2023-04-08
Obblighi e green pass inutili. La Pfizer l’ha sempre saputo
Il ricercatore Peter Doshi ha trovato le prove che già ad aprile 2021 la casa farmaceutica era a conoscenza del fatto che il suo vaccino non impediva la trasmissione del virus. Ma ha taciuto, fornendo l’alibi a Mario Draghi e Roberto Speranza.Il green pass? Inutile: non poteva dare alcuna garanzia «di trovarsi tra persone che non sono contagiose», a differenza di quanto promise Mario Draghi il 22 luglio 2021. E l’obbligo vaccinale per medici e infermieri? Altrettanto inadeguato a proteggere gli ospedali dalla diffusione del virus. Noi l’avevamo capito. La notizia è che l’aveva capito, pressoché subito, anche Pfizer. E si rifiutò di comunicarlo con tempestività e trasparenza. Se lo avesse fatto, magari avrebbe tolto appigli a chi, come l’ex premier e Roberto Speranza, tra la primavera e l’inverno di due anni fa, stava blindando il regime sanitario inaugurato da Giuseppe Conte.Ad accertare che la società guidata da Albert Bourla avesse riscontrato precocemente i limiti dei suoi preparati anti Covid è stato Peter Doshi, ricercatore americano noto per le sue rigorose analisi sugli effetti avversi. Lo scienziato ha spulciato le carte in mano all’agenzia regolatoria canadese, Health Canada. In quei faldoni, ha trovato prove che, almeno da aprile 2021, al colosso farmaceutico era noto il repentino calo dell’efficacia dei vaccini contro il coronavirus. Come ha riportato sul suo blog Maryanne Demasi, tenace giornalista investigativa che aveva denunciato, dalle colonne del British medical journal, le anomalie in alcuni trial condotti dalla compagnia negli Usa, secondo Doshi, «è chiaro» che le informazioni «erano vecchie di almeno quattro mesi», nel momento in cui furono rivelate, il 28 luglio 2021. Naturalmente, senza troppa enfasi, in un pre print poi pubblicato dal New England journal of medicine, dedicato a «sicurezza ed efficacia a sei mesi» degli antidoti. Al contrario, il primo aprile, Pfizer, nel comunicato dedicato proprio ai risultati dell’indagine di fase 3 sui suoi farmaci, aveva completamente omesso i dettagli sulla diminuzione «graduale» della loro capacità di schermare dal Sars-Cov-2. Peccato che, in quell’arco di tempo, fossero successe parecchie cose rilevanti. Intanto, Israele, Paese pioniere nella campagna di immunizzazioni, si stava rendendo conto che tanto immuni gli inoculati non erano. A giugno, lo Stato mediorientale era stato investito da una nuova ondata di contagi. Il peggio, però, lo stava dando l’Italia. Proprio a inizio aprile 2021, forse anche sulla scorta dei comunicati trionfalistici di Big pharma, che invece già sapeva la verità, il «governo dei migliori» aveva licenziato il decreto sulle punture coatte per il personale sanitario. Siamo assuefatti al carico di menzogne promanate dalle autorità nel corso della pandemia, ma fa ancora specie leggere che, tra gli obiettivi del provvedimento, c’era quello di varare «disposizioni urgenti in materia di prevenzione del contagio da Sars-Cov-2 mediante previsione di obblighi vaccinali». Prevenzione del contagio, sì. Lo scopo dell’articolo 4 del dl era utilizzare la «vaccinazione gratuita per la prevenzione dell’infezione» da Covid. L’infezione, appunto. Non la malattia seria. Che storia avremmo scritto, se Bourla e i suoi avessero avvisato immediatamente che il loro rimedio a mRna non era così performante nella profilassi? Come sarebbe stata giustificata l’impalcatura dei diktat? E la Corte costituzionale, pur di «assolvere» quella norma, avrebbe potuto sostenere che, «alla luce delle risultanze scientifiche disponibili» quando fu introdotta, l’imposizione del vaccino era l’alternativa migliore per tutelare i malati che entravano in contatto con i camici bianchi? Possibile si sia dovuta aspettare l’audizione di Janine Small al Parlamento Ue, a ottobre 2022, per sentire dalla multinazionale che nemmeno erano stati eseguiti dei test sulla capacità dei preparati di neutralizzare il virus? Non tutte le colpe, comunque, vanno addossate a Pfizer. Non è strano che l’azienda abbia privilegiato i propri interessi, ovvero la reputazione del vaccino, rispetto a una comunicazione in tutto e per tutto franca. Il problema è che gli enti preposti alla vigilanza sui farmaci hanno finito per fare il gioco dei produttori. La Food and drug administration, ad esempio, dal 2020 aveva indicato certe lacune nei dati disponibili. Due di esse riguardavano esattamente l’efficacia contro la trasmissione virale e la durata della protezione. Perché queste non sono diventate questioni cruciali nel dibattito pubblico sui vaccini? In più, come ha mostrato a Fuori dal coro Marianna Canè, Aifa aveva ricevuto segnalazioni di fallimenti vaccinali - pazienti inoculati che non sviluppavano anticorpi - addirittura a gennaio 2021. A marzo, le erano stati notificati casi d’infezione dopo la doppia dose. Della vicenda, la popolazione fu tenuta all’oscuro. E in alcune mail interne, una funzionaria suggeriva di «modificare» i report «togliendo “fallimento vaccinale”». Che per la nostra agenzia si verificava solo se era positivo un test molecolare (il rapido non bastava) e se il contagiato era anche sintomatico. Nessuno ha fatto un fiato, quando Draghi e Speranza hanno costretto dottori, infermieri, insegnanti e forze dell’ordine a porgere il braccio. Né quando hanno avviato la delirante giostra della carta verde. Le reticenze dei colossi delle medicine non hanno scalfito nemmeno l’Unione europea. Ieri, in occasione della Giornata mondiale della salute, il commissario Stella Kyriakides è tornata anzi a promettere che Bruxelles lavorerà per snellire l’iter autorizzativo dei farmaci innovativi. Guarda caso, come quelli a mRna. Modello vaccini Covid per sempre. Cosa potrà andare storto?
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