2024-01-26
«Non c’è libero dibattito sull’aborto. Se sei contrario vieni demonizzato»
Daniele Scalea (Imagoeconomica)
Il presidente del Centro studi Machiavelli Daniele Scalea: «Per il nostro convegno alla Camera siamo stati attaccati soltanto per aver espresso idee eterodosse. La legge 194 non va cambiata, bisogna applicarla meglio».Bigotti, retrogradi, intolleranti: li hanno dipinti nel modo peggiore possibile. E solo perché hanno avuto l’ardire di organizzare un convegno alla Camera dei deputati in cui si è discusso di aborto anche con posizioni non esattamente in linea con il pensiero prevalente. Eppure gli animatori del Centro studi Machiavelli - uno dei think tank conservatori più interessanti in Italia e in Europa - tutto sono tranne che rigidi e ostili alle sfumature. A partire da Daniele Scalea, il presidente.Scalea, siete un centro studi antiabortista come vi definisce Repubblica? «No. Il Centro non ha una precisa ed esplicita posizione sul tema dell’aborto. Al suo interno convivono varie sensibilità, come è emerso nel convegno stesso. Personalmente credo che ogni bambino che nasce anziché essere abortito sia una cosa positiva e da perseguire, ma pure che ciò vada fatto aiutando le madri e non costringendole. La Legge 194 mi pare un buon compromesso e non la cambierei. La applicherei meglio, come dichiarato anche dal presidente del Consiglio, Giorgia Meloni».Circola un vostro documento in cui, però, si sostiene che l’aborto non è mai giusto e non è un diritto. «Il saggio in questione è pubblicato dal Machiavelli ma non è una nostra presa di posizione programmatica. Contiene la riflessione di due studiosi, di cui uno nemmeno affiliato a noi. Rivendico la scelta di offrire spazio a contributi di idee anche senza condividerle al 100%. Senza entrare nel merito, poi, noto che non abbiamo inventato noi il dibattito sul fatto che l’aborto possa considerarsi un diritto assoluto positivo o un trattamento sanitario».Risulta che ad avere scritto e pronunciato le frasi «scandalose» sia stata una donna, una giovane studiosa, Maria Alessandra Varrone. Difficile parlare di sessismo, dunque. «Secondo la logica per cui dovrebbe pronunciarsi dell’aborto solo chi ha un utero, i reprobi sono gli uomini che attaccano veementemente la dottoressa Varone per avere detto la sua. Mi pare un chiaro caso di mansplaining».Lei personalmente ritiene che l’aborto sia un diritto? «Non sono un giurista né un filosofo del diritto. Ritengo che la normativa attuale vada bene ma non mi lancio in disquisizioni teoriche che non mi competono».Condivisibile o meno il pensiero espresso dalla dottoressa, resta curioso che un convegno susciti tanta indignazione. Ci sono argomenti di cui oggi non si deve nemmeno parlare? «È così ma non dovrebbe essere così. Il libero dibattito e il confronto di idee sono il sale della democrazia. Questa campagna di demonizzazione vuole scoraggiare gli eterodossi a esporsi e dire la loro. E a chi obietta che il problema è affermare certe cose in una sala del Parlamento, io rispondo che in quel luogo, più che in qualunque altro, dovrebbe vigere la piena libertà di espressione. Il Parlamento è il tempio della democrazia».Veniamo agli aspetti pratici. È stata la Lega a organizzare l’evento? «No. Il convegno è stato organizzato autonomamente dal Machiavelli. L’onorevole Simone Billi, con lo spirito per me encomiabile di garantire spazi alla libera espressione, ha concesso la sala senza pretendere di imporre ciò che si sarebbe potuto o non potuto dire. La Lega poi, come partito, non c’entra proprio nulla».E il ministro Valditara, invece, che c’entra con voi? «Come molti altri accademici ha accettato, alcuni anni fa, di far parte del nostro Consiglio scientifico, che non è un organo esecutivo del Centro. In particolare il Consiglio e i suoi membri non sono coinvolti nel vaglio delle pubblicazioni o dei convegni. Talvolta alcuni di loro sono consultati o coinvolti come relatori, ma nel caso specifico del ministro Valditara, non è mai intervenuto ad alcun nostro evento e posso dire che non è mai stato coinvolto nemmeno informalmente per consigli, valutazioni o altro. Ovviamente imputargli ora le cose buone o cattive che abbiamo fatto e che facciamo è una mera strumentalizzazione politica».Sinceramente, però, a me stupisce che anche a destra ci sia la gara a prendere le distanze dal convegno e da certe posizioni espresse. Non condividerle in toto