Nirmala Sitharaman (Ansa)
Via libera del Parlamento alla piena proprietà straniera nel settore: l’obiettivo è attirare capitali, rafforzare i controlli e accelerare lo sviluppo di un mercato che resta ancora poco diffuso tra famiglie e imprese.
Nuova Delhi compie un passo decisivo verso una maggiore apertura ai capitali internazionali. Il Parlamento indiano ha approvato una riforma che consente, per la prima volta, la piena proprietà straniera delle compagnie assicurative operanti nel Paese. Una scelta che segna una svolta in un settore strategico ma ancora poco sviluppato, e che riflette la volontà del governo di accelerare la modernizzazione dell’economia.
Fino ad oggi, la presenza estera nel comparto assicurativo era soggetta a limiti stringenti. Dal 2001, anno dell’apertura iniziale, la quota massima di partecipazione straniera è cresciuta gradualmente dal 26% fino all’attuale 74%, oltre la quale era necessario individuare un partner locale. Un vincolo che, secondo il governo, ha spesso frenato gli investimenti e rallentato l’ingresso di nuovi operatori internazionali.
«Trovare un partner indiano affidabile per una quota minoritaria si è rivelato, in molti casi, un ostacolo insormontabile», ha spiegato la ministra delle Finanze Nirmala Sitharaman durante il dibattito parlamentare. La riforma, ha aggiunto, non indebolirà la sovranità decisionale del Paese: le compagnie a capitale interamente straniero resteranno soggette alle leggi indiane e alla vigilanza delle autorità nazionali.
Accanto alla liberalizzazione delle quote azionarie, il provvedimento rafforza in modo significativo i poteri dell’Autorità di regolamentazione e sviluppo delle assicurazioni (IRDA). Il regolatore potrà condurre ispezioni, perquisizioni e sequestri di documenti in caso di sospette violazioni, irregolarità contabili o pratiche commerciali scorrette, estendendo la propria azione anche a intermediari come banche, società fintech e piattaforme online.
Una misura che mira a contrastare un problema diffuso: la vendita impropria di polizze, spesso presentate ai clienti come strumenti di investimento più che come coperture assicurative, a vantaggio degli intermediari. Il rafforzamento dei controlli è visto come un passaggio necessario per ristabilire fiducia in un settore che coinvolge milioni di risparmiatori.
I numeri spiegano perché il governo punta sull’apertura ai capitali esteri. Nonostante la crescita economica sostenuta, la penetrazione assicurativa in India resta bassa: poco più del 4% del Pil, con una quota ancora inferiore per le assicurazioni sulla vita. Secondo le stime, finora gli investimenti stranieri complessivi nel settore non superano i 10 miliardi di dollari.
L’esecutivo spera che l’arrivo di nuovi operatori globali porti non solo risorse finanziarie, ma anche competenze, tecnologie e pratiche gestionali più avanzate. Alcuni grandi gruppi internazionali,come Allianz, Axa e AIA, sono già presenti nel Paese attraverso joint venture con partner locali, ma la nuova normativa potrebbe ridisegnare equilibri e alleanze, aprendo la strada a un riassetto dell’intero comparto.
Per l’India, che ambisce a consolidarsi come una delle principali economie mondiali, la riforma delle assicurazioni rappresenta un tassello chiave: un mercato più profondo e competitivo è considerato essenziale per sostenere la crescita, proteggere famiglie e imprese e attrarre capitali in un contesto globale sempre più selettivo.
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Leone XIV (Ansa)
Leone XIV randella i volonterosi senza alcuna volontà, se non quella di portare l’Europa alla guerra. Ma la stampa nostrana racconta solo della sua visita al Senato. Se le stesse cose le avesse dette Francesco avrebbero riempito pagine intere...
