioni contro le truppe americane, se il governo di Baghdad e il parlamento iracheno non si decideranno a espellere le forze straniere dal Paese.Washington, dal canto suo, non dorme sonni troppo tranquilli, essendo consapevole di come Teheran sia riuscita efficacemente ad usare la lotta allo Stato Islamico per consolidare la propria influenza in Iraq. Una situazione che lo Zio Sam non sembra troppo disposto ad accettare. E - non a caso - poche settimane fa, il Dipartimento del Tesoro americano ha comminato delle sanzioni proprio a Harakat Hezbollah al-Nujaba. Per tutta risposta, l'organizzazione paramilitare ha replicato auspicando un fronte comune contro Stati Uniti e Israele, che - nelle sue intenzioni - dovrebbe estendersi dalla Sira all'Iraq, passando per il Libano. Una linea dura, insomma, che ha il principale obiettivo di rafforzare i legami tra l'Iran e i parlamentari iracheni, per cercare di mettere Washington all'angolo.In questo parapiglia, la posizione ufficiale dell'Iraq resta per il momento relativamente ambivalente. All'American University of Iraq, all'inizio di marzo, il presidente iracheno Barham Salih ha espresso preoccupazione per come le tensioni tra Stati Uniti e Iran possano comportare delle ripercussioni spiacevoli per il proprio Paese. Ha voluto poi evidenziare che le truppe americane si trovano in Iraq con il principale obiettivo di addestrare le forze irachene a combattere il terrorismo, chiarendo tuttavia al contempo che non ci siano basi permanenti statunitensi sul territorio e che non dovrebbero esserci altre azioni da parte delle forze americane. In particolare, non va dimenticato che - lo scorso febbraio - Salih si sia mostrato non poco infastidito per le affermazioni di Donald Trump, secondo cui gli americani dovrebbero restare in territorio iracheno per tenere d'occhio l'Iran. Insomma, pur evitando di prendere eccessivamente le distanze da Washington, Baghdad sembra stia diventando sempre più insofferente verso la presenza statunitense in casa propria. Tutto questo, mentre i rapporti con Teheran tendono a irrobustirsi.Non a caso, in occasione della visita di Rohani, il ministro degli esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, ha dichiarato: «Abbiamo buoni legami con l'Iraq. È nostro vicino e gli Stati Uniti non sono in grado di fermare i loro legami bilaterali». Senza poi trascurare che - sempre in questo contesto - Teheran e Baghdad abbiano siglato una serie di accordi commerciali preliminari inerenti ai più disparati settori (dal petrolio ai trasporti, passando per la sanità). In particolare, queste intese fanno parte di una più complessiva strategia della Repubblica Islamica per cercare di tutelare la propria economia, dopo il ritorno delle sanzioni statunitensi dovute all'uscita di Washington dall'accordo sul nucleare l'anno scorso. Del resto, già a novembre del 2018 Rohani aveva affermato di voler incrementare il volume degli scambi commerciali con Baghdad, passando dagli attuali dodici miliardi di dollari all'importante soglia dei venti miliardi. In quest'ottica, non va dimenticato che tali relazioni piuttosto amichevoli tra i due Paesi non siano esattamente una novità. Dopo la fine, nel 1988, della sanguinosa guerra che li vide contrapposti, Iraq e Iran hanno iniziato un progressivo processo di avvicinamento diplomatico e commerciale. Non soltanto Teheran si oppose all'invasione irachena del 2003, condotta dagli Stati Uniti. Ma ha anche effettuato massicci investimenti nella ricostruzione postbellica, incrementando inoltre le relazioni ad alti livelli.Per il momento, non è chiaro in che modo concretamente Baghdad cercherà di allontanare gli americani dal proprio territorio. Al di là dei suddetti gruppi paramilitari filoiraniani, è maggiormente possibile che a prendere l'iniziativa possano essere alcuni settori del parlamento iracheno. Il punto è che Washington non resterà prevedibilmente a guardare. Se infatti Donald Trump ha sempre mostrato una certa propensione al disimpegno nell'area mediorientale, ampie