Margaret Court (Ansa)
L’australiana Margaret Court: «I miei connazionali vogliono che il mio nome sparisca».
È donna e, benché nata in una famiglia modesta, è riuscita ad affermarsi come una delle tenniste più vincente di sempre, portandosi a casa 64 prove del Grande Slam: 24 in singolare, 19 in doppio e 21 in doppio misto. Avrebbe insomma tutte le carte in regola - tanto più in tempi in cui l’empowerment femminile attira tanta attenzione culturale e mediatica - per essere indicata a modello delle giovani di tutto il mondo, l’australiana Margaret Court. Eppure la leggendaria campionessa, che oggi ha 83 anni, ai giorni nostri è come dimenticata; di più: è evitata quasi come la peste. Tanto che, quando Oliver Brown del Telegraph ha scelto di dialogarci nei giorni scorsi, lei era quasi incredula: «Sei il primo giornalista ad intervistarmi in questo modo da anni. Gli australiani preferirebbero che il mio nome sparisse». Curiosamente, perfino il mondo del tennis sembra averla rimossa.
Il francese Patrick Mouratoglou, allenatore di Serena Williams, ha liquidato i suoi 24 titoli dello Slam come appartenenti a un’«era diversa», con il tennis ancora amatoriale fino al 1968 e meno giocatori internazionali disposti a viaggiare. Che la Court godesse però pure di molti meno privilegi rispetto alle atlete odierno, appoggiandosi ad alberghi ad una stella e non avendo certo un team di massaggiatori e psicologi, a quanto pare, conta nulla. Il pensiero di Mouratoglou non deve essere solo il suo, dato che la leggendaria tennista non è stata più invitata né al Roland Garros né agli Us Open - tornei che ha vinto cinque volte ciascuno - negli ultimi 15 anni. «Per qualunque altro campione di pedigree simile, un trattamento così sprezzante sarebbe impensabile», osserva Brown. Ed è vero.
Ma come mai Margaret Court è così dimenticata, snobbata, perfino evitata quasi avesse la peste? La sua non più verde età non basta certo a spiegare un simile atteggiamento. Che, come ben sottolinea il Telegraph, ha una radice ben precisa: la sua contrarietà alle rivendicazioni Lgbt - in primo luogo alle nozze gay. Era difatti l’anno 2013 quando l’ex tennista, a proposito del figlio della tennista australiana Casey Dellacqua e della sua compagna Amanda Judd, commentò: «Mi rattrista vedere che questo bambino è apparentemente privato di un padre». Non l’avesse mai detto. Attorno alla vincitrice di 64 Slam s’è creato il gelo. E la cosa è peggiorata quattro anni dopo, quando ha annunciato il boicottaggio di Qantas Airways Limited, la compagnia di bandiera australiana, per via del suo sostegno alla causa arcobaleno. La tennista - diventata, dopo il ritiro, pastore d’una congregazione - ha confidato a Brown anche la sua preoccupazione per l’educazione oggi data ai giovani: «I valori cristiani sono stati eliminati dalle scuole. Alcuni bambini non sanno nemmeno più se sono maschi o femmine. E questo è ciò che mi turba, perché guardo alla mia vita e da giovane ero un maschiaccio».
Quest’indole non ha però mai instillato nella Court nessun dubbio circa la sua identità sessuale: «Giocavo a football e a cricket, e battevo tutti i ragazzi. Ma sapevo comunque che i miei due fratelli erano diversi da me. Ora ci sono bambine che dicono: “Mi sento un ragazzo”». Forte, per questo motivo, la contrarietà della donna alle terapie ormonali sui ragazzi affetti da disforia di genere: «Restano intrappolati nei loro corpi e non possono tornare indietro. Cosa stiamo facendo ai nostri giovani?». Margaret Court è trattata come una reietta in patria così come anche nel mondo dello sport, probabilmente, pure per il suo punto di vista sull’Islam, che ricorda quello di Oriana Fallaci: «Ci sono moschee ovunque in Inghilterra. Pensiamo di non avere nulla di cui preoccuparci? Dobbiamo intervenire presto». Un peccato non sia più ascoltata, una che nonostante l’età è ancora capace di simili colpi di racchetta.
