2023-09-05
Il Papa ai cattolici cinesi: siate «buoni cittadini» oltre che «buoni cristiani»
Papa Francesco (Getty Images)
Fa discutere l’appello di Francesco ai fedeli che vivono sotto la dittatura comunista. Il chiarimento su Mosca: «Grande Russia? Parlavo di cultura: non cancelliamola».Segnale del nostro ministro italiano. Media di Partito diplomatici sulla decisione.Lo speciale contiene due articoli.Giovedì, su queste colonne, avevamo scritto che il viaggio di papa Francesco in Mongolia avrebbe avuto un significato principalmente geopolitico, legato all’attuale linea filocinese della Santa Sede. E così è effettivamente stato. Innanzitutto, prima di arrivare in Mongolia, il Pontefice aveva inviato un caloroso telegramma al presidente cinese, Xi Jinping. È tuttavia domenica che il Papa ha pronunciato le parole più significative e controverse. «Invio un caloroso saluto al nobile popolo cinese. A tutto il popolo auguro il meglio! E andare avanti, progredire sempre. E ai cattolici cinesi chiedo di essere buoni cristiani e buoni cittadini. Grazie», ha affermato. Una dichiarazione che il Papa ha pronunciato tenendo al suo fianco il vescovo di Hong Kong, Stephen Chow: gesuita, costui si era recato in visita a Pechino in aprile e sta per ricevere lo zucchetto rosso. Chow è oggi una figura centrale nell’ambito dell’accordo sino-vaticano sulla nomina dei vescovi: un’intesa di cui ancora non si conoscono i dettagli e che fu firmata per la prima volta nel settembre 2018, per essere poi rinnovata nel 2020 e nel 2022. Neanche a dirlo, il ministero degli Esteri cinese ha commentato le parole del pontefice e, secondo quanto riferito da Reuters, ha detto che «la Cina ha assunto un atteggiamento positivo nel migliorare le relazioni con il Vaticano». Del resto, fu subito dopo la firma del controverso accordo con Pechino nel 2018 che papa Francesco presentò un Messaggio ai cattolici cinesi e alla Chiesa universale, in cui affermava: «Sul piano civile e politico, i cattolici cinesi siano buoni cittadini, amino pienamente la loro patria e servano il proprio Paese con impegno e onestà, secondo le proprie capacità». Non è d’altronde un mistero che Francesco stia riposizionando geopoliticamente la Santa Sede in senso filocinese. «I rapporti con la Cina sono molto rispettosi. Personalmente ho grande ammirazione per la cultura cinese», ha detto il Papa ieri in aereo. «Credo che dobbiamo andare più avanti nell’aspetto religioso per comprenderci di più, affinché i cittadini non pensino che la Chiesa non accetta la loro cultura e i loro valori e che la Chiesa dipenda da una potenza straniera», ha proseguito. Sempre parlando in aereo, il pontefice è tornato sul suo controverso riferimento alla «Grande Russia» della scorsa settimana, sostenendo a tal proposito di aver voluto fare un discorso di tipo meramente culturale e aggiungendo che «la cultura russa è di una bellezza, di una profondità molto grande e non va cancellata per problemi politici». «Ho detto così ai giovani russi: avete avuto anni politici bui in Russia ma l’eredità sempre è rimasta», ha proseguito. Lascia tuttavia un po’ perplessi che si esortino ad essere «buoni cittadini» dei fedeli che vivono sotto un regime autoritario, guidato dal Partito comunista cinese. Un regime che, per inciso, viola sistematicamente la libertà religiosa: in particolare, anche se non solo, quella dei cattolici. In primo luogo, le autorità di Pechino hanno trasgredito più di una volta l’accordo con la Santa Sede, dimostrandosi quindi inaffidabili. Ad aprile, per esempio, monsignor Joseph Shen Bin si è insediato a Shanghai senza l’approvazione del Vaticano: approvazione che quest’ultimo, messo davanti al fatto compiuto, ha deciso di concedere ex post. Ma non è tutto. Da quando l’accordo è in vigore, la condizione dei cattolici cinesi non è migliorata. Xi porta avanti da anni la politica della «sinicizzazione»: l’indottrinamento, cioè, dei fedeli sulla base dei principi del socialismo. Era inoltre previsto che il primo settembre entrassero in vigore ulteriori restrizioni, per aumentare il controllo del Pcc sulle attività religiose nel Paese. Era invece il 10 agosto, quando Asia News ha riportato che «nelle ultime settimane la Cina ha intensificato la repressione contro le attività dei gruppi religiosi, dalla pastorale ai servizi religiosi». «In questo contesto», ha proseguito, «le croci sono state rimosse, i membri del clero arrestati o tenuti in detenzione amministrativa esclusivamente per aver praticato la loro fede e i luoghi di culto sono stati costretti a sostenere la campagna di sinicizzazione secondo l’ideologia del presidente Xi Jinping». Rilevanti ostacoli sono stati anche posti ai fedeli cinesi che intendevano recarsi in Mongolia per la visita papale. «Una donna cinese della città nordoccidentale di Xi’an, che ha assistito alla messa domenica, ha descritto la difficoltà di effettuare il pellegrinaggio, dicendo che due organizzatori del suo tour erano stati arrestati in Cina», ha