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2018-09-24
Con la condanna degli intermediari in Nigeria i pm puntano Descalzi. Ma l'assoluzione di Orsi è un salvagente per l'Eni
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Ansa
A San Donato non hanno avuto nemmeno il tempo di festeggiare l'assoluzione dell'ex amministratore delegato
Paolo Scaroni sull'inchiesta in Algeria. L'indomani lo stesso tribunale di Milano ha condannato a quattro anni Obi Emeka e Gianluca Di Nardo, due degli imputati nel processo Eni Nigeria, accusati di essere gli intermediari della presunta tangente da un miliardo e 300 milioni di dollari che sarebbe stata versata da Eni e Shell (entrambe a processo) al governo della Nigeria per l'acquisizione del giacimento Opl-245 sul delta del Niger. Entrambe le compagnie petrolifere hanno sempre negato ogni addebito spiegando di essersi comportante correttamente. Il prossimo 26 settembre incomincerà il troncone del processo principale, dove dovranno rispondere alle accuse di corruzione internazionale lo stesso Scaroni e l'attuale numero uno del cane a sei zampe Claudio Descalzi. Gli avvocati lo hanno capito subito. La condanna di Obi e Di Nardo potrebbe ricadere proprio sul nuovo processo, perché la sentenza di giovedì firmata dal gup Giusi Barbara stabilisce che la corruzione internazionale dei politici nigeriani c'è stata.
Ma
Descalzi rischia qualcosa? La nomina dell'attuale numero uno del cane a sei zampe è sempre stata molto dibattuta. Già nel 2014, quando fu Matteo Renzi a volerlo al posto di Scaroni. Pochi giorni dopo la nomina scoppiò appunto l'indagine Nigeria, ma l'allora presidente del Consiglio decise di difenderlo. Nel 2017 Descalzi è stato riconfermato dal governo di Paolo Gentiloni. Il suo mandato scade nel 2020. Eni è da sempre terreno di scontro in politica e scatena gli appetiti di tutte le maggioranze di governo. Dopo l'insediamento dell'esecutivo gialloblu di Giuseppe Conte a saltare sono stati solo i vertici di Ferrovie dello Stato. Le altre nomine nelle partecipate sono blindate. È evidente che se dovesse arrivare una condanna per Descalzi prima della prossima primavera forse il suo incarico potrebbe essere messo in discussione. Ma il processo è molto lungo. E da quel che si capisce la sentenza potrebbe arrivare non prima di un anno. In sostanza è probabile che l'Africano, come lo chiamano a San Donato, resti in sella fino alla scadenza naturale del mandato, sempre che la pressione mediatica non si faccia sentire nei giorni caldi delle udienze. In più, a quanto pare, Descalzi vanta un buon rapporto con la Lega del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti e del vicepremier Matteo Salvini. Tra i 5 Stelle invece c'è chi vorrebbe che il suo posto lo prendesse Francesco Starace. È ancora presto. Il prossimo anno andrà in scadenza poi il consiglio di amministrazione di Snam, dove siede come amministratore delegato Marco Alverà, un'intera carriera in Eni e di sicuro un possibile nuovo numero uno del cane a sei zampe in futuro. In ogni caso bisognerà aspettare l'esito del processo. Al momento a tirare un sospiro di sollievo è Scaroni, che non è stato ritenuto colpevole di corruzione internazionale nell'altro processo sulla presunta maxi tangente pagata da Saipem in Algeria. I giudici hanno anche assolto anche Antonio Vella, manager di Eni, ex responsabile del gruppo per l'area del Nord Africa. Giudicato non colpevole anche il gruppo del cane a sei zampe. A essere condannata è stata la controllata Saipem, ora anche in pancia a Cassa depositi e prestiti (12%). Secondo l'impianto accusatorio i dirigenti di quella che è considerata tra i più importanti contractor a livello mondiale per la costruzione e manutenzione delle infrastrutture petrolifere, avrebbe versato a una cerchia di politici algerini una maxi tangente da 198 milioni di euro in cambio di commesse petrolifere del valore complessivo di 8 miliardi. Ma l'Algeria non è la Nigeria. Nella seconda inchiesta i magistrati italiani sospettano siano stati proprio Eni e Shell a usare tangenti per ottenere i diritti sull'Opl nel 2011, un giacimento petrolifero offshore che si stima possa arrivare a nove miliardi di barili di greggio. Giovedì scorso il tribunale il giudice italiano ha ordinato la confisca di 98 milioni di dollari a Obi e 21 milioni di franchi svizzeri a Di Nardo dopo averli riconosciuti colpevoli di «corruzione internazionale»: sarebbero parte della tangente destinata agli intermediari. Antonio Tricarico, della Ong italiana Re: Common, da sempre in prima linea in quello che è stato definito il processo del secolo ha spiegato: «I pubblici ministeri di Milano hanno avuto il coraggio di portare coraggiosamente Eni e Shell e i loro top manager a processo. È giunto il momento che il governo italiano, in quanto principale azionista di Eni, consideri di sospendere tutti i dirigenti coinvolti nella causa fino al giudizio finale». Parole al momento cadute nel vuoto.