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Riduci
Brigitte Macron (Ansa)
La «prèmiere dame» finisce nella bufera per aver dato delle «str...» a un gruppo di attiviste che contestavano un umorista accusato di violenza sessuale ma poi uscito completamente scagionato. I collettivi non ci stanno: «Ennesimo insulto alle vittime di stupro».
Dopo gli sberloni assestati al marito, Brigitte Macron viene beccata mentre dà delle «brutte stronze» a un gruppetto di femministe e ancora una volta l’irruenza della prèmiere dame diventa virale. La consorte del presidente francese, che a maggio era stata immortalata mentre appioppava uno schiaffo a Emmanuel Macron pochi istanti prima di scendere dall’aereo ad Hanoi con una scena diventata tormentone (era davvero un ceffone o si trattava di un buffetto?), sta dividendo il popolo d’Oltralpe tra critiche feroci e apprezzamenti per la sua franchezza.
Questi i fatti. Sabato sera, alcune attiviste del collettivo femminista NousToutes, indossando maschere con l’immagine dell’umorista Ary Abittan avevano interrotto lo spettacolo dell’attore nel locale parigino Folies Bergère, scandendo lo slogan «Abittan stupratore». L’interprete cinquantunenne di film come Non sposate le mie figlie o Liberté, egalité, fraternité, nel 2021 era stato accusato da una giovane di 23 anni che allora frequentava di averla costretto ad avere rapporti sessuali non consensuali. Scomparso dalla scena pubblica, nell’aprile del 2024 Abittan aveva ottenuto l’archiviazione delle accuse, sentenza di non luogo a precedere confermata a gennaio di quest’anno. Per la Corte d’Appello di Parigi, dopo un’indagine durata oltre tre anni mancavano «prove serie o coerenti». Le testimonianze delle ex fidanzate lo avevano descritto come «un partner rispettoso», e le valutazioni psichiatriche e psicologiche escludevano «una sessualità deviante o impulsi sessuali aggressivi».
Certo, nulla esclude che la sera oggetto dell’accusa l’attore sia stato davvero violento, ma un tribunale ha archiviato il caso. Alle femministe poco importa, ritengono Abittan uno stupratore e da quando ha ripreso a recitare a ogni suo spettacolo inscenano proteste, chiedendo che le sue esibizioni vengano cancellate. Così è accaduto anche sabato scorso per Authentique, evento così presentato: «A 50 anni, tra paternità, amore e resilienza, Ary rivela le sue riflessioni sulle relazioni e sull’infanzia, intrecciando abilmente risate e momenti di autentica emozione».
Domenica sera, la signora Macron è andata a vedere lo spettacolo con la figlia Tiphaine Auziere e ha parlato con Abittan prima che salisse sul palco, secondo un video pubblicato lunedì dal sito di gossip Public e poi cancellato. Le immagini, riprese dai social, mostrano la moglie del presidente nel backstage mentre si avvicina sorridendo all’umorista e gli chiede: «Allora come stai?». «Ho paura», risponde lui. «Paura di che cosa?», ribatte madame. «Di tutto». «Se ci sono delle brutte stronze le sbatteremo fuori», lo rassicura Brigitte Macron ridendo. «Dici?», fa lui. «Soprattutto banditi mascherati», aggiunge la prèmiere dame.
