In occasione della Relazione sull’attività del 2022, il presidente della Consulta, Silvana Sciarra, ha rilasciato molte dichiarazioni pubbliche e risposto alle domande dei giornalisti. Ha così colto l’occasione per esplicitare la filosofia costituzionale che anima i lavori delle nostre toghe supreme. «Un giorno non lontano», ha detto, «si dovrà fare un bilancio molto puntuale in merito a questa apertura di credito al legislatore che, purtroppo, su temi molto sensibili e socialmente rilevanti, non ha portato sempre a risultati soddisfacenti e rapidi per i cittadini». Frasi chiare, che pongono la Corte sullo stesso piano della politica, con il «piccolo» vantaggio di poter emanare atti non impugnabili, e dunque di avere il coltello decisamente dalla parte del manico rispetto a chi dovrebbe realizzare la sovranità popolare. Questa deriva è l’inevitabile sviluppo di un percorso che nasce da lontano, e cresce con l’idea che le Corti e il potere politico debbano concorrere ad «aggiornare» i valori costituzionali. È l’esatto opposto della concezione «originalista», che vede le toghe come ancorate al testo della Carta, e la cui prerogativa si esercita in un terreno differente da quello politico, e potenzialmente antagonista, come mostra la rabbia di Biden per la sentenza che in America ha cancellato l’aborto come diritto costituzionale: non perché i giudici fossero contro l’aborto, ma perché la Costituzione non lo prevede come diritto. Il confronto tra Antonin Scalia e i predecessori della Sciarra illumina le conseguenze di questa radicale differenza.
Frenata sull’accordo dopo le accuse russe: «Tentato raid ucraino contro casa di Putin»
- Ira di Donald Trump per l’attacco. Kiev nega: «Bugie per minare l’intesa». Sergej Lavrov: «La nostra posizione negoziale cambierà».
- Conquistati, secondo l’esercito, 334 insediamenti in 12 mesi e 700 chilometri quadrati a dicembre.
Lo speciale contiene due articoli
All’indomani dell’incontro vis-à-vis tra il presidente americano, Donald Trump, e l’omologo ucraino, Volodymyr Zelensky, a Mar-a-Lago, sia i diretti protagonisti della guerra che i mediatori americani hanno annunciato che la pace è vicina, nonostante gli importanti nodi irrisolti. Ma si tratta di una visione che è durata poche ore. Si è aggiunto infatti un nuovo elemento che complica ulteriormente il quadro dei negoziati: Mosca ha accusato Kiev di aver lanciato 91 droni, tutti abbattuti, contro la residenza del presidente russo, Vladimir Putin, nella regione di Novgorod. Ne è seguito un botta e risposta tra il Cremlino e l’Ucraina, con Zelensky che ha smentito, sostenendo che si tratti di «tipiche bugie russe» per «avere una giustificazione per continuare gli attacchi contro l’Ucraina» e «per rifiutarsi di compiere i passi necessari per porre fine alla guerra». La conseguenza più rilevante è che, come comunicato dal ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, «la posizione negoziale della Russia sarà rivista». Mosca ha inoltre già scelto i target ucraini «per gli attacchi di rappresaglia». Va però detto che Lavrov ha comunque affermato che Mosca non intende ritirarsi dalle trattative di pace.
Alla notizia del presunto raid ucraino è seguita una nuova telefonata tra Trump e Putin che sarebbe stata «positiva» secondo la portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt. In merito al tentato attacco contro la residenza dello zar, secondo quanto rivelato dal consigliere presidenziale russo, Yurij Ushakov, Trump è rimasto «scioccato e indignato»: «Non mi è piaciuto l’attacco ucraino, me lo ha detto Putin, mi sono arrabbiato», ha dichiarato il tycoon, «Una cosa è essere all’offensiva, un’altra cosa è attaccare la sua casa. Non va bene, non è il momento giusto». Ushakov ha anche precisato che l’episodio «certamente influenzerà l’approccio americano alla collaborazione con Zelensky, al quale l’attuale amministrazione, come ha detto lo stesso Trump, grazie a Dio, non ha dato il Tomahawk». La telefonata tra i due leader è stata anche l’occasione per il presidente americano di informare l’omologo russo sui risultati raggiunti con Zelensky. Ma pare che i progressi ottenuti in Florida non abbiano suscitato una reazione positiva da parte del Cremlino. Ushakov ha infatti dichiarato che nonostante «i risultati vadano proprio nella direzione della risoluzione», «lasciano alle autorità di Kiev un margine di interpretazione per eludere l’adempimento dei propri obblighi». E ha aggiunto che «la parte americana», durante i colloqui con l’Ucraina, «ha avanzato in modo aggressivo l’idea della necessità che Kiev adotti misure concrete per una soluzione definitiva del conflitto», chiedendo «di non nascondersi dietro richieste di un cessate il fuoco temporaneo».
