2021-03-27
La pandemia non ferma il mercato del venture capital
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La pandemia ha rimescolato le carte e oggi l'Italia può tornare a essere competitiva nel mercato del venture capital. Lo pensa Luigi Capello, ad di LVenture Group, secondo cui, spiega alla Verità, è arrivato il momento di puntare sulla formazione per poter essere competitivi e innovare.LVenture group investe in start up digitali e ne trae profitto quando le vendete. Il 2020 è stato un anno difficile, inoltre il mercato italiano non pare troppo innovativo. Come avete affrontato l'anno in cui la pandemia è iniziata?«La prima parte dell'anno il mondo del venture capital si è bloccato. Però poi sono avvenuti tre fatti che hanno cambiato le sorti del settore. La pandemia è stata una rivoluzione che ha cambiato le persone, ma anche le aziende. Molte società si sono accorte che, oltre alla crisi, c'era anche una opportunità di cambiamento e profitto molto forte. Canali di e-commerce, la food delivery, solo per fare qualche esempio. Dunque, l'interesse per le startup, verso la fine del 2020, è aumentato enormemente. In più, negli anni scorsi, era mancato il denaro. Oggi invece, grazie anche a Cdp e al suo programma da 1,6 miliardi di investimenti in aziende innovative, i fondi ci sono. Grazie a tutto questo, il mondo del venture capital è ripartito a fine 2020 e ora ha ripreso a crescere nei primi mesi del 2021 a tassi di oltre il 50%. Noi stiamo dunque vivendo un boom. I fatturati delle start up, ad eccezione di quelle del turismo, sono in grossa crescita. Certo, non è un momento in cui cantare vittoria perché l'economia del Paese è in ginocchio, ma siamo ottimisti. Nel 2020, abbiamo raccolto 24 milioni di euro per le nostre startup, la stessa somma che abbiamo avuto nel 2019. Certo, noi ci occupiamo di startup business to business che fanno parte di un ecosistema che ci permette di crescere più della media. Poi c'è stato un cambiamento culturale enorme. Oggi se io alzo il telefono e chiamo qualunque azienda italiana, quantomeno mi ascolta. Un anno fa avrei dovuto aspettare mesi».Ci faccia qualche nome di alcune startup di successo su cui avete investito? «Uno dei casi che mi piace raccontare è quello di Insoore, società specializzata nella perizia assicurativa virtuale. Un tempo ci voleva una settimana per mandare il perito che andasse sul posto a verificare il sinistro e poi il danno veniva liquidato dopo due mesi. Oggi, grazie a Insoore, società che è cresciuta enormemente nel 2020, viene mandata una persona e fa la foto. Il perito resta dietro lo schermo a fare le sue valutazioni e nell'arco di una settimana c'è la liquidazione del danno».Quindi quali sono i settori del futuro dal suo punto di vista?«C'è grande interesse per il mondo green e più in generale della sostenibilità, c' poi tutto il mondo della riorganizzazione aziendale, un settore in grande crescita. Poi non ci dimentichiamo del turismo. Appena si riprenderà assisteremo a una grandissima rivoluzione dopo questa crisi. Oggi abbiamo toccato i minimi storici, anche peggiori da quelli dell'11 settembre 2001. Poi c'è il mondo delle big tech, l'utilizzo dell'intelligenza artificiale nelle varie attività».Voi seguite solo aziende italiane?«Noi seguiamo solo aziende nazionali perché vediamo un grande capitale umano sottovalutato e dunque che vale meno perché fino ad oggi non ha avuto molto capitale finanziario. Quello che vogliamo fare noi è unire il capitale umano con quello finanziario. Noi fino ad oggi siamo stati come Meucci e Bell. Meucci aveva l'idea, Bell anche il capitale. Oggi sembra quasi che il telefono lo abbiano inventato gli americani. Noi italiani siamo i numeri uno in termini di competenze e creatività».Quindi noi siamo un Paese competitivo quando si parla di startup? «Certo, assolutamente. Il problema è che fino ad oggi non c'era l'ecosistema. Le idee non bastano. Servono investitori capaci e aziende interessate nell'innovazione. Il problema non sono certo le idee, quelle non mancano».Purtroppo, però l'Italia non è un Paese molto innovativo.«Sono d'accordo. È sotto gli occhi di tutti. Ma è anche vero che la pandemia ha costretto le aziende italiane a guardare avanti. Se oggi parlo con Eni e Enel, per loro l'innovazione è un mantra».Lei mi ha citato due colossi, ma per le piccole imprese è più difficile. O no?«La mentalità è conservativa, è vero. Però noi siamo nel mezzo di una rivoluzione industriale che potrebbe rimescolare le carte. Quest'anno abbiamo fatto passi avanti nel campo dell'innovazione».Questo tema, poi, si lega al mondo del lavoro. Le startup sono nuove opportunità di lavoro, un mercato oggi fermo. «Il problema è che le startup cercano competenze di alto livello che qui da noi non eccedono. Qui da noi c'è un problema di formazione, perché la media è bassa».Ci sarà stata qualche volta in cui l'investimento non è andato bene, invece?«Per fare andare bene l'investimento bisogna lavorare sodo e non è detto che vada a segno. Il tasso di chiusura delle startup è del 30%. La media all'estero è del 50%, di solito, ma l'importante è trovare quella startup che ripaghi anche il resto degli investimenti».