
Continuano le polemiche sulle frasi pronunciate da Matteo Salvini sulle straniere che interrompono la gravidanza. Ma un autorevole studio dimostra che il leghista non ha tutti i torti: «Per molte è il principale metodo di contraccezione e non suscita sentimenti di colpa».A distanza di parecchi giorni, sulla Rete continuano a bruciare le polemiche intorno alla frase pronunciata da Matteo Salvini sull'aborto. Il capo della Lega ci andò giù pesante: «Abbiamo avuto segnalazione che alcune donne, né di Roma né di Milano, si sono presentate per la sesta volta al pronto soccorso di Milano per l'interruzione di gravidanza», disse. «Non è compito mio né dello Stato dare lezioni di morale, è giusto che sia la donna a scegliere per sé e per la sua vita, ma non puoi arrivare a prendere il pronto soccorso come la soluzione a uno stile di vita incivile». Come prevedibile, Salvini è stato accusato di essere uno sciacallo, un fautore del ritorno al Medioevo, un nemico dei diritti delle donne. Eppure ciò che il leghista ha detto in modo forse un po' ruvido non è poi così distante dalla realtà, anzi. Per rendersene conto basta dare uno sguardo a un corposo volume appena pubblicato da Raffaello Cortina Editore e intitolato Il culto del feto. Come è cambiata l'immagine della maternità. Lo firma Alessandra Piontelli, psichiatra, neurologa e psicoanalista che ha insegnato a lungo nel Regno Unito e ha lavorato presso il dipartimento di Patologia della gravidanza dell'Università degli studi di Milano. Il suo saggio è sostanzialmente dedicato alla concezione del feto che la nostra società ha sviluppato a partire dagli anni Sessanta. Il capitolo forse più interessante, però, è quello intitolato «Gli immigrati e i feti», in cui si esamina l'atteggiamento delle donne straniere nei confronti della gravidanza e dell'aborto. Leggendolo, scopriamo parecchie informazioni interessanti. «Le immigrate abortiscono almeno tre volte di più rispetto alla popolazione locale», spiega la Piontelli. «Queste donne hanno degli atteggiamenti completamente diversi nei confronti dei feti: appena arrivate o arrivate da poco vedono nell'aborto il principale metodo di “contraccezione", che non suscita sentimenti di colpa né traumi o nostalgie». A parlare non è un politico sovranista, ma una studiosa autorevole e stimata. La quale spiega - in modo piuttosto diretto - che le donne straniere hanno nei confronti dei feti un atteggiamento completamente diverso dal nostro. Per lo più disinformate sui metodi di contraccezione, considerano l'interruzione di gravidanza alla stregua di un anticoncezionale. Soprattutto, nonostante provengano da Paesi con tradizioni piuttosto robuste e spesso considerati «arretrati», costoro non si fanno troppi problemi ad abortire. «Le principali motivazioni per scegliere di abortire sono generalmente di carattere economico e il fatto di avere altri figli», prosegue la studiosa. «Molte hanno paura di perdere il lavoro, alcune (poche) non vogliono avere figli, altre non voglio avere più figli, altre ancora, dato che spesso non hanno con sé un marito, hanno paura di quello che parenti e genitori rimasti a casa potrebbero pensare, altre si trovano a vivere un rapporto sentimentale precario e difficile, e infine altre ancora hanno semplicemente paura dato che nel loro Paese di origine le donne muoiono spesso per problemi legati alla gravidanza e al parto». Intendiamoci, non stiamo parlando di persone che si disinteressano alla vita che inizia. «Queste donne non sono insensibili o “disumane"», dice la Piontelli. «Sono madri tenerissime e spesso disposte a qualsiasi sacrificio per i loro figli, ma non ritengono che un feto abbia molta importanza. In gravidanza la maggior parte di loro non si concentra sull'ecografia, a volte non la guarda nemmeno. Si preoccupano invece delle curve di crescita e di altri esami che possono indicare la salute o meno del feto: quello che importa è partorire un bambino sano». Siamo di fronte, dunque, a una differenza culturale rilevante. Le immigrate attribuiscono al feto minore importanza rispetto a noi. E le motivazioni sono abbastanza chiare. «Se queste donne perdono un feto per qualsiasi motivo o se decidono di abortire, magari sono dispiaciute, ma non trasformano un seppur triste evento nel trauma della loro vita. Hanno perso un feto (spontaneamente o meno), non un bambino, e mostrano una mentalità “pratica" rispetto all'evento, non si sognano nemmeno di considerare un feto alla pari di un bambino. La psicologia prenatale, se mai ne hanno sentito parlare, è per loro solo un'altra delle tante strane mode europee. Il numero crescente di immigrate che affollano l'ospedale per abortire indica che il feto è prevalentemente un costrutto sociale». Queste donne spesso provengono da Paesi in cui la mortalità al momento del parto è piuttosto elevata, l'aborto dunque non assume proporzioni drammatiche come da noi. «I feti non vengono idolatrati così come non lo erano fino a non molto tempo fa nei Paesi sviluppati». Non solo: «Le immigrate», spiega la Piontelli, «seguono spesso la cultura di doppiezza e ipocrisia dominante nei loro Paesi (ma non solo), dove l'aborto anche spontaneo viene ufficialmente condannato persino severamente, ma di fatto è ampiamente praticato in condizione di frequente molto pericoloso». Le sudamericane, ad esempio, quasi sempre si dicono contro l'aborto «ma poi abortiscono anche spesso e a volte ripetutamente». Per numerose straniere, «se rimangono incinte quando non vogliono, l'aborto non è un problema». Qui non si tratta di «scelta», di «libertà» o di «diritti». Parliamo di culture diverse per cui, molto spesso, il feto non è un bambino. E l'aborto, anche reiterato, in fondo non è poi così grave.