Prima dell’ultimo colpo di scena, il leader di Kiev, dopo l’incontro con il tycoon, ha affermato che «il piano di 20 punti è stato concordato al 90%» e il Cremlino si è mostrato concorde con la visione di Trump, secondo cui le trattative sono nella fase finale.
L’ostacolo sempreverde che impedisce la svolta concreta rimane il nodo territoriale, oltre alla gestione della centrale di Zaporizhzhia. Domenica, il presidente americano, riconoscendo che restano sul tavolo «una o due questioni spinose» da risolvere, ha lanciato di persona l’avvertimento a Zelensky: «Conviene raggiungere un accordo» visto che «alcune terre sono già state prese» da Mosca e altre «potrebbero esserlo nei prossimi mesi. D’altronde, il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha ribadito che la fine della guerra ci sarà solo con il ritiro di Kiev «oltre i confini amministrativi del Donbass». Dall’altra parte il presidente ucraino non ha intenzione di gettare la spugna: in un’intervista rilasciata a Fox News ha dichiarato che «l’85%» del popolo «è contrario al ritiro delle truppe dal Donbass». Eppure, l’opinione degli ucraini cambia in base al luogo in cui vivono: chi si trova nell’Est del Paese è più propenso a scendere a compromessi. A spiegarlo a Rbc-Ukraine è stato il capo del Rating sociological group, Oleksii Antypovych: «Più si va a Ovest e più forte è la resistenza a qualsiasi concessione territoriale; più si va a Est e maggiore è la disponibilità ad accettarle». Ciò è legato alla linea del fronte: chi vive vicino, stremato dalla guerra, è favorevole a cedere i territori pur di vedere la fine delle ostilità.
Se sui territori prosegue lo stallo, i maggiori risultati dell’incontro di domenica tra Trump e Zelensky si sono registrati nell’ambito delle garanzie di sicurezza. A detta del leader ucraino, Kiev e la Casa Bianca sono «d’accordo al 100% sulle garanzie di sicurezza e sulla dimensione militare». Ciononostante, Zelensky non sarebbe pienamente soddisfatto dalla proposta americana. In uno dei documenti inerenti alla pace in Ucraina, Washington si impegna infatti a fornire le garanzie di sicurezza per un periodo di 15 anni che può essere prolungato. Si tratta di un tempo insufficiente per Zelensky, che quindi ha richiesto a Trump la possibilità di estendere le garanzie di sicurezza «di 30, 40 o 50 anni». E nonostante il leader di Kiev abbia ripetuto che «la presenza di truppe internazionali sia una vera garanzia di sicurezza», sembra invece che il progresso più tangibile a tal proposito riguardi l’idea italiana sulle garanzie simili all’articolo 5 della Nato. In quest’ottica, per la prima volta, Kiev ha partecipato all’esercitazione Loyal Dolos 2025 che riguarda i meccanismi proprio dell’articolo 5 dell’Alleanza atlantica. Durante lo svolgimento, sono state integrate le lezioni apprese dalla guerra in Ucraina, con gli esperti di Kiev che sono stati direttamente coinvolti.