Le motivazioni dell'appello bis di Orsi: «Nessuna prova di accordo né corruzione»
Sono state depositate le motivazioni dell'assoluzione nell'appello bis dell'ex amministratore delegato di Finmeccanica Giuseppe Orsi. «Non vi è alcuna prova evidente di accordo di corruzione con funzionario pubblico straniero, come asserito nell'accusa». Erano attese da mesi, anche perché adesso spetterà al procuratore generale Gianluigi Fontana decidere se ricorrere o meno in Cassazione, cioè al terzo grado di giudizio. Nel 2016, dopo l'assoluzione nel 2014, Orsi e Bruno Spagnolini, ex numero uno di Agusta Westland, erano stati condannati in secondo grado dal tribunale di Milano per corruzione internazionale sulla nota vicenda degli elicotteri Aw101 venduti in India con una maxi commessa da 560 milioni di euro del 2010. Poi dopo la scoperta di un vizio di forma è stato concesso un nuovo appello. L'inchiesta nasce nel 2013, quando Orsi fu arrestato su ordine della procura di Napoli che indagava sulla corruzione ai piani alti di piazzale Montegrappa. Negli anni il processo si è snodato tra Milano, Busto Arsizio e poi di nuovo Milano. Mentre nel frattempo anche l'India ha aperto un procedimento per incastrare la famiglia del maresciallo Sashi Tyagi, ex capo di stato maggiore dell'Air Force India, che è stato accusato di aver modificato il capitolato di gara per far vincere proprio Agusta Westland, in cambio di una tangente da 50 milioni di euro, poi suddivisa tra tutti gli intermediari dell'operazione. In India la vicenda ha assunto i tratti di una battaglia politica tra il partito di governo di Narendra Modi e l'opposizione di Sonia Gandhi, di origine italiana e per questo accusata di aver anche lei favorito lo scandalo. Il processo Finmeccanica ebbe impatto sulla gestione del nostro colosso della Difesa, ma soprattutto sui rapporti tra Italia e India, già impegnate nella difficile gestione del caso dei due marò.
Le motivazioni, firmate dal presidente Francesca Marcelli, provano a mettere un po' di chiarezza sulla vicenda. I giudici milanesi evidenziano nella sentenza di 322 pagine la mancanza di un riscontro di un pagamento diretto proprio al maresciallo Tyagi. E riprendono in parte l'assoluzione nel primo grado di giudizio. Perché il ragionamento accusatorio, secondo l'accusa, si fondava proprio su questo: che l'intermediaro Guido Haschke, i cittadino svizzero che ha patteggiato una pena a 1 anno e 10 mesi, avesse pagato tutta la famiglia Tyagi. Ma, sostengono i giudici che hanno assolto Orsi e Spagnolini, la somma di denaro pattuita agli indiani si è fermata solo ai fratelli e non al maresciallo. Quindi, «senza il nesso diretto con il pubblico ufficiale straniero», i pagamenti sono stati valutati solo come «consulenziali e di intermediazione». Al contempo viene alleggerita anche la posizione di Christian Michel, il manager inglese che ha affiancato Haschke nell'affare, arrestato a Dubai questa estate come raccontato dalla Verità. L'India ne chiede l'estradizione per processarlo, ma nelle motivazioni della sentenza si legge che l'istruttoria dibattimentale non ha consegnato alcun ruolo ascrivibile a Michel, in particolare proprio nella determinazione dei requisiti di gara né contatti con i maresciallo Tyagi o con i fratelli. Ora si aspettano le decisioni del procuratore generale Fontana.