porzioni dell'establishment americano la pensano in maniera diametralmente opposta. Un indebolimento della posizione statunitense in Iraq, implicando un consolidamento dell'Iran, produrrebbe vantaggi per la Russia, che aumenterebbe così la propria influenza sulla regione. In secondo luogo, l'Iraq rappresenta per lo Zio Sam un'area fondamentale per preservare il proprio ruolo in Siria. Se - anche in questo caso - è vero che Trump stia cercando in tutti i modi di abbandonare definitivamente lo scenario siriano, è altrettanto evidente che il Pentagono non sembri troppo accondiscendente verso la sua idea. Ragion per cui, mantenere un'influenza su Baghdad risulta di vitale importanza. In questo senso, Washington sta cercando di muoversi in due direzioni: puntare sulla necessità che l'Iraq ancora ha dei propri investimenti e cercare di spingere questa nazione a rinsaldare relazioni commerciali con Paesi "amici" (a partire dall'Arabia Saudita).Nell'ambito di questo complicato quadro, è abbastanza probabile che l'Iraq eviterà di schierarsi troppo nettamente tra i due Stati rivali. Perché, almeno nel breve termine, la linea più conveniente per Baghdad potrebbe rivelarsi proprio la strategia del pendolo.
MR. BRAINWASH, Banksy thrower, opera unica su carta, 2022
Contrariamente a quanto si possa pensare, la street art, così straordinariamente attuale e rivoluzionaria, affonda le sue radici negli albori della storia: si può dire che parta dalle incisioni rupestri (i graffiti primitivi sono temi ricorrenti in molti street artist contemporanei) e millenni dopo, passando per le pitture murali medievali, i murales politici del dopoguerra e il « muralismo » messicano di Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, approdi nella New York ( o meglio, nel suo sottosuolo…) di fine anni ’60, dove tag, firme e strani simboli si moltiplicano sui treni e sui muri delle metropolitane, espressione di quella nuova forma d’arte che prende il nome di writing, quell’arte urbana che è la «parente più prossima » della street art, meno simbolica e più figurativa.
E quando si parla di street art, il primo nome che viene in mente è in assoluto quello di Banksy, la figura più enigmatica della scena artistica contemporanea, che ha fatto del mistero la sua cifra espressiva. Banksy è «l‘ artista che non c’è » ma che lascia ovunque il segno del suo passaggio, con una comunicazione che si muove con intelligenza tra arte e media: i suoi profili social sono il primo canale di diffusione e le sue opere, spesso realizzate con stencil (una maschera normografica su cui viene applicata una vernice, così da ottenere un'immagine sullo spazio retrostante), sono interventi rapidi nello spazio urbano, capaci di coniugare arte e messaggio politico. Quella di Bansky è un’arte clandestina, quasi abusiva, fulminea, che compare dal nulla un po’ovunque, in primis sui grandi scenari di guerra, dal muro che divide Israele e Palestina ai palazzi bombardati in Ucraina. Le sue immagini, dall’iconica Balloon Girl (la ragazzina con un palloncino rosso a forma di cuore) ai soldati che disegnano il segno della pace, dai bambini con maschere antigas, alle ragazzine che abbracciano armi da guerra, sono ironiche e dissacranti, a volte disturbanti, ma lanciano sempre messaggi politici e chiare invettive contro i potenti del mondo.
Ed è proprio il misterioso artista (forse) di Bristol il fulcro della mostra a Conegliano, curata da Daniel Buso e organizzata da ARTIKA in collaborazione con Deodato Arte e la suggestiva cittadina veneta.
La Mostra, Keith Haring e Obey
Ricca di 80 opere, con focus sulla figura di Bansky ( particolarmente significativa la sua Kids on Guns, un'opera del 2013 che rappresenta due bambini stilizzati in cima a una montagna di armi, simbolo della lotta contro la violenza), la mostra si articola attorno a quattro grandi temi - ribellione, pacifismo, consumismo e critica al sistema – ed ospita, oltre all’enigmatico artista britannico, altri due guru della street art: Keith Haring e Shepard Fairey, in arte Obey.