Continua l’avanzata di Mosca nel Donbass e a Zaporizhzhia
Le forze russe continuano a spingere lungo più direttrici del fronte ucraino mentre le unità di Kiev arretrano. È il quadro tracciato dal presidente russo Vladimir Putin al termine di una riunione con i vertici militari convocata al Cremlino per fare il punto sull’andamento delle operazioni. Secondo il capo dello Stato, «la liberazione del Lugansk e delle repubbliche popolari di Donetsk, Zaporizhzhia e Kherson procede passo dopo passo», mentre «le forze armate ucraine si stanno ritirando lungo l’intera linea di contatto». Putin ha rivendicato in particolare i progressi del raggruppamento di forze Vostok nella regione di Zaporizhzhia. «Dopo l’attraversamento del fiume Gaichur, le nostre truppe hanno sfondato le difese nemiche e avanzano rapidamente in direzione di Zaporizhzhia», ha affermato, sostenendo che le operazioni si stiano svolgendo «in piena conformità con il piano operativo militare». Il presidente ha inoltre sollecitato i comandi a «contrastare con decisione» ogni tentativo ucraino di interferire sull’asse di Kupyansk, assicurando che «le misure necessarie sono già in atto». Nel corso della stessa riunione, Putin ha ribadito l’intenzione di proseguire anche nel 2026 il lavoro per «allargare la zona di sicurezza» lungo il confine russo-ucraino. «È un compito di fondamentale importanza, perché garantisce la sicurezza delle regioni di confine della Federazione», ha sottolineato, precisando che si tratta di un obiettivo destinato a proseguire nel tempo.
A rafforzare la narrazione del Cremlino è intervenuto il capo di Stato maggiore russo, Valery Gerasimov. Secondo il generale, l’esercito ucraino avrebbe ormai rinunciato a operazioni offensive su larga scala, limitandosi a «tentare di rallentare l’avanzata delle truppe russe». Nell’ultimo anno, ha spiegato, 334 insediamenti sarebbero passati sotto il controllo di Mosca e, nel solo mese di dicembre, oltre 700 chilometri quadrati sarebbero stati «liberati». Nel bilancio complessivo del 2025, Gerasimov ha parlato di 6.640 chilometri quadrati conquistati e di 32 località occupate dall’inizio di dicembre, definendo il dato mensile «il più alto dall’inizio dell’anno». Intanto, la guerra si è fatta sentire anche sul territorio russo. Nella notte sono state segnalate esplosioni in diverse località, attribuite ad attacchi con droni lanciati da Kiev contro obiettivi militari e infrastrutturali. Secondo quanto riferito da media indipendenti, forti detonazioni sono state udite nei pressi della base aerea di Khanskaya, vicino a Maykop, nella Russia meridionale. Sirene antiaeree avrebbero risuonato anche nell’oblast di Tula, mentre un’altra esplosione è stata segnalata nella regione di Krasnodar. Nella regione di Samara, invece, sarebbe stata colpita la raffineria di Syzran. Il ministero della Difesa russo ha dichiarato di aver abbattuto complessivamente 89 droni ucraini nel corso della notte. Sul fronte ucraino, mentre il presidente è impegnato in una delicata missione diplomatica, l’analisi della situazione viene affidata ai vertici dell’apparato di sicurezza. Kyrylo Budanov, capo del Direttorato principale dell’intelligence militare, ha delineato uno scenario che non contempla uno stop immediato del conflitto. Secondo le sue valutazioni, almeno un altro mese di guerra appare inevitabile, senza sostanziali cambiamenti nel copione bellico, segnato nelle ultime 48 ore da intensi raid russi. Febbraio, tuttavia, potrebbe rappresentare una svolta. «È il periodo più favorevole sia per la Russia che per l’Ucraina per ottenere qualcosa», ha spiegato, collegando questa finestra temporale sia all’andamento delle operazioni militari sia al fattore stagionale, con l’inverno ormai verso la fine.
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa del 30 dicembre con Carlo Cambi
- Giorgia Meloni puntava su inizio marzo, ma non c’è accordo con Sergio Mattarella. Ora l’obiettivo è il penultimo week end del mese. I comitati per il No invece vogliono rinviare le urne a maggio per provare a recuperare lo svantaggio.
- Un ordine del giorno di Fdi impegna l’esecutivo a far votare i connazionali in presenza. Antonio Di Pietro, che aveva dato l’allarme, esulta. Oggi voto finale alla Camera sulla manovra.