non significa necessariamente accettare la limitazione del dibattito. «Da un lato è legittimo e comprensibile chiarire le proprie posizioni (noi stessi l’abbiamo fatto) nel momento in cui, usando il meccanismo della colpa per associazione, certi media assegnano la responsabilità della posizione di un solo relatore anche ai cugini di terzo grado di quello che ha spazzolato la sala dopo il convegno».E dall’altro lato? «Dall’altro mi auguro che certi distinguo, giusti e comprensibili, non si trasformino nell’accettazione di limiti alla libertà di espressione e al confronto di idee. Quest’altro sarebbe ingiusto e incomprensibile».Detto questo, ritenere che l’aborto non sia un diritto (del resto non risulta sia citato nella Costituzione) non significa avere in mente di cambiare la legge. «Decisamente. Gli stessi autori del saggio, pur contestando che sia un diritto e palesando riserve sulla legge, non avanzano alcuna proposta di modifica. Più volte, anzi, al dibattito hanno separato i due piani, etico e legale. A me sembra siano di più coloro che vogliono cambiare lo stato di cose ma in senso più abortista, ad esempio negando il diritto all’obiezione di coscienza dei medici».Teme che questa vicenda danneggi il vostro lavoro? «Sì. Ora siamo nel mirino e proveranno ad abbatterci con vari mezzi. Già leggo di inviti a dissociarsi e condannarci. Ma francamente tutto ciò era messo in conto quando si è deciso di creare un centro studi ispirato a patriottismo e tradizione, non proprio valori comodi di questi tempi. Spero solo che non ci dovremo difendere anche dal fuoco amico».
Nel riquadro, il chirurgo Ludwig Rehn (IStock)
Non c’era più tempo per il dottor Ludwig Rehn. Il paziente stava per morire dissanguato davanti ai suoi occhi. Era il 7 settembre 1896 e il medico tedesco era allora il primario di chirurgia dell’ospedale civile di Francoforte quando fu chiamato d’urgenza per un giovane giardiniere di 22 anni accoltellato nel pomeriggio e trovato da un passante soltanto ore più tardi in condizioni disperate. Arrivò di fronte al dottor Rehn solo dopo le 3 del mattino. Da questo fatto di cronaca, nascerà il primo intervento a cuore aperto della storia della medicina e della cardiochirurgia.
Il paziente presentava una ferita da taglio al quarto spazio intercostale, appariva pallido e febbricitante con tachicardia, polso debole, aritmia e grave affanno respiratorio (68 atti al minuto quando la norma sarebbe 18-20) aggravato dallo sviluppo di uno pneumotorace sinistro. Condizioni che la mattina successiva peggiorarono rapidamente.
Senza gli strumenti diagnostici odierni, localizzare il danno era estremamente difficile, se non impossibile. Il dottor Rehn riuscì tuttavia ad ipotizzare la posizione del danno mediante semplice auscultazione. La ferita aveva centrato il cuore. Senza esitare, decise di intervenire con un tamponamento cardiaco diretto, un’operazione mai provata precedentemente. Rehn praticò un’incisione di 14 cm all’altezza del quinto intercostale e scoprì la presenza di sangue scuro. Esplorò il pericardio con le mani, quindi lo aprì, esponendo per la prima volta nella storia della medicina un cuore attivo e pulsante, seppur gravemente compromesso e sanguinante. Tra i coaguli e l’emorragia Rehn individuò la ferita da taglio all’altezza del ventricolo destro. Il chirurgo operò una rapida sutura della ferita al cuore con un filo in seta, approfittando della fase di diastole prolungata a causa della sofferenza cardiaca. La sutura fu ripetuta tre volte fino a che l’emorragia si fermò del tutto e dopo un sussulto del cuore, questo riprese a battere più vigoroso e regolare. Prima di richiudere il torace, lavò il cuore ed il pericardio con soluzione idrosalina. Gli atti respiratori scesero repentinamente da 76 a 48, la febbre di conseguenza diminuì. Fu posto un drenaggio toracico che nel decorso postoperatorio rivelò una fase critica a causa di un’infezione, che Rehn riuscì tuttavia a controllare per l’efficacia del drenaggio stesso. Sei mesi dopo l’intervento il medico tedesco dichiarava: «Sono oggi nella fortunata posizione di potervi dichiarare che il paziente è ritornato in buona salute. Oggi è occupato in piccole attività lavorative, in quanto non gli ho al momento permesso nessuno sforzo fisico. Il paziente mostra ottime prospettive di conservazione di un buono stato di salute generale».
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