Apriti cielo. Su Instagram, dove ha ripreso il video, il collettivo NousToutes scrive che «il sostegno pubblico a un uomo in un caso così inquietante sia un segnale disastroso inviato alle vittime di abusi sessuali». «Denunciamo l’ampia comunicazione volta a posizionarlo come individuo traumatizzato, umiliando e disprezzando la vittima», prosegue il post. «Denunciamo gli auditorium che fanno un tappeto rosso agli uomini accusati di stupro, normalizzazione della violenza sessista e sessuale. È un insulto pubblico alle vittime. Vittime vi crediamo, stupratori non vi perdoneremo!». Un’attivista che ha preso parte all’azione e ha usato lo pseudonimo di Gwen ha affermato che il collettivo è rimasto «profondamente scioccato e scandalizzato» dal linguaggio della signora Macron. «È l’ennesimo insulto alle vittime e ai gruppi femministi», ha affermato. Abittan resta colpevole per le femministe francesi e la moglie del presidente l’avrebbe fatta grossa, prendendo le sue difese. Inutilmente il team della first lady ha affermato che la critica era solo per il «metodo radicale» di protesta del collettivo che «indossando maschere, ha interrotto lo spettacolo sabato sera per impedire all’artista di esibirsi».
Però le critiche si sono rapidamente spostate sul piano politico. «Abbiamo iniziato con i diritti delle donne come “grande causa del mandato quinquennale”, e stiamo finendo con gli insulti», ha dichiarato su X Manon Aubry, eurodeputata di France Unbowed, la sinistra radicale. «È ora che la coppia Macron se ne vada». L’ex presidente francese, Francois Hollande, ai microfoni di radio Rtl, ha rimproverato la signora di essersi espressa con «volgarità». Ha detto: «Ci possono essere forme di protesta che ci urtano. Ma bisogna provare, quando si ha una funzione, una responsabilità, una presenza, di cercare la pacificazione e non ricercare l’escalation verbale». Per poi aggiungere che però «in Francia non esiste uno statuto di première dame. È libera, madame Macron, di dire ciò che pensa».
Brigitte, che già deve difendersi da anni dalle maldicenze che la vogliono uomo, travestito, addirittura padre dei suoi tre figli avuti dal primo marito André-Louis Auzière, adesso deve spiegare che non era sua intenzione prendere le difese di uno stupratore. Judith Godrèche, l’attrice francese che ha chiesto un’indagine sugli abusi sessuali nel cinema francese, è intervenuta su Instagram per criticarla. «Anch’io sono una stupida stronza. E sostengo tutti gli altri», ha scritto.
Il deputato del Rassemblement National, Jean-Philippe Tanguy, afferma invece che i commenti della moglie del presidente sono stati pronunciati in privato e «rubati». L’Eliseo, intanto, cerca di tamponare: la consorte del presidente «non sta in alcun modo attaccando una causa», fa sapere.
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Riduci
Cpr in Albania (Getty)
Aumenta il numero delle nazioni in cui si potranno mandare gli stranieri irregolari che arrivano in Italia. Il modello Albania adesso può diventare realtà. Sara Kelany (Fdi): «Si tratta di una vittoria del governo Meloni».
I nuovi regolamenti sull’immigrazione approvati l’altro ieri a Bruxelles dal Consiglio europeo Giustizia e Affari Interni avranno effetti positivi anche sui centri di Gjader e Shengjin in Albania che tanto hanno fatto discutere in questi ultimi mesi. Il primo regolamento riguarda la lista europea dei Paesi considerati sicuri, un elenco valido per tutti e che comporta che le domande di asilo verranno trattate in modo uniforme in tutti i Paesi europei. La lista comprende Bangladesh, Colombia, Egitto, India, Kosovo, Marocco e Tunisia oltre ai Paesi candidati all’adesione all’Ue, ovvero Albania, Bosnia ed Erzegovina, Georgia, Macedonia del Nord, Moldavia, Montenegro, Serbia e Turchia.
Grazie alle nuove procedure gli Stati membri potranno distinguere subito i casi più meritevoli di protezione internazionale da quelli manifestamente infondati. Vengono considerati sicuri anche Paesi che pur garantendo nel complesso la sicurezza ai propri cittadini presentano alcune circoscritte situazioni di criticità: Egitto e Bangladesh tra gli altri, ovvero i Paesi di provenienza dei migranti i cui trasferimenti in Albania sono stati bocciati da alcune decisioni della magistratura (in seguito a queste decisioni, le strutture ora sono state trasformate in Centri per i rimpatri, come quelli che sorgono in Italia).