La stampa italiana è veramente un po’ particolare. Avanti ieri il Papa ha parlato della guerra. Ha dato ciabattate praticamente a tutti, a partire dall’Europa, ma i giornali si sono occupati solamente di raccontare la sua visita a sorpresa in Senato. Figuratevi voi se ne avesse parlato papa Francesco: avrebbero fatto titoli a piena pagina, qualcuno forse avrebbe fatto anche la sovracopertina. D’altra parte, papa Francesco era sudamericano, era de sinistra, era alla moda perché parlava ar popolo. Questo invece, oltre ad avere la di per sé infamante origine statunitense, è atlantista (grave onta); non s’è capito ancora ma sembra de destra (ha dato la possibilità, ai cattolici che lo vogliono, di dire la messa in latino); ha ricominciato a parlare del Sacro e dei Misteri Cristiani e, quindi, a questa massa di ignorantoni non è che piaccia poi granché, nun se capisce da che parte stà.
Non è il caso di rifare qui la storia della controversia teologica della «guerra giusta» che ha occupato per secoli le menti più raffinate della teologia. Questa dottrina prevedeva che la guerra fosse dichiarata solo dalla Legitima auctoritas, la legittima autorità politica, al tempo il sovrano; prevedeva, inoltre, che ci fosse una iusta causa, che sostanzialmente si trattava della difesa da un’aggressione di uno Stato più debole aggredito, appunto, ingiustamente; prevedeva, inoltre, che tutto fosse fatto secondo il Debitus modus e cioè entro i limiti, come furono previsti molto dopo dalle Convenzioni di Ginevra, tutt’ora in vigore, che prevedono varie regole da seguire durante la guerra e che riguardano vari aspetti di essa. Il Catechismo della Chiesa cattolica più recente, voluto da Giovanni Paolo II e guidato dall’allora cardinale teologo Joseph Ratzinger, dedica alla difesa della pace molti articoli, dal numero 2302 al numero 2317, dove si condanna la corsa agli armamenti, si ricordano le leggi morali durante i conflitti armati e che bisogna fare tutto ciò che è ragionevolmente possibile per evitare la guerra. Del resto, Giovanni XXIII, con l’Enciclica Pacem in terris e il Concilio Vaticano II, nella Costituzione Gaudium et spes, ai numeri 77 - 82, abbandonò il concetto di guerra giusta a favore di quello di «legittima difesa in campo internazionale».
Capite bene, da questa breve sintesi, che la Chiesa, a proposito della guerra, ha sempre ragionato in termini di teologia morale, cioè di quella parte della teologia che si occupa della moralità degli atti umani, ivi compresi quelli di natura politica nazionale e internazionale. Sarebbe ora di dare una ripassatina alla storia per capire che non si tratta di Papi di destra o di sinistra che parlano di guerra, ma di Papi che esercitano il loro ruolo di capi universali della Chiesa cattolica e che, se la discussione si può fare, la si deve fare in termini teologici (anche storicamente considerati) e non in altri termini. Altrimenti non si capisce niente. Come non hanno capito niente tutti quei quotidiani che ieri non hanno riportato le parole di Leone XIV. Perché, volendo escludere, per cchristiana pietate, un pur palese ammanco di conoscenza, non rimane che quanto dicevamo sopra, e cioè che questo Papa varrebbe meno perché non è de sinistra secondo una classificazione di una nuova corrente teologica che è la teologia de’ noantri.
Il Papa, come ha egregiamente riferito Alessandro Rico su La Verità di ieri, ha randellato l’Europa in trincea che «Usa la paura in nome del riarmo… siamo oltre la legittima difesa: è destabilizzazione planetaria. Provano persino a rieducare al conflitto mediante media e corsi scolastici. E considerano una colpa non prepararsi alla guerra».