Alessandro Da Rold
In India la principessa Latifa. Dubai pensa di scambiarla con Michel il presunto intermediaro (scagionato dall'ultima sentenza)
Il deposito delle motivazioni per l'assoluzione di Giuseppe Orsi hanno ricadute sia sul piano internazionale che interno alla nuova Finmeccanica, ovvero Leonardo. Le parole dei giudici milanesi scagionano non solo l'ex amministratore delegato, ma anche gli altri indagati, accusati di aver partecipato ormai più di dieci anni fa a truccare la maxi commessa per i 12 elicotteri di AgustaWestland in cambio di tangenti. Dal 18 luglio scorso si trova nelle carceri di Dubai
Christian Michel, il manager inglese, presunto intermediario della tangente, ora in attesa dell'estradizione verso l'India. In due processi collegati a quello principale, l'intermediario britannico è stato scagionato. Le motivazioni della sentenza confermano la sua estraneità ai fatti. La questione è molto sentita a Nuova Dehli, soprattutto per questioni politiche. Il governo di Nerendra Modi si è costituito parte civile in tutti i processi in Italia e ha chiesto di processare anche Orsi e Bruno Spagnolini, ma la richiesta non è stata concessa dal nostro ministero degli Esteri.
Negli Emirati Arabi Uniti la questione potrebbe essere risolta diversamente. Modi vuole mostrare al suo elettorato di aver fatto tutto il possibile per punire i responsabili di questo caso di corruzione che avrebbe toccato esponenti dell'opposizione. E
Michel è il pesce più facile da catturare. Non solo. A Dubai negli ultimi mesi è successo un fatto molto strano su cui vige la massima riservatezza. A marzo è scomparsa la principessa Latifa bint Mohammed al Maktoum, figlia dello sceicco Mohammed bin Rashid al Maktoum, primo ministro degli Emirati Arabi Uniti ed emiro di Dubai. Lo ha annunciato in un video pubblicato su Youtube creando non pochi imbarazzi alla famiglia reale. La donna è fuggita sullo yacht Nostromo con alcuni amici ma sarebbe stata intercettata proprio al largo della coste dell'India, a 50 miglia da Goa. Secondo quanto ricostruito dai quotidiani stranieri e da Amnesty International, che da mesi chiede chiarezza sulla vicenda, la barca è stata fermata il 3 marzo dalla Guardia costiera indiana. Sarebbero state due in particolare, la Icgs Shoor e la Cgs Samarth, navi militari usate dal governo Modi per pattugliare le coste. All'operazione avrebbero partecipato anche due incrociatori da guerra degli Emirati Arabi, aeri militari e un elicottero. Da marzo della principessa non si sa più nulla. Amnesty ha portato la vicenda anche alle Nazioni Unite, ma di risposte non ne sono arrivate.