In secondo luogo, il nuovo concetto di Paese sicuro permetterà di esaminare una domanda di protezione non necessariamente nello Stato membro di primo ingresso, ma in un Paese terzo dove il richiedente possa ottenere protezione effettiva in condizioni sicure, nel pieno rispetto dei diritti fondamentali: anche questo caso riguarda le strutture di Gjader e Shengjin. Il concetto di Paese terzo sicuro verrà applicato se esiste un accordo o un’intesa con un Paese extra-Ue che garantisca l’esame nel merito delle domande di asilo presentate da parte dei richiedenti interessati dall’accordo o intesa (questa possibilità non riguarda i minori non accompagnati). È prevista inoltre la possibilità di effettuare rimpatri anche verso Paesi terzi diversi da quelli di origine, e di utilizzare i return hub non solo come punti di arrivo ma anche come punti di transito. È stato inoltre evitato che fosse introdotto l’effetto sospensivo automatico delle decisioni di rimpatrio in caso di ricorso. La prossima settimana a Strasburgo inizieranno i triloghi, ovvero le interlocuzioni tra Parlamento europeo, Commissione e Consiglio. I centri in Albania torneranno a operare come strutture per l’espletamento delle procedure accelerate di frontiera solo quando i triloghi saranno portati a termine: sulla tempistica il Viminale non si sbilancia. «Quello che bisogna considerare», sottolinea alla Verità la deputata di Fratelli d’Italia Sara Kelany, responsabile immigrazione del partito, «è che il Consiglio europeo ha dato la misura di quanto le politiche migratorie del governo Meloni fossero lungimiranti e sul giusto binario. Abbiamo immaginato dei sistemi di gestione della immigrazione irregolare anche attraverso la esternalizzazione nei confronti di Paesi terzi che erano già inserite in un quadro normativo europeo. Ora la approvazione da parte del Consiglio europeo del regolamento sui Paesi sicuri consacra la coerenza delle nostre politiche. L’Europa», aggiunge la Kelany, «stila una lista di Paesi sicuri che comprende anche Bangladesh e Egitto, ovvero quei Paesi che la magistratura italiana, con delle sentenze fortemente ideologiche, aveva ritenuto non poter essere considerabili come sicuri. Due Paesi per noi tra i più sensibili in relazione al progetto Italia-Albania, bloccato da una interpretazione appunto ideologica della magistratura italiana. L’approvazione di questo regolamento comporta che oltre a funzionare come Cpr ordinari, i centri in Albania potranno tornare alle originarie funzioni previste, ovvero l’espletamento delle procedure accelerate di frontiera. Un migrante che proviene da un Paese sicuro può essere rimpatriato nel periodo brevissimo di 28 giorni. Tra l’altro», aggiunge ancora Sara Kelany, «attraverso questo regolamento si consacra un altro principio, ovvero la possibilità di effettuare rimpatri anche con accordi per l’espletamento delle pratiche con Paesi terzi non europei. Questo regolamento è una vittoria dell’Italia, perché disegna esattamente le politiche migratorie del governo Meloni». A chi gli chiede se i nuovi regolamenti consentiranno il ritorno alla funzione originaria dei centri in Albania, il ministro della Giustizia Carlo Nordio risponde così: «Certo. Naturalmente, la situazione in questo momento è ancora soggetta alla decisione finale del cosiddetto trilogo, ma è un eccellente viatico verso una soluzione definitiva, che porterà chiarezza sia dal punto di vista giurisprudenziale, sia dal punto di vista operativo. Siamo enormemente soddisfatti e siamo certi che entro pochissimo tempo questa, diciamo, confusione che c’era stata fino ad oggi nella giurisprudenza e nella gestione dei flussi migratori sarà definitivamente accertata proprio in ambito normativo, e quindi», conclude Nordio, «non ci sarà più spazio per esitazioni dal punto di vista giurisprudenziale». Per quel che riguarda gli hub nei Paesi terzi, non è escluso che più Paesi europei possano collaborare per realizzarne di nuovi, anche se la prospettiva, a quanto apprende la Verità da fonti bene informate, è che a questo punto possa essere la stessa Unione europea a farsi carico di realizzare altre strutture definendone nel dettaglio le normative per il loro funzionamento.