riportato Uca News. Inoltre, secondo Crux Now, i pellegrini cinesi recatisi dal Papa in Mongolia rischiano molto in patria. Benedetto XVI, che pure inizialmente aveva tentato di aprire alla Cina, tornò de facto indietro quando si rese conto dei rischi. Nel 2012, il vescovo Giuseppe Yue Fusheng fu ordinato senza mandato pontificio e incorse quindi nella scomunica latae sententiae. Fu lo stesso padre Federico Lombardi a rivelare che, in quel periodo, i rapporti tra Pechino e la Santa Sede non erano sereni. Perché alla fine il nodo è proprio questo. Al netto di tutte le valutazioni diplomatiche, come si può essere contemporaneamente buoni cattolici e buoni cittadini, quando si è sottoposti a un regime comunista che calpesta metodicamente la libertà religiosa? Il sospetto è che l’attuale Ostpolitik vaticana stia mettendo in ombra figure come Joseph Zen, József Mindszenty fino allo stesso Tommaso Becket. Pechino, oggi, è un pericolo per la libertà della Chiesa Cattolica. E questo è un dato di fatto. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/papa-cinesi-siate-buoni-cittadini-2664904038.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="pechino-ingoia-la-messa-di-tajani-e-il-no-alla-nuova-via-della-seta" data-post-id="2664904038" data-published-at="1693857344" data-use-pagination="False"> Pechino ingoia la messa di Tajani e il no alla Nuova via della seta È una missione diplomatica molto delicata quella di Antonio Tajani in Cina. La visita è stata innanzitutto caratterizzata da una presa di posizione significativa da parte del titolare della Farnesina. Tajani si è infatti recato a messa a Pechino. «Appena arrivato in Cina ho voluto partecipare alla messa nella bella cattedrale del Nord a Pechino. Inizio la visita, sottolineando i nostri valori: il dialogo e il rispetto della libertà religiosa sono alla base della nostra civiltà e il fondamento della convivenza pacifica», ha scritto su X. Si è trattato di una mossa indubbiamente coraggiosa, vista la sistematica violazione della libertà religiosa, portata avanti dal Partito comunista cinese.Nel corso della visita, il titolare della Farnesina ha incontrato il ministro del commercio cinese Wang Wentao. «Abbiamo un interscambio in crescita e più di 1.600 imprese italiane nel Paese, la Cina è il primo partner in Asia. Vogliamo esportare ancora di più e rendere sempre più operativo il nostro partenariato economico», ha scritto Tajani su X dopo il faccia a faccia. L’incontro più significativo è tuttavia probabilmente stato quello con il suo omologo Wang Yi. «Anche nel contesto dell’Unione europea, l’Italia è sostenitrice del dialogo con Pechino, come pure di un confronto franco e aperto su principi e valori», ha dichiarato il nostro ministro degli Esteri, secondo cui con Pechino si sta aprendo «una nuova stagione per la nostra cooperazione rafforzata». «Prima della fine dell’anno sarà qui in Cina il ministro della ricerca e università Anna Maria Bernini, come nelle prossime settimane il ministro del turismo Santanché. Poi naturalmente ci sarà il presidente del Consiglio e il prossimo anno il presidente Mattarella, a suggellare questa forte amicizia e collaborazione su temi concreti», ha proseguito Tajani, che con l’omologo ha anche discusso di «sviluppo in Africa» e dell’impegno cinese «a favore di una pace giusta» in Ucraina. «La cooperazione nell’ambito della Nuova via della seta è stata ricca di risultati: negli ultimi cinque anni l’interscambio commerciale tra i due Paesi è arrivato a 80 miliardi di dollari da 50 miliardi. L’export italiano verso la Cina è aumentato del 30%», ha affermato dal canto suo Wang Yi. Il nodo d’altronde è proprio questo. Il governo Meloni si è da subito contraddistinto per una decisa linea atlantista: dal sostegno alla causa di Kiev contro Mosca a una maggiore freddezza nei confronti di Pechino, soprattutto rispetto ai tempi della premiership di Giuseppe Conte. Il governo italiano punta quindi ad uscire dalla Nuova via della seta, senza compromettere eccessivamente i rapporti con la Repubblica popolare. D’altronde, non è un mistero che per i cinesi la Nuova via della seta non sia un progetto esclusivamente economico-commerciale ma che abbia anche (se non soprattutto) una rilevanza sul piano geopolitico. Non a caso, Giorgia Meloni ha rafforzato la sponda sia con gli Stati Uniti sia con l’India, in considerazione di eventuali ritorsioni commerciali da parte del Dragone. Nel frattempo, sembrerebbe che Pechino abbia ormai compreso che l’Italia non rinnoverà il memorandum sulla Nuova via della seta, siglato da Conte nel 2019 sulla scia della strada aperta dal governo Gentiloni nel 2017. Un articolo del Global Times (organo del Partito comunista cinese), datato 3 settembre, sostiene infatti che «il possibile ritiro di Roma dal patto sulla Belt and Road non è una battuta d’arresto fondamentale per i legami Cina-Italia».
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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