A Dubai c'è chi sostiene che l'aiuto da parte degli indiani nel ritrovamento di Latifa potrebbe essere compensato appunto con l'estradizione di
Michel, che potrebbe essere presto portato nelle carceri indiane. Insomma si tratterebbe di un classico caso di scambio diplomatico tra i due Paesi. La prossima settimana sarà decisiva per sapere se l'estradizione andrà in porto o meno. Nel frattempo in piazzale Montegrappa e tra gli ex dirigenti della gestione di Pierfrancesco Guarguaglini c'è chi ha iniziato a ricordare come la scelta del 2014 dell'allora amministratore delegato Mauro Moretti di patteggiare non sia stata così lungimirante. AgustaWestland infatti ammise le proprie responsabilità sulla vicenda accettando così la confisca di 7 milioni e mezzo di euro come profitto del presunto reato di corruzione internazionale in India nel 2010. Ora le motivazioni della sentenza hanno ribaltato il giudizio e messo in cattiva luce quella decisione.
Alessandro Da Rold
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Assolto Paolo Scaroni per le presunte tangenti a Lagos, il tribunale di Milano ha inflitto quattro anni a Obi Emeka e Gianluca Di Nardo. Gli avvocati Eni temono che possa avere ricaschi sul secondo processo: per i giudici infatti c'è stata corruzione internazionale. Pubblichiamo in esclusiva le motivazioni della sentenza bis per l'ex manager di Finmeccanica. «Non vi è alcuna prova evidente di accordo di corruzione con funzionario pubblico straniero, come asserito nell'accusa», si legge nel testo che fa luce nella districata battaglia politica. Una schema che potrebbe applicarsi perfino al dibattimento che coinvolge gli attuali vertici del Cane a sei zampe.Mistero a Dubai. La principessa Latifa bint Mohammed al Maktoum, figlia dello sceicco Mohammed bin Rashid al Maktoum, dopo aver lasciato l'Emirato sarebbe stata fermata in India. Il Paese di Modi medita di scambiarla con Christian Michel, il presunto intermediario della tangente AgustaWestland. Nuova Dehli lo vuole a tutti i costi anche se l'ultimo pronunciamento dei magistrati italiani sembra assolverlo. Lo speciale contiene tre articoli e documenti esclusivi. A San Donato non hanno avuto nemmeno il tempo di festeggiare l'assoluzione dell'ex amministratore delegato Paolo Scaroni sull'inchiesta in Algeria. L'indomani lo stesso tribunale di Milano ha condannato a quattro anni Obi Emeka e Gianluca Di Nardo, due degli imputati nel processo Eni Nigeria, accusati di essere gli intermediari della presunta tangente da un miliardo e 300 milioni di dollari che sarebbe stata versata da Eni e Shell (entrambe a processo) al governo della Nigeria per l'acquisizione del giacimento Opl-245 sul delta del Niger. Entrambe le compagnie petrolifere hanno sempre negato ogni addebito spiegando di essersi comportante correttamente. Il prossimo 26 settembre incomincerà il troncone del processo principale, dove dovranno rispondere alle accuse di corruzione internazionale lo stesso Scaroni e l'attuale numero uno del cane a sei zampe Claudio Descalzi. Gli avvocati lo hanno capito subito. La condanna di Obi e Di Nardo potrebbe ricadere proprio sul nuovo processo, perché la sentenza di giovedì firmata dal gup Giusi Barbara stabilisce che la corruzione internazionale dei politici nigeriani c'è stata. Ma Descalzi rischia qualcosa? La nomina dell'attuale numero uno del cane a sei zampe è sempre stata molto dibattuta. Già nel 2014, quando fu Matteo Renzi a volerlo al posto di Scaroni. Pochi giorni dopo la nomina scoppiò appunto l'indagine Nigeria, ma l'allora presidente del Consiglio decise di difenderlo. Nel 2017 Descalzi è stato riconfermato dal governo di Paolo Gentiloni. Il suo mandato scade nel 2020. Eni è da sempre terreno di scontro in politica e scatena gli appetiti di tutte le maggioranze di governo. Dopo l'insediamento dell'esecutivo gialloblu di Giuseppe Conte a saltare sono stati solo i vertici di Ferrovie dello Stato. Le altre nomine nelle partecipate