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Riduci
Giuseppe Pignatone (Ansa)
Il procuratore di Caltanissetta in commissione Antimafia: «Il dossier appalti del Ros concausa delle stragi del 1992».
Ha parlato circa due ore e tre quarti. E ha scritto un pezzo di storia di questo Paese. Il procuratore di Caltanissetta Salvo De Luca, in commissione Antimafia, ha ricostruito l’indagine monstre che sta portando avanti con i suoi pm sulle cause della strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992, in cui persero la vita l’allora procuratore aggiunto di Palermo Paolo Borsellino e la sua scorta.
E ha confermato ciò che le indiscrezioni giornalistiche (soprattutto di questo giornale) aveva già fatto in parte trapelare: il dossier mafia e appalti dei carabinieri del Ros è stata una concausa delle stragi, dal momento che per la Piovra andava affossato. Chi ci credeva è morto, chi ha alzato «una muraglia cinese» intorno a esso si è salvato. Ma le accuse più gravi sono state rivolte all’ex procuratore di Palermo, Pietro Giammanco, e all’ex pm Giuseppe Pignatone (successivamente destinato a una folgorante carriera). De Luca ha spiegato che le precondizioni dell’uccisione di Falcone e Borsellino erano state il loro isolamento e la loro sovraesposizione. E come si era arrivati a questa situazione? Semplicemente affidando le leve della Procura a un uomo come Giammanco con parenti mafiosi, compreso un cugino «accoscato» di Bagheria, la terra di Bernardo Provenzano, e un nipote imprenditore che si spartiva gli appalti con le cosche. De Luca contesta a Giammanco anche l’«ostentata» amicizia con il politico in odore di mafia Mario D’Acquisto e la pazza idea di presenziare insieme con i suoi pm ai funerali di Salvo Lima. Non sono mancate le stoccate all’ex fedele collaboratore di Giammanco, Pignatone, che ha vissuto dai 14 ai 27 anni, quando era già entrato in magistratura, in un condominio infestato da mafiosi, la palazzina di via Uditore 7 C. Qui c’erano 14 appartamenti: 8 occupati dalla famiglia di don Vincenzo Piazza e 4 dai Pignatone.
L’ex presidente del Tribunale del Vaticano ha assicurato che i rapporti tra i due gruppi erano solo «formali» per «le differenze sociali e culturali». Ma De Luca ha pescato nei suoi ricordi e ha sostenuto che in quegli anni, nei condomini, i rapporti erano improntati alla massima condivisione. Nella stessa via viveva anche un altro personaggio che è stato condannato definitivamente per mafia, Francesco Bonura, a sua volta cognato dei fratelli Salvatore e Antonino Buscemi, il primo dei quali diventerà capo mandamento.
E proprio Piazza, Bonura e Buscemi costituiranno l’immobiliare Raffaello, da cui, tra il 1978 e il 1983 i Pignatone acquisteranno 26 immobili, tra appartamenti, box, cantine e negozi. Comprano da «un capo mandamento, un capo famiglia e un associato», ha evidenziato De Luca, aggiungendo che poche altre ditte a Palermo avevano una compagine così compromessa: «Una riunione di questa società poteva comportare un arresto in flagranza per associazione mafiosa». Il procuratore ha citato anche un’intercettazione che i nostri lettori già conoscono. Risale al 22 ottobre 2024 e in essa il boss Bonura (tuttora in carcere) afferma: «A Pignatone gli abbiamo venduto le case. Io mi ricordo la madre di Pignatone, mi prendeva a braccetto: andiamo a vedere qua, andiamo là; sì signora, sì signora...».