Convinto che «l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi: l’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare» Haring (morto prematuramente nel 1990, a soli 32 anni, stroncato dall’AIDS) ha creato un nuovo linguaggio comunicativo caratterizzato da tematiche legate alla politica e alla società, facendo degli omini stilizzati e del segno grafico nero i suoi tratti distintivi; Fairey, in arte Obey, attualmente uno degli street artist più importanti ( e discussi) al mondo, si è fin da subito reso conto di come la società in cui è nato e cresciuto lo abbia condotto all’obbedienza senza che lui se ne rendesse conto: da qui la scelta di chiamarsi Obey , che significa obbedire.
Bansky, Haring , Obey, praticamente la storia della street art racchiusa in una mostra che non è solo un'esposizione di opere d'arte, ma anche un'occasione per riflettere sulle contraddizioni di questo oramai popolarissimo movimento artistico e sul suo ruolo nella società contemporanea. Alla domanda se un’arte nata per contestare il sistema possa oggi essere esposta nei musei, venduta all’asta e diventare oggetto di mercato, non vengono offerte risposte, ma contributi per stimolare una riflessione personale in ogni visitatore. Perché, in fondo, anche questa è la forza della Street Art: porre questioni più che dare certezze...
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Da sx in alto: americani della 92ª Divisione, alpini della Divisione «Monterosa», paracadutisti tedeschi e la frazione di Sommocolonia oggi. Garfagnana, 26 dicembre 1944
La battaglia della Garfagnana, nota come Operazione «Wintergewitter» (tempesta invernale) fu l’ultima controffensiva delle forze dell’Asse sul fronte italiano. Iniziò la notte tra Natale e Santo Stefano del 1944 per terminare tre giorni più tardi. L’obiettivo, pur presentando scarse se non nulle possibilità di raggiungerlo, era quello di arrestare l’avanzata alleata lungo il fronte della linea Gotica allora in stallo per l’inverno rallentando l’avanzata degli angloamericani che puntavano verso Bologna e la Pianura Padana. Il teatro delle operazioni fu la valle del Serchio nella Garfagnana, in provincia di Lucca, dove gli americani del 92° Infantry Regiment, i famosi «Buffalo Soldiers» a maggioranza afroamericana, si erano acquartierati nei giorni precedenti al Natale, ritenendo le ostilità in pausa. L’effetto sorpresa era proprio il punto cardine dell’operazione pianificata dal comando tedesco guidato dal generale Otto Fretter-Pico. Le forze dell’Asse consistevano sostanzialmente di reparti da montagna, i «Gebirgsjaeger» tedeschi e gli alpini italiani della Divisione «Monterosa», uno dei primi reparti addestrati in Germania dopo la nascita della Repubblica Sociale. L’attacco fu fissato per la mezzanotte, tra il 25 e il 26 dicembre e procedette speditamente. I reparti speciali tedeschi e gli alpini iniziarono una manovra di accerchiamento da Montebono per Bobbio, Tiglio e Pian di Coreglia, mentre un reparto leggero prendeva in poche ore Sommocolonia. Contemporaneamente tutti i reparti si muovono, compreso un nucleo del Battaglione «San Marco», che in poco tempo occupava Molazzana. Entro la sera di Santo Stefano la linea dei Buffalo Soldiers era sfondata, mentre i reparti americani arretravano in massa. I prigionieri erano circa 250, mentre numerose armi e munizioni venivano requisite. Anche vettovaglie e generi di conforto cadevano nelle mani degli attaccanti.