sono blindate. È evidente che se dovesse arrivare una condanna per Descalzi prima della prossima primavera forse il suo incarico potrebbe essere messo in discussione. Ma il processo è molto lungo. E da quel che si capisce la sentenza potrebbe arrivare non prima di un anno. In sostanza è probabile che l'Africano, come lo chiamano a San Donato, resti in sella fino alla scadenza naturale del mandato, sempre che la pressione mediatica non si faccia sentire nei giorni caldi delle udienze. In più, a quanto pare, Descalzi vanta un buon rapporto con la Lega del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti e del vicepremier Matteo Salvini. Tra i 5 Stelle invece c'è chi vorrebbe che il suo posto lo prendesse Francesco Starace. È ancora presto. Il prossimo anno andrà in scadenza poi il consiglio di amministrazione di Snam, dove siede come amministratore delegato Marco Alverà, un'intera carriera in Eni e di sicuro un possibile nuovo numero uno del cane a sei zampe in futuro. In ogni caso bisognerà aspettare l'esito del processo. Al momento a tirare un sospiro di sollievo è Scaroni, che non è stato ritenuto colpevole di corruzione internazionale nell'altro processo sulla presunta maxi tangente pagata da Saipem in Algeria. I giudici hanno anche assolto anche Antonio Vella, manager di Eni, ex responsabile del gruppo per l'area del Nord Africa. Giudicato non colpevole anche il gruppo del cane a sei zampe. A essere condannata è stata la controllata Saipem, ora anche in pancia a Cassa depositi e prestiti (12%). Secondo l'impianto accusatorio i dirigenti di quella che è considerata tra i più importanti contractor a livello mondiale per la costruzione e manutenzione delle infrastrutture petrolifere, avrebbe versato a una cerchia di politici algerini una maxi tangente da 198 milioni di euro in cambio di commesse petrolifere del valore complessivo di 8 miliardi. Ma l'Algeria non è la Nigeria. Nella seconda inchiesta i magistrati italiani sospettano siano stati proprio Eni e Shell a usare tangenti per ottenere i diritti sull'Opl nel 2011, un giacimento petrolifero offshore che si stima possa arrivare a nove miliardi di barili di greggio. Giovedì scorso il tribunale il giudice italiano ha ordinato la confisca di 98 milioni di dollari a Obi e 21 milioni di franchi svizzeri a Di Nardo dopo averli riconosciuti colpevoli di «corruzione internazionale»: sarebbero parte della tangente destinata agli intermediari. Antonio Tricarico, della Ong italiana Re: Common, da sempre in prima linea in quello che è stato definito il processo del secolo ha spiegato: «I pubblici ministeri di Milano hanno avuto il coraggio di portare coraggiosamente Eni e Shell e i loro top manager a processo. È giunto il momento che il governo italiano, in quanto principale azionista di Eni, consideri di sospendere tutti i dirigenti coinvolti nella causa fino al giudizio finale». Parole al momento cadute nel vuoto. Leggi qui la sentenza Gamacchio.pdf<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/nigeria-eni-descalzi-orsi-2607076216.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="le-motivazioni-dell-appello-bis-di-orsi-nessuna-prova-di-accordo-ne-corruzione" data-post-id="2607076216" data-published-at="1765968288" data-use-pagination="False"> Le motivazioni dell'appello bis di Orsi: «Nessuna prova di accordo né corruzione» Sono state depositate le motivazioni dell'assoluzione nell'appello bis dell'ex amministratore delegato di Finmeccanica Giuseppe Orsi. «Non vi è alcuna prova evidente di accordo di corruzione con funzionario pubblico straniero, come asserito nell'accusa». Erano attese da mesi, anche perché adesso spetterà al procuratore generale Gianluigi Fontana decidere se ricorrere o meno in Cassazione, cioè al terzo grado di giudizio. Nel 2016, dopo l'assoluzione nel 2014, Orsi e Bruno Spagnolini, ex numero uno di Agusta Westland, erano stati condannati in secondo grado dal tribunale di Milano per corruzione