Quando De Luca gli ha letto queste parole, durante il suo interrogatorio, Pignatone ha protestato: «Mia madre, buonanima, era una persona cordiale». L’audito ha anche ricordato che l’ex procuratore di Roma, quando Bonura viene arrestato per un duplice omicidio di mafia, anziché interrompere gli acquisti dalla Raffaello, si astiene nel procedimento. Ma il capo degli inquirenti nisseni ha rimarcato come Pignatone non abbia fatto la stessa prudente scelta quando c’è stato da indagare, agli arbori del dossier del Ros, sugli affari della Sirap, un ente pubblico chiamato a gestire mille miliardi di lire in appalti, una diligenza assaltata dalla mafia. La Sirap era partecipata dalla Espi presieduta da babbo Pignatone, chiacchierato politico dc e, secondo De Luca, «era probabile» che in quell’indagine, «emergessero fatti sul padre». Ma ciò non avrebbe sconsigliato Pignatone dal trattare quel fascicolo.
Tali intrecci pericolosi, secondo gli inquirenti nisseni, rendevano incompatibile Pignatone con la Procura di Palermo, o «quanto meno avrebbero dovuto impedirgli di avvicinarsi a qualunque procedimento riguardasse mafia e appalti, i Buscemi, Bonura e Piazza». De Luca ha anche ricordato che già nella relazione di opposizione del 1976 in Antimafia erano citati Bonura e Piazza e in quella del 1988 si spiegava che Pignatone senior «avrebbe tenuto un comizio voluto da Calogero dall’onorevole Calogero Vizzini in cui si esaltava la virtù della mafia diversa dalla delinquenza». Di fronte a un simile quadro, De Luca ha scandito: «Questa situazione di assoluta inopportunità in cui hanno esercitato le loro funzioni Giammanco e Pignatone ha contribuito grandemente a sovraesporre Falcone e Borsellino».
Il procuratore è stato tranciante, seppur negando di essere guidato da «mero moralismo», anche sul fatto che Pignatone abbia confessato di avere versato in nero circa 20 milioni per l’acquisto della casa, «rendendosi conto della pochezza del prezzo pagato». Il magistrato siciliano ha sintetizzato il suo lavoro: «Dobbiamo vedere in che situazione di inopportunità si va a ficcare una persona». Un approfondimento che ha portato a queste conclusioni: «Pignatone afferma di avere pagato 20 milioni in nero al capo mandamento Salvatore Buscemi. Non è un reato perché si tratta di un pagamento sottosoglia, è un illecito amministrativo […], ma è un’evasione fiscale fatta con il capo mandamento di Passo di Rigano Boccadifalco».
Diversi collaboratori di giustizia hanno citato Giammanco e Pignatone come magistrati vicini alle cosche, se non addirittura a disposizione. Lo stragista pentito Giovanni Brusca, a giugno ha detto ai magistrati nisseni: «Ho sentito della famiglia Pignatone, Salvatore Riina diceva che erano vicini ai Buscemi... ho saputo da Pino Lipari o da Totò Riina che i Buscemi avevano a disposizione il magistrato Pignatone, si diceva anche che il dottor Pignatone fosse stato trattato bene dai Buscemi in occasione di un acquisto di un appartamento».
Pignatone ha liquidato le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia come semplice «chiacchiericcio». Ma De Luca ha deciso di scoprire se lui e Giammanco «abbiano offerto un’immagine all’esterno che ha dato luogo a queste v sa nostra».E in commissione ha illustrato quanto certi comportamenti disinvolti di magistrati come Pignatone e Giammanco potrebbero avere danneggiato Falcone e Borsellino: se qualcuno si è «posto in una posizione assolutamente inopportuna», dando alla mafia l’impressione che in Procura ci fosse «una dirigenza debole, malleabile o addirittura corrotta», ebbene, quelle persone avrebbero, come detto, sovraesposto «enormemente chi, invece, veniva ritenuto incorruttibile, inflessibile». De Luca ha riportato quello che potrebbero avere pensato i boss: «Con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non c’è niente da fare. Fermiamoli, tanto con gli altri non abbiamo problemi».