Tutto questo, come ricorda Rico: «Nel giorno in cui il Consiglio Ue dava il via libera al ReArm, il Papa ha voluto tirare le orecchie degli eurocrati nascoste sotto gli elmetti…nel rapporto tra cittadini e governanti si arriva a considerare una colpa il fatto che non ci si prepari abbastanza alla guerra, a reagire agli attacchi, a rispondere alle violenze». Questo avveniva il giorno prima che Donald Trump sostenesse che non esclude una guerra col Venezuela. Questo giornale ha da sempre sostenuto che può anche non piacerci Trump ma che le sue iniziative di mediazione tra Russia e Ucraina e tra Israele e i palestinesi (anzi Hamas) fossero gli unici tentativi concreti di fronte a un’Europa inerme, a un’Onu assente, a un gruppo di volenterosi che hanno tanta volontà quanta inefficacia. Diceva l’antica filosofia Scolastica: «Nihil volitum nisi praecognitum», non si può volere ciò che prima non si conosce. Infatti, questi volenterosi hanno avuto tanta volontà quanta poca conoscenza di come andavano fatte le cose e di quali erano le possibili vie diplomatiche per arrivare ad accordi di guerra o di pace.
Il Papa fa il Papa, questa è una tautologia: dove il predicato, il Papa, è contenuto già nel soggetto, il Papa. Ma evidentemente ad alcuni è difficile comprendere anche la figura filosofica più semplice, la tautologia, appunto. Se uno non comprende una tautologia è bene che rinunci all’uso del cervello e all’esercizio della ragione e si dedichi ad opere manuali ripetitive e prive di ausilio razionale, tipo picchiare la testa contro il muro con il pericolo, in questo caso specifico, che la testa rimanga integra e il muro vada in frantumi. Senza dirlo esplicitamente, che accuse ha lanciato il Papa agli Stati e alle organizzazioni internazionali? Quella dell’assenza di soggetti che non agiscano solo per autorità (ben oltre i confini della «legittima difesa internazionale»), sguarniti di quella autorevolezza che ha garantito durante la storia, anche limitatamente al Novecento, il raggiungimento di accordi che hanno ridisegnato l’assetto geopolitico del mondo. Quell’autorevolezza è purtroppo assente sia nelle figure di rilievo internazionale sia nelle organizzazioni che sarebbero preposte a garantire e tutelare l’ordine geopolitico mondiale. Con il suo ciuffo posticcio e con dei modi che non ci piacciono l’unico a cui aggrapparci si chiama Donald di nome e Trump di cognome. È americano anche lui, come il Papa, ma questo vale in tutta questa questione quanto il due a briscola che, presto o tardi, sarà sostituito nella grafica delle carte dalla faccia della Von der Leyen.
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Friedrich Merz e Ursula von Der Leyen (Ansa)
Il cancelliere tedesco sognava di dettare legge come la Merkel Ma è uscito ko dal Consiglio europeo. Dove si è imposta Meloni.
Doppia sconfitta politica per il cancelliere tedesco Friedrich Merz al Consiglio europeo di giovedì, dove si è deciso di non procedere con l’utilizzo dei fondi russi depositati in Belgio e dove si è preso atto del rinvio della firma del patto commerciale con il Mercosur.
Su entrambi i dossier, Merz aveva speso tutta la sua influenza e cospicue energie, nella convinzione che fossero due mosse irrinunciabili per l’Ue. I risultati del Consiglio, invece, premiano la diplomazia discreta di Giorgia Meloni che, senza dare troppo nell’occhio, ha assunto un ruolo di regia delle soluzioni adottate e ha ottenuto ciò che voleva. Un Consiglio europeo, quello del 18 dicembre, che a suo modo segna una svolta importante e da cui emerge una nuova forza dell’Italia rispetto alla frastornata Bruxelles e alle deboli cancellerie europee.
Meloni ha messo il peso del nostro Paese in Consiglio dalla parte del Belgio, mentre il primo ministro Bart De Wever negoziava con l’Ungheria per trovare la scappatoia del prestito da 90 miliardi ed evitare l’utilizzo dei fondi russi. «Il buon senso ha prevalso», ha dichiarato Giorgia Meloni alla fine. Mentre Merz non ha toccato palla, Meloni ha mosso per tempo le sue pedine e ha portato a casa il risultato. Per una volta, chi si è trovata la pietanza cucinata è stata la Germania. Il voto a maggioranza sul sequestro dei fondi russi avrebbe significato inaugurare una prassi di rottura del quadro istituzionale europeo, le cui conseguenze sarebbero state molto gravi sotto diversi profili.
