Il lavoratori aumentano ma c’è allarme produttività. Colpa della burocrazia, come nel caso Prysmian: per agevolare gli investimenti il dl Ilva prevedeva norme sulla fibra e il coinvolgimento dell’authority. Che però non ha terminato l’analisi, e 300 posti sono a rischio.
Il lavoratori aumentano ma c’è allarme produttività. Colpa della burocrazia, come nel caso Prysmian: per agevolare gli investimenti il dl Ilva prevedeva norme sulla fibra e il coinvolgimento dell’authority. Che però non ha terminato l’analisi, e 300 posti sono a rischio.Come ogni mese l’Istat diffondi i dati del lavoro in Italia. Stavolta notiamo tre cose. La prima è il numero di occupati che aumenta. Il tasso rasenta il 62%. Il numero assoluto supera i 23,7 milioni (2% in un anno), valore che comunque ci piazza nella parte bassa della classifica europea. Seconda cosa che insegnano i dati Istat la si ricava dal numero degli inattivi. Il 33,2% delle persone in grado di lavorare non cerca un impiego. Un piccolo campanello di allarme. La riforma del modello del Reddito di cittadinanza con le nuove forme di assegno di inclusione ha consentito un importante rialzo degli occupati e una discesa nel 2023 degli inattivi. La spinta rischia di essere arrivata al capolinea e quindi toccherà al governo affrontare anche la parte delle politiche attive, da troppi anni trascurata. Infine, c’è un terzo elemento che ricaviamo dallo studio mensile dell’istituto di statistica. Si tratta degli stipendi e della produttività. I primi crescono ma sempre meno dell’inflazione. Chi già guadagnava poco, purtroppo guadagna meno. La seconda è al palo e per giunta continuamente azzoppata dai tavoli di crisi. Alcuni freschissimi e altri aperti persino da sei o sette anni. L’ultimo è stato annunciato proprio ieri. Il prossimo 15 febbraio nella sede del Mimit i vertici dello stabilimento di Battipaglia della Fos del gruppo Prysmian. A rischio ci sono ben 300 posti di lavoro per una crisi che non nasce dal nulla e spiega bene la complessità e i ritardi del sistema Italia. Gli stessi che concorrono a tenere bassa la produttività e le opportunità di investimento. Per capire bene come si arriva al 15 febbraio bisogna tornare indietro al 2022. Prysmian, leader mondiale nel settore dei sistemi in cavo per l’energia e le telecomunicazioni, annunciava un piano di investimenti da un miliardo di euro entro il 2024, finalizzati principalmente allo sviluppo di business a supporto della transizione energetica. «Lo sviluppo della rete elettrica transeuropea ricopre un ruolo strategico sia per la decarbonizzazione e transizione verso fonti rinnovabili sia per migliorare l’autonomia energetica Ue, un’urgenza tornata di attualità con il conflitto Russia-Ucraina», commentava Valerio Battista, amministratore delegato del gruppo. Una parte dei fondi per un nuovo stabilimento negli Usa, ampliamenti in Finlandia e poi, appunto in Italia. Per mettere a terra gli investimenti lungo la penisola già all’inizio del 2022 si rendeva necessario un intervento normativo e uno da parte dell’Agcom, l’autorità delegata per le telecomunicazioni. La difficoltà di Prysmian è produrre cavi a un prezzo competitivo rispetto alla concorrenza cinese, che grazie ai sussidi di Pechino riesce a invader eil mercato con prezzi inferiori anche del 40%. Senza contare i temi della sicurezza. In America hanno risolto la questione in modo rude. Con un bando. Invece l’equivalente dell’Agcom francese è intervenuta imponendo requisiti specifici e una qualità, A2, insensibile alle piegature e quindi in grado di proteggere i cavi dalle incursioni esterne. Qualità che i cinesi non garantiscono. Ecco che con il governo Draghi nascono i primi abboccamenti sul tema. Ma i consiglieri economici di Palazzo Chigi non prestano particolare attenzione. Eppure Il mercato italiano, fino a due anni fa ha avuto un valore di 70 milioni di euro ma è destinato ad esplodere con l’avvio del piano ad 1 giga con i milioni di chilometri di fibra ancora da stendere. Nel frattempo ci sono le elezioni e cambia governo. A palazzo Chigi arriva Giorgia Meloni. E il 5 gennaio del 2023, poco più di un anno fa, su spinta del ministro Adolfo Urso, viene varato il cosiddetto decreto Ilva. Dentro c’è una serie di misure urgenti per tutelare o sviluppare gli impianti di interesse strategico nazionale. Uno di questi, lo ribadiamo, è quello di Battipaglia in capo a Prysmian. Il decreto per definizione emana misure urgenti. Eppure l’Agcom presieduta da Giacomo Lasorella, nominato per la prima volta nel 2020 da Giuseppe Conte, apre le consultazioni soltanto lo scorso giugno. Il tema è delicato, dal punto di vista tecnico e pure geopolitico. La Commissione Ue da tempo è stata investita del tema: cioè della necessità di applicare dazi anti-dumping alle forniture cinesi in Europa. Per i motivi spiegati sopra. Da almeno tre anni l’export si è fatto più aggressivo. La Cina, inoltre, ha imposto forti dazi ai produttori europei, mentre una misura analoga da parte della Ue è una recente novità e vale solo per i cavi e non per le fibre. Nonostante il background geopolitico, l’Agcom non sembra aver messo il piede sull’acceleratore. E le consultazioni partite a giugno non sono ancora terminate. Peccato che nel frattempo sia passato un anno dal decreto che doveva inutile dirlo essere urgente. L’irritazione forte di Urso e immaginiamo pure di Palazzo Chigi ci riporta dunque alla realtà. Fra due settimane lo stabilimento di Battipaglia da fiore all’occhiello rischia di diventare uno dei tanti che punta alla cassa integrazione. È difficile stare al passo con i cambiamenti globali se la burocrazia italiana è così lenta. Magari ci saranno motivazioni, tecniche e logistiche - per carità - ma senza aziende e investimenti non c’è produttività né buste paga. Per quanto i dati Istat continueranno a rassicurarci?
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Nel suo ultimo libro Paolo Nori, le cui lezioni su Dostoevskij furono oggetto di una grottesca polemica, esalta i grandi della letteratura: se hanno sconfitto la censura sovietica, figuriamoci i ridicoli epigoni di casa nostra.
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Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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