Lo speciale contiene due articoli
Sulle date del referendum è chiaro scontro. Ancora non aperto, silente piuttosto, ma reso palese dall’esito del consiglio dei ministri di ieri quando si sarebbero dovute stabilire le due date del voto. «Non si è parlato della data per il referendum della giustizia», ha confermato uscendo, il ministro della Protezione civile, Nello Musumeci. L’indecisione non è dovuta a uno scontro interno alla maggioranza, certo, ma tra Palazzo Chigi e il Quirinale. L’esecutivo vorrebbe andare al voto il prima possibile forte di sondaggi che darebbero al sì, 10 punti di distacco sul no. I magistrati, con il loro capo, Sergio Mattarella, che da presidente della Repubblica presiede anche il Csm, vorrebbero prendere tempo per provare a influenzare l’opinione pubblica verso il no, nella migliore delle ipotesi, nella peggiore attendere l’esito di qualche inchiesta che potrebbe portare acqua al loro mulino. Ad ogni modo la scelta dei giorni, che si sarebbe dovuta prendere il 22 dicembre scorso, dovrebbe arrivare a gennaio. Una volta stabilite le date da Palazzo Chigi, il decreto dovrà passare per la firma del Quirinale e da lì devono passare sessanta giorni per andare alle urne. Non meno. Per questo slitta inevitabilmente l’ipotesi di votare il 1° e il 2 marzo come precedentemente ipotizzato.
«Ne parleremo a inizio gennaio, non c’è ancora nessun accordo» ha risposto il vicepremier e leader di Forza Italia Antonio Tajani ai cronisti alla Camera chiarendo: «Bisogna farlo, abbiamo sessanta giorni». In base alla legge 352 del 1970, il referendum dev’essere indetto «entro sessanta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza (della Cassazione, ndr) che lo abbia ammesso». Ma le opposizioni si sono appigliate ad una prassi che prevede che il governo, prima di convocare il voto, debba aspettare tre mesi dalla pubblicazione della legge in Gazzetta ufficiale, avvenuta in questo caso il 30 ottobre. Quindi non prima del 30 gennaio. Più tempo per raccogliere le firme e tentare di far slittare il voto.
Quelli del no, dalle opposizioni ai magistrati, parlano di blitz dell’esecutivo, ma verrebbe da pensare il contrario osservando come si sia messa in moto una vera e propria macchina per impedire che si vada al voto prima di metà aprile. Come scrive lo stesso fattoquotidiano.it «la leva per allungare i tempi e provare a informare e coinvolgere maggiormente l’elettorato è rappresentata da una raccolta firme avviata da un gruppo di 15 cittadini che hanno presentato un nuovo quesito già ammesso dalla Cassazione. Questa novità potrebbe evitare la forzatura a cui sta lavorando il governo. A favore della raccolta firme si sono schierati i principali partiti del centrosinistra. A partire dal Pd che con la sua segretaria Elly Schlein ha invitato i cittadini alla sottoscrizione». I primi sondaggi, effettuati negli ultimi mesi, danno un vantaggio di dieci punti al sì, quindi all’approvazione del provvedimento. Tuttavia gli indecisi sono così tanti (quasi la metà degli aventi diritto al voto) da non poter essere certi del risultato. Insomma tutto può succedere e la sinistra lo sa bene.
Nel frattempo ieri si sono riuniti alla Camera la segretaria del Pd, Elly Schlein, il presidente M5s, Giuseppe Conte, e i leader di Avs Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli proprio per parlare di referendum. All’incontro, guarda caso, ha preso parte anche il presidente del comitato referendario per il no che riunisce giuristi, giudici, avvocati e società civile, Giovanni Bachelet. Se la maggioranza sta pensando a un blitz, la sinistra se non altro sta palesemente lavorando al contro blitz. «Ci mettiamo a disposizione per dare una mano al Comitato nella campagna in cui ci saremo anche noi contro la riforma Nordio. Lavoreremo per coordinare gli sforzi e farli convergere in questi mesi di lavoro. Siamo contenti dell’incontro e molto disponibili a lavorare», il commento di Schlein al termine.