internazionale sulla nota vicenda degli elicotteri Aw101 venduti in India con una maxi commessa da 560 milioni di euro del 2010. Poi dopo la scoperta di un vizio di forma è stato concesso un nuovo appello. L'inchiesta nasce nel 2013, quando Orsi fu arrestato su ordine della procura di Napoli che indagava sulla corruzione ai piani alti di piazzale Montegrappa. Negli anni il processo si è snodato tra Milano, Busto Arsizio e poi di nuovo Milano. Mentre nel frattempo anche l'India ha aperto un procedimento per incastrare la famiglia del maresciallo Sashi Tyagi, ex capo di stato maggiore dell'Air Force India, che è stato accusato di aver modificato il capitolato di gara per far vincere proprio Agusta Westland, in cambio di una tangente da 50 milioni di euro, poi suddivisa tra tutti gli intermediari dell'operazione. In India la vicenda ha assunto i tratti di una battaglia politica tra il partito di governo di Narendra Modi e l'opposizione di Sonia Gandhi, di origine italiana e per questo accusata di aver anche lei favorito lo scandalo. Il processo Finmeccanica ebbe impatto sulla gestione del nostro colosso della Difesa, ma soprattutto sui rapporti tra Italia e India, già impegnate nella difficile gestione del caso dei due marò. Le motivazioni, firmate dal presidente Francesca Marcelli, provano a mettere un po' di chiarezza sulla vicenda. I giudici milanesi evidenziano nella sentenza di 322 pagine la mancanza di un riscontro di un pagamento diretto proprio al maresciallo Tyagi. E riprendono in parte l'assoluzione nel primo grado di giudizio. Perché il ragionamento accusatorio, secondo l'accusa, si fondava proprio su questo: che l'intermediaro Guido Haschke, i cittadino svizzero che ha patteggiato una pena a 1 anno e 10 mesi, avesse pagato tutta la famiglia Tyagi. Ma, sostengono i giudici che hanno assolto Orsi e Spagnolini, la somma di denaro pattuita agli indiani si è fermata solo ai fratelli e non al maresciallo. Quindi, «senza il nesso diretto con il pubblico ufficiale straniero», i pagamenti sono stati valutati solo come «consulenziali e di intermediazione». Al contempo viene alleggerita anche la posizione di Christian Michel, il manager inglese che ha affiancato Haschke nell'affare, arrestato a Dubai questa estate come raccontato dalla Verità. L'India ne chiede l'estradizione per processarlo, ma nelle motivazioni della sentenza si legge che l'istruttoria dibattimentale non ha consegnato alcun ruolo ascrivibile a Michel, in particolare proprio nella determinazione dei requisiti di gara né contatti con i maresciallo Tyagi o con i fratelli. Ora si aspettano le decisioni del procuratore generale Fontana.Alessandro Da Rold <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/nigeria-eni-descalzi-orsi-2607076216.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="in-india-la-principessa-latifa-dubai-pensa-di-scambiarla-con-michel-il-presunto-intermediaro-scagionato-dall-ultima-sentenza" data-post-id="2607076216" data-published-at="1765968288" data-use-pagination="False"> In India la principessa Latifa. Dubai pensa di scambiarla con Michel il presunto intermediaro (scagionato dall'ultima sentenza) Il deposito delle motivazioni per l'assoluzione di Giuseppe Orsi hanno ricadute sia sul piano internazionale che interno alla nuova Finmeccanica, ovvero Leonardo. Le parole dei giudici milanesi scagionano non solo l'ex amministratore delegato, ma anche gli altri indagati, accusati di aver partecipato ormai più di dieci anni fa a truccare la maxi commessa per i 12 elicotteri di AgustaWestland in cambio di tangenti. Dal 18 luglio scorso si trova nelle carceri di Dubai Christian Michel, il manager inglese, presunto intermediario della tangente, ora in attesa dell'estradizione verso l'India. In due processi collegati a quello principale, l'intermediario britannico è stato scagionato. Le motivazioni della sentenza confermano la sua estraneità ai fatti. La questione è molto sentita a Nuova Dehli, soprattutto