Gli americani praticamente non reagirono, ma si spostarono in massa verso la linea difensiva di Bagni di Lucca. Per un breve tempo sembrò (soprattutto agli italiani, mentre i tedeschi sembravano paghi della riuscita sorpresa) che il fronte potesse cedere fino in Versilia e verso Livorno. L’ordine di Fretter-Pico di arrestare l’avanzata fu una doccia fredda. Le ragioni dell'arresto risiedevano principalmente nella difficoltà di mantenere le posizioni, la scarsità ormai cronica di uomini e munizioni (c’era solo l’artiglieria, nessun carro armato e soprattutto nessun supporto dall’Aviazione, praticamente sparita dai cieli del Nord Italia). Gli americani invece avevano il dominio assoluto del cielo, con i cacciabombardieri che potevano decollare dai vicini aeroporti della Toscana occupata, come quelli di Grosseto e Rosignano. Tra il 27 e il 30 dicembre 1944 i P-47 Thunderbolt dell’Usaf bombardarono a tappeto, mietendo vittime soprattutto tra la popolazione civile. La linea difensiva dell’Asse ritornò nei giorni successivi alle posizioni di partenza, mentre il fronte si assestava fino all’inizio del febbraio 1945 quando gli alleati lanciarono l’operazione «Fourth Term», che portò in pochi giorni alla conquista della Garfagnana. Durante l’operazione «Wintergewitter» lo scontro più violento si verificò nell’abitato di Sommocolonia dove la guarnigione americana perse quasi tutti gli uomini, compreso il proprio comandante tenente John R. Fox che, vistosi ormai circondato dai tedeschi, chiese all’artiglieria della 92ª di sparare sull’abitato nel tentativo disperato di rallentare l’attacco a sorpresa. Morì sotto le macerie della sua postazione e solamente nel 1997 fu insignito della medaglia d’onore.
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Lee Raybon avrebbe ambizioni da detective. Non da investigatore tout court. Piuttosto, vorrebbe essere un reporter, di quelli capaci - forti solo delle proprie risorse - di portare a termine indagini e inchieste, di dar forma alle notizie prima ancora che queste vengano diffuse dalle autorità competenti.
L'ambizione, tuttavia, è rimasta tale, nel corso di un'esistenza che ha costretto Raybon a ripiegare su altro per il mero sostentamento. Si è reinventato libraio, Lee Raybon, gestendo di giorno un negozio di libri rari. La notte, però, ha continuato a seguire il cuore, dando spazio alle sue indagini scalcagnate. Qualcuna è riuscito a trasformarla in articolo di giornale, venendola alle pagine di cronaca locale di Tulsa, città che ospita il racconto. E sono i pezzi ritagliati, insieme ai libri ormai giallognoli, ad affollare l'apportamento di Raybon, che la moglie ha mollato su due piedi, quando ben ha realizzato che non ci sarebbe stato spazio per altro nella vita di quell'uomo. Raybon, dunque, è rimasto solo. Non solo come il crime, per lo più, ha raccontato i suoi detective. Non è, cioè, una solitudine disperata, quella di Raybon. Non c'è tristezza né emarginazione. C'è passione, invece: quella per un mestiere cui anche la figlia dell'uomo sembra guardare con grande interesse.
Francis, benché quattordicenne, ha sviluppato per il secondo mestiere del padre una curiosità quasi morbosa, in nome della quale ha cominciato a seguirlo in ogni dove, partecipando lei pure alle indagini. Cosa, questa, che si ostina a fare anche quando la situazione diventa insolitamente complicata. Lee Raybon ha messo nel mirino i Washberg, una tra le famiglie più potenti di Tulsa. Ma uno di loro, Dale, si è tolto la vita, quando l'articolo di Raybon sulle faccende losche della dinastia è stato pubblicato su carta. Perché, però? Quali segreti nascondo i Washberg? Le domande muovono la nuova indagine di Raybon, la sostanziano. E, attorno alla ricerca di risposte, si dipana The Lowdon, riuscendo a bilanciare l'irrequietezza del suo protagonista, il suo cinismo, con il racconto di una dinamica familiare di solito estranea al genere crime.
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