«Mi sembra che si prepari una bella campagna sinfonica di tutti i protagonisti del no, quelli che lo hanno fatto in Parlamento e i cittadini che vogliono difendere le proprie garanzie di “legge uguale per tutti”», così Bachelet. «Il 10 gennaio», aggiunge, «faremo una manifestazione per lanciare l’inizio della campagna elettorale e abbiamo anche lì invitato tutti i partiti del no». Sulla data del referendum, commenta: «Devono scegliere d’intesa il governo e il presidente. Finora non l’hanno fatto, ma io sono fiducioso che verrà fatta una scelta equilibrata». Bonelli ha spiegato che «bisogna avere attenzione sulla partecipazione dei cittadini»
Quello che emerge dai fatti è che da Palazzo Chigi non si intende andare allo scontro, ma allo stesso tempo si vuole evitare di cedere a chi vorrebbe votare a maggio. La trattativa con il Colle non è chiusa, ma serviva rinunciare all’ipotesi 1 e 2 marzo per aprire un dialogo costruttivo. Il governo lo ha fatto, ora spera che entro gennaio si trovi l’accordo per andare al voto il 22 e il 23 marzo. Ma per ora non ci sarebbe alcuna garanzia. Infine va ricordato che il 5 aprile cade la Pasqua. Un bell’impiccio per il voto e per la campagna referendaria.
Una norma contro i brogli all’estero
Una seduta fiume notturna per esaminare tutti gli ordini del giorno, quasi 250, con relativa illustrazione. È l’ultimo atto della legge di bilancio 2026 che avrà il voto finale oggi entro le 13 dopo la fiducia posta dal governo Meloni.
Tra i 95 ordini del giorno del giorno depositati ieri dalla maggioranza nell’aula della Camera c’è anche quello dell’onorevole Andrea Di Giuseppe che punta a modificare le modalità di voto per gli italiani all’estero dopo lo scandalo patronati denunciato alla Procura di Roma. L’esponente di Fdi eletto all’estero aveva denunciato, già tre anni fa, che la regolarità elettorale degli italiani residenti in Centro e Nord America era minacciata dal rischio di brogli elettorali che potrebbero ripetersi anche in occasione del prossimo referendum sulla giustizia. Nel 2022 Di Giuseppe, dopo aver spedito materiale elettorale in modo casuale, aveva scoperto che una buona parte degli iscritti nell’elenco degli italiani residenti all’estero negli Usa, almeno un terzo, era deceduto. Eppure le schede elettorali continuavano a essere spedite e probabilmente intercettate da una o più organizzazioni intenzionate a condizionare il voto per favorire alcuni candidati a scapito di altri. I patronati sarebbero stati coinvolti perché a loro si rivolgerebbero molti italiani desiderosi di votare regolarmente, pagando profumatamente anziché essere assistiti gratuitamente.
L’odg presentato da Di Giuseppe mira ad abolire il voto per corrispondenza e ad impegnare il governo ad istituire le sezioni elettorali presso ambasciate e consolati per consentire ai cittadini di votare in presenza. Ha espresso soddisfazione per questo odg l’ex leader dell’Italia dei valori Antonio Di Pietro: «Questo odg nasce da una specifica richiesta che, con il Comitato Sì Separa, abbiamo fatto all’onorevole Di Giuseppe e ha come obiettivo quello di garantire un voto più trasparente in occasione del prossimo appuntamento referendario». L’ex magistrato infatti aveva denunciato il rischio brogli: «Si stanno già costituendo gruppi di persone, che hanno come riferimento specifici partiti e sindacati, che per controllare il voto preparano le buste contenenti voti espressi all’insaputa dei diretti interessati. Permettendo agli elettori di votare in presenza, con il proprio documento di identità, eviteremmo il rischio di brogli. Ora ci auguriamo che il Parlamento promuova rapidamente un provvedimento ad hoc».
Tornando alla manovra, la terza del governo di centrodestra, con 22,3 miliardi, tra 7,9 miliardi di tagli fiscali e maggiori spese per 14,4 miliardi, punta a tenere insieme tenuta economica, con la seconda riduzione Irpef e gli incentivi alle imprese, ed equilibrio dei conti pubblici aggiungendo anche una ministretta sull’accesso alla pensione. Un testo, dice Fratelli d’Italia, che «coniuga crescita, stabilità ed equità». Per il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti «l’ammontare complessivo, inizialmente pari a 18,7 miliardi, è salito perché con l’ultimo maxiemendamento abbiamo integrato gli stanziamenti per Transizione 5.0, la Zes e sull’adeguamento prezzi». Il ministro leghista ha però precisato: «Quello che vorrei sottolineare è che siamo intervenuti su questioni che sembravano quasi impossibili. La tassazione solo al 5% degli aumenti contrattuali era qualcosa che veniva chiesto da sempre dai sindacati e l’abbiamo fatto peri lavoratori dipendenti con redditi più bassi. La tassazione all’1% dei salari di produttività credo anche che sia sintomatica della direzione verso cui si deve andare. Quindi un bilancio positivo che dimostra come tutto il governo sostiene questa linea che abbiamo impostato tre anni fa».