per questioni politiche. Il governo di Nerendra Modi si è costituito parte civile in tutti i processi in Italia e ha chiesto di processare anche Orsi e Bruno Spagnolini, ma la richiesta non è stata concessa dal nostro ministero degli Esteri. Negli Emirati Arabi Uniti la questione potrebbe essere risolta diversamente. Modi vuole mostrare al suo elettorato di aver fatto tutto il possibile per punire i responsabili di questo caso di corruzione che avrebbe toccato esponenti dell'opposizione. E Michel è il pesce più facile da catturare. Non solo. A Dubai negli ultimi mesi è successo un fatto molto strano su cui vige la massima riservatezza. A marzo è scomparsa la principessa Latifa bint Mohammed al Maktoum, figlia dello sceicco Mohammed bin Rashid al Maktoum, primo ministro degli Emirati Arabi Uniti ed emiro di Dubai. Lo ha annunciato in un video pubblicato su Youtube creando non pochi imbarazzi alla famiglia reale. La donna è fuggita sullo yacht Nostromo con alcuni amici ma sarebbe stata intercettata proprio al largo della coste dell'India, a 50 miglia da Goa. Secondo quanto ricostruito dai quotidiani stranieri e da Amnesty International, che da mesi chiede chiarezza sulla vicenda, la barca è stata fermata il 3 marzo dalla Guardia costiera indiana. Sarebbero state due in particolare, la Icgs Shoor e la Cgs Samarth, navi militari usate dal governo Modi per pattugliare le coste. All'operazione avrebbero partecipato anche due incrociatori da guerra degli Emirati Arabi, aeri militari e un elicottero. Da marzo della principessa non si sa più nulla. Amnesty ha portato la vicenda anche alle Nazioni Unite, ma di risposte non ne sono arrivate. A Dubai c'è chi sostiene che l'aiuto da parte degli indiani nel ritrovamento di Latifa potrebbe essere compensato appunto con l'estradizione di Michel, che potrebbe essere presto portato nelle carceri indiane. Insomma si tratterebbe di un classico caso di scambio diplomatico tra i due Paesi. La prossima settimana sarà decisiva per sapere se l'estradizione andrà in porto o meno. Nel frattempo in piazzale Montegrappa e tra gli ex dirigenti della gestione di Pierfrancesco Guarguaglini c'è chi ha iniziato a ricordare come la scelta del 2014 dell'allora amministratore delegato Mauro Moretti di patteggiare non sia stata così lungimirante. AgustaWestland infatti ammise le proprie responsabilità sulla vicenda accettando così la confisca di 7 milioni e mezzo di euro come profitto del presunto reato di corruzione internazionale in India nel 2010. Ora le motivazioni della sentenza hanno ribaltato il giudizio e messo in cattiva luce quella decisione. Alessandro Da Rold
«Il governo belga si sta opponendo all’utilizzo dei fondi russi per timore di dover rimborsare l’intero importo qualora la Russia tentasse di recuperare il denaro», ha riferito Politico, per poi aggiungere: «Ma, a complicare ulteriormente la situazione, altri quattro Paesi - Italia, Malta, Bulgaria e Repubblica Ceca - hanno appoggiato la richiesta del Belgio di valutare finanziamenti alternativi per l’Ucraina, come il debito congiunto». A favore dell’uso dei beni russi congelati si è invece detta la Germania, che si è al contempo espressa contro il ricorso alla condivisione del debito. «Non illudiamoci. Se non ci riusciremo, la capacità di agire dell’Unione europea sarà gravemente compromessa per anni, se non per un periodo più lungo», ha dichiarato lunedì Friedrich Merz, riferendosi all’uso degli asset russi. Più sfumata appare invece la posizione della Francia, che non sembrerebbe del tutto ostile all’idea di ricorrere agli Eurobond. Nel frattempo, ieri Reuters ha riferito che i parlamentari italiani di maggioranza hanno stilato un documento, in cui si esorta il governo «a chiedere alla Commissione europea di condurre un esame approfondito degli aspetti legali e finanziari di tutte le opzioni di finanziamento sul tavolo». Si tratta di una risoluzione che dovrebbe essere votata nella giornata di oggi.