(Ansa)
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(IStock)
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Antonio Tajani (Ansa)
Alla Triennale di Milano, Azione Contro la Fame ha presentato la Mappa delle emergenze alimentari del mondo, un report che fotografa le crisi più gravi del pianeta. Il ministro Tajani: «Italia in prima linea per garantire il diritto al cibo».
Durante le Giornate Contro la Fame, promosse da Azione Contro la Fame e inaugurate questa mattina alla Triennale di Milano, è stato presentato il report Mappa delle 10 (+3) principali emergenze alimentari globali, un documento che fotografa la drammatica realtà di milioni di persone colpite da fame e malnutrizione in tutto il mondo.
All’evento è intervenuto, con un messaggio, il vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri Antonio Tajani, che ha espresso «gratitudine per il lavoro prezioso svolto da Azione Contro la Fame nelle aree più colpite dalle emergenze alimentari». Il ministro ha ricordato come l’Italia sia «in prima linea nell’assistenza umanitaria», citando gli interventi a Gaza, dove dall’inizio del conflitto sono state inviate 2400 tonnellate di aiuti e trasferiti in Italia duecento bambini per ricevere cure mediche.
Tajani ha definito il messaggio «Fermare la fame è possibile» un obiettivo cruciale, sottolineando che l’insicurezza alimentare «ha raggiunto livelli senza precedenti a causa delle guerre, degli eventi meteorologici estremi, della desertificazione e dell’erosione del suolo». Ha inoltre ricordato che l’Italia è il primo Paese europeo ad aver avviato ricerche per creare piante più resistenti alla siccità e a sostenere progetti di rigenerazione agricola nei Paesi desertici. «Nessuna esitazione nello sforzo per costruire un futuro in cui il diritto al cibo sia garantito a tutti», ha concluso.
Il report elaborato da Azione Contro la Fame, che integra i dati dei rapporti SOFI 2025 e GRFC 2025, individua i dieci Paesi con il maggior numero di persone in condizione di insicurezza alimentare acuta: Nigeria, Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Bangladesh, Etiopia, Yemen, Afghanistan, Pakistan, Myanmar e Siria. In questi Paesi si concentra oltre il 65% della fame acuta globale, pari a 196 milioni di persone. A questi si aggiungono tre contesti considerati a rischio carestia – Gaza, Sud Sudan e Haiti – dove la situazione raggiunge i livelli massimi di gravità.
Dal documento emergono alcuni elementi comuni: la fame si concentra in un numero limitato di Paesi ma cresce in intensità; le cause principali restano i conflitti armati, le crisi climatiche, gli shock economici e la fragilità istituzionale. A complicare il quadro contribuiscono le difficoltà di accesso umanitario e gli attacchi agli operatori, che ostacolano la distribuzione di aiuti salvavita. Nei tredici contesti analizzati, quasi 30 milioni di bambini soffrono di malnutrizione acuta, di cui 8,5 milioni in forma grave.
«Non è il momento di tagliare i finanziamenti: servono risorse e accesso umanitario per non interrompere gli interventi salvavita», ha dichiarato Simone Garroni, direttore di Azione Contro la Fame Italia.
Il report raccoglie anche storie dal campo, come quella di Zuwaira Shehu, madre nigeriana che ha perso cinque figli per mancanza di cibo e cure, o la testimonianza di un residente sfollato nel nord di Gaza, che racconta la perdita della propria casa e dei propri cari.
Nel mese di novembre 2025, alla Camera dei Deputati, sarà presentato l’Atlante della Fame in Italia, realizzato con Percorsi di Secondo Welfare e Istat, che analizzerà l’insicurezza alimentare nel nostro Paese: oltre 1,5 milioni di persone hanno vissuto momenti di scarsità di risorse e quasi 5 milioni non hanno accesso a un’alimentazione adeguata.
Dal 16 ottobre al 31 dicembre partirà infine una campagna nazionale con testimonial come Miriam Candurro, Germano Lanzoni e Giorgio Pasotti, diffusa sui principali media, per sensibilizzare l’opinione pubblica e sostenere la mobilitazione di aziende, fondazioni e cittadini contro la fame nel mondo.
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