A questo punto De Luca ha passato in rassegna le posizioni di Giammanco (morto nel 2017), Pignatone (indagato) e di Guido Lo Forte, che, però, nonostante abbia comperato casa dalla Raffaello e lavorato gomito a gomito con Pignatone non è stato iscritto sul registro delle notizie di reato perché non è stato chiamato in causa dai collaboratori di giustizia e, dopo l’addio di Giammanco, ha chiesto l’arresto di Antonino Buscemi. Una mossa che a giudizio del procuratore dimostrerebbe che «non aveva interesse personale a proteggerlo».
Diversa la gestione, sotto la regia di Pignatone, di fascicoli fondamentali sugli affari dei Buscemi con il gruppo Ferruzzi nelle cave di marmo di Carrara.
De Luca ha ricordato un dogma di Falcone (mega indagini, piccoli processi), completamente tradito da queste inchieste, in cui le investigazioni procedevano a compartimenti stagni e non c’era reale condivisione delle informazioni. De Luca non si spiega come il fascicolo «doppione» sui Buscemi, aperto grazie alle carte arrivate dalla Procura di Massa Carrara, sia rimasto praticamente «occulto». Il titolare ufficiale era Gioacchino Natoli, il quale, pur appartenendo a una corrente progressista, era perfettamente allineato con il moderato Pignatone e avrebbe nascosto al Csm quanto di sua conoscenza sui rapporti conflittuali tra Giammanco e Falcone, da quest’ultimo denunciati anche in una riunione di corrente.
Quanto alla sottovalutazione del dossier mafia appalti e all’archiviazione del filone principale, chiesta da Roberto Scarpinato e Lo Forte, De Luca non è stato tenero: «In due anni non è stata fatta una sola indagine su Antonino Buscemi».
Il procuratore ha giudicato «singolare» il fatto che l’attuale senatore del Movimento 5 stelle e membro della commissione Antimafia «si sia rimesso alle valutazioni di Lo Forte» su Buscemi e alla sua decisione di chiedere l’archiviazione asserendo che sul boss «non c’era assolutamente nulla» (una motivazione bollata da De Luca come «inaccettabile»), mentre contemporaneamente portava avanti una richiesta di misura di prevenzione nei confronti dello stesso soggetto e in tale fascicolo «diligentemente» aveva raccolto le carte di Massa e le dichiarazioni dei pentiti nei suoi confronti. Ma con quel tipo di proscioglimento «come puoi portare avanti la misura di prevenzione?», si è chiesto l’audito. «Un’affermazione del genere fatta dalla Procura rende inidonea la prosecuzione di un procedimento per una misura di prevenzione». Per De Luca, Scarpinato o doveva mandare in archivio entrambi i procedimenti o, viste le sue conoscenze, portare avanti anche il fascicolo penale. «La diligenza del senatore Scarpinato è molto apprezzabile in sede di misura di prevenzione, però, è in contraddizione con l'atteggiamento mantenuto in sede penale».
Il procuratore ha bocciato anche la pista nera seguita dal parlamentare grillino quando era pg di Palermo. Lo ha accusato di «essersi fatto un’indagine sulle stragi» alla vigilia del congedo per pensionamento, senza coordinarsi con Caltanissetta («l’unica procura che aveva la competenza sulle stragi»), violando così l’articolo 11 del codice di procedura penale.
Ma al contrario di quanto accaduto per mafia e appalti, quando Scarpinato «ha prospettato questo filone», De Luca & c. avrebbero iniziato a indagare con entusiasmo, salvo «rendersi conto» che quell’indagine «valeva zero tagliato», come ha confermato un gip non appiattito sulle posizioni della Procura. Ma questo non significa che «Stefano Delle Chiaie (l’estremista chiamato in causa da Scarpinato, ndr) non possa avere avuto un ruolo […] visto che uno stragismo di destra storicamente in Italia c’è stato», ha concesso De Luca, annunciando che c’è «un’ulteriore pista nera che stiamo approfondendo e che potrebbe dare esiti».
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