Siete convinti che la legge tuteli le persone oneste? Beh, vi sbagliate, perché la legge sta dalla parte di ladri e rapinatori, per lo meno se si dà retta a certe sentenze. A Perugia, infatti, la Corte d’appello non ha riconosciuto le aggravanti a carico di un uomo che aveva cercato di sottrarre uno smartphone a una donna, strappandoglielo dalle mani mentre questa era all’interno della sua vettura. Nonostante la colluttazione nata tra il malvivente - che voleva appropriarsi del cellulare - e la vittima, per i giudici non si può parlare di rapina, ma soltanto di furto aggravato e dunque il delinquente è stato condannato alla pena minima di due anni e non a quella dai cinque in su prevista nel caso in cui il tribunale avesse deciso di riqualificare l’accusa.
La faccenda potrà sembrare una sottigliezza da azzeccagarbugli abituati a interpretare codice e norme. Invece si tratta di una questione dirimente, perché sottende un concetto, ovvero che se la donna vittima del tentativo di rubarle il telefono non si fosse opposta, tutto si sarebbe concluso con un semplice furto. Invece la poveretta, mentre era nella sua macchina, ha tentato di reagire, cercando di fermare il fuorilegge, con la conseguente colluttazione. Insomma, colpa della vittima se un banale furto, per quanto aggravato, abbia fatto pensare a una rapina. Se la signora non avesse fatto resistenza le cose sarebbero andate via lisce, cioè con il telefonino nella tasca del farabutto.
A voler seguire il ragionamento dei giudici, l’uomo si è trovato nelle condizioni di dover reagire di fronte a una tizia che non voleva mollare l’osso, pardon, il telefono. Che diamine! Non si fa! Se un ladro cerca di derubarti non ci si deve opporre: si consegna il portafogli senza fiatare, così la posizione del bandito non si aggrava. E se invece qualcuno proprio non ce la fa a non opporsi alla rapina, beh bisogna considerare tra le attenuanti che il ladro è stato indotto a usare la forza da chi non intendeva cedere il maltolto. Insomma, non è colpa sua se poi c’è scappata una colluttazione: fosse stata ferma la vittima, tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi, cioè con il ladro in fuga insieme con il telefonino.
Siete stupiti? Sbagliate. Del resto, non è la stessa filosofia che ha portato alla condanna di un orefice a cui hanno legato la figlia e minacciato la moglie con una pistola? Lo sciagurato ha avuto l’ardire di reagire, perdendo la testa e inseguendo i rapinatori per poi scaricare loro addosso l’arma che teneva nel cassetto del negozio dopo una serie di assalti dei malviventi. I giudici gli hanno appioppato l’omicidio volontario, condannandolo a quasi 15 anni di carcere. In vita sua l’uomo non aveva mai fatto male a una mosca e la sola colpa che gli si poteva attribuire era di essersi sempre fatto gli affari suoi, lavorando come un ciuco. Ma poi, invece di alzare le mani di fronte ai rapinatori che gli puntavano la pistola, al posto di dire ai malviventi: prego, accomodatevi, prendete pure ciò che desiderate, Mario Roggero li ha inseguiti e ha sparato.
Errore, errore grave, anzi gravissimo, che oltre alla pena detentiva gli è già costato quasi 1 milione tra spese legali e risarcimenti, perché i famigliari dei rapinatori ovviamente vanno indennizzati per la perdita dei loro cari. Ai famigliari delle vittime dei malviventi, se ci scappa il morto, vanno poche migliaia di euro, anche perché chi le ha colpite di regola non ha un soldo alla luce del sole. A quelli dei delinquenti invece bisogna concederne centinaia di migliaia.
Se non fosse ormai diventata una frase banale, dopo che il generale Roberto Vannacci ci ha scritto un libro, diremmo che è il mondo al contrario. Dunque, per non scadere nel già detto, diremo che la nostra sta lentamente diventando la Repubblica dei ladri. E, purtroppo, dei giudici.