Il presidente del Consiglio ha anche dettato la linea del rinvio dell’accordo commerciale Ue-Mercosur, schierandosi con la Francia per ottenere più tempo, onde valutare gli impatti del trattato ed avere chiarimenti sulle contromisure. Piaccia o non piaccia, Meloni è riuscita nell’impresa di tenere insieme il quadro delle regole europee, allo stesso tempo evitando un passo dal quale l’Ue non avrebbe mai potuto tornare indietro. Probabilmente ora è più chiaro anche in Europa che il quadro politico è cambiato. Non è più il tempo di Angela Merkel e l’Italia sta dimostrando di poter influenzare l’agenda europea attraverso una azione diplomatica non di rottura, ma di persuasione e ragionevolezza. Questa è senz’altro una novità politica rilevante che a molti, anche in Italia, probabilmente non piacerà.
Così come ci saranno molti in Italia per cui, invece, questo non è abbastanza. Ma nel delicato passaggio storico che stiamo vivendo, Meloni ha dimostrato in Europa un’efficacia di azione e una sapienza tattica cui l’Italia era disabituata, arrivando anche a giocare di sponda con un «nemico» storico come la Francia di Emmanuel Macron pur di arrivare all’obiettivo. Dopo decenni di acritici ossequi alle peggiori politiche europee, vedere emergere una linea italiana è un passo avanti notevole. Si può non essere d’accordo nel merito delle scelte, ma almeno ci si può rallegrare per il ritorno della politica e per un nuovo ruolo dell’Italia.
Dall’altra parte, anche tornando indietro nel tempo di parecchio, è difficile ricordare un vertice europeo da cui la Germania sia uscita così suonata. Il secco «no» all’uso dei fondi russi congelati e il rinvio della firma dell’accordo di libero scambio con il Mercosur sono due rilevanti sconfitte politiche per Merz, che aveva messo tutto il suo peso su entrambe le questioni. «Oggi sono stato messo davvero alla prova», ha detto il cancelliere, apparendo stanco e stropicciato a notte fonda davanti ai giornalisti.
In merito all’utilizzo dei fondi russi, quella che veniva spacciata da Berlino come «unica soluzione possibile» per evitare «la fine dell’Europa» era solo una delle diverse opzioni, come ha dimostrato l’esito del vertice. «L’unica decisione possibile è che l’Europa accetti e che il presidente della Commissione e il presidente del Consiglio si rechino domani in Sud America e firmino questo accordo», aveva invece detto Merz alla vigilia parlando del Mercosur. Non è proprio andata così e Merz ha dovuto incassare un altro colpo. A valle del vertice, Merz ha minimizzato la sua sconfitta personale parlando di grande successo dell’Europa, ma la realtà è che i suoi ultimatum ai partner europei sono stati regolarmente ignorati. Merz ha ambizioni di diventare il nuovo leader dell’Ue in quanto cancelliere tedesco, ma non è riuscito a soddisfare neppure le sue stesse aspettative in questo appuntamento. È in difficoltà in patria, dove deve governare in coalizione con la Spd e dove, ad esempio, il suo candidato alla presidenza della Fondazione Konrad Adenauer è stato battuto ieri da Annegret Kramp-Karrenbauer, esponente di una diversa corrente della Cdu. L’unica consolazione per Merz è che dalla prosecuzione della guerra con altri 90 miliardi di euro messi sul piatto arriverà qualche grossa commessa per Rehinmetall e l’indotto industriale tedesco della difesa.
Le reazioni politiche in Germania, in realtà, sono di sollievo per la soluzione escogitata, stante che l’all-in di Merz non era così sentito nel suo partito. Molto dura, invece, la stampa. La Frankfurter Allgemeine Zeitung ha titolato «Così Merz è stato ingannato», mentre Die Welt ha scritto: «Doppia sconfitta per il cancelliere».
Berlino sta perdendo la sua presa sull’Unione europea che, da quando Merz è diventato cancelliere, non risponde più ai comandi come faceva fino a poco tempo fa.
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