Come che sia, un diplomatico dell’Ue ha fatto sapere a Politico che sulla questione degli asset russi «non ci sarà alcun accordo fino al Consiglio europeo», che prenderà il via domani. «La Commissione europea ha presentato, tramite testo legislativo, due opzioni. Una era l’opzione per le riparazioni, che può essere attuata tramite la proposta legislativa presentata dalla Commissione a maggioranza qualificata. L’altra è l’opzione di un prestito, utilizzando come garanzia il margine di manovra del bilancio europeo. Questa opzione richiede l’unanimità», ha dichiarato un alto funzionario europeo. «È stato molto chiaro fin dal primo dibattito svoltosi tra gli ambasciatori che non c’era l’unanimità per quella seconda opzione, che è stata quindi messa da parte per concentrarsi sul prestito di riparazione. Non è un segreto che il prestito di riparazione sia la soluzione preferita da una considerevole maggioranza degli Stati membri», ha continuato. «Spetta ai leader decidere, ma credo che tutti i leader siano ben consapevoli della posta in gioco sproporzionata del Belgio in una soluzione basata sul prestito di riparazione. E questo viene preso in considerazione da tutti i leader e certamente il presidente del Consiglio europeo ne è ben consapevole», ha affermato un’altra fonte dell’Ue, che ha proseguito: «Tra l’altro, il negoziato sul prestito di riparazione si è svolto principalmente e soprattutto in base alle preoccupazioni del Belgio. E penso che questo sia anche un segno che tutti intorno al tavolo - gli Stati membri e certamente i leader - riconoscono la posta in gioco per il Belgio. Quindi il negoziato è in gran parte incentrato sulla condivisione di qualsiasi rischio o costo derivante da questa soluzione con il Belgio». Nell’Ue, se non panico, c’è «un senso di urgenza», come hanno detto ieri alcune fonti di Bruxelles. «Una decisione va presa».
Ricordiamo che i beni russi congelati sono detenuti da Euroclear Bank, che ha sede in Belgio. E proprio contro questo istituto ha fatto recentemente causa, davanti al Tribunale commerciale di Mosca, la banca centrale russa, chiedendo 230 miliardi di dollari di danni. «Se la banca centrale vincesse, potrebbe chiedere l’esecuzione forzata degli asset di Euroclear in altre giurisdizioni, in particolare quelle considerate ’amichevoli’ dalla Russia», ha sottolineato Reuters l’altro ieri. «Alcuni gestori di fondi avvertono che un’eventuale decisione di utilizzare i beni congelati aumenterebbe i rischi politici legati al possesso di asset in euro e metterebbe persino in dubbio il loro status di rifugio globale», aveva inoltre riportato, dieci giorni fa, il Financial Times. D’altronde, secondo il sito australiano The Conversation, «se gli operatori di mercato temessero sequestri di beni per motivi politici, potrebbero trasferire le proprie attività in giurisdizioni ritenute più sicure».
Insomma, la questione è insidiosa sul fronte tecnico. E poi emerge il nodo politico. Per l’ennesima volta, ci troviamo di fronte a un’Unione europea spaccata. Il dossier degli asset è scivoloso. Ed è tutto da dimostrare che il Consiglio europeo riuscirà a trovare una quadra su di esso.
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Da sinistra: Friedrich Merz, Keir Starmer, Volodymyr Zelensky ed Emmanuel Macron (Ansa)
Mentre il summit europeo di Berlino sulla pace in Ucraina è stato celebrato come un successo da chi ne ha preso parte, le proposte contenute nella dichiarazione congiunta dei leader dell’Europa sembrano fatte per essere rifiutate. E Mosca ha già iniziato a manifestare i primi segnali di chiusura.
A meno di 24 ore di distanza dal vertice, il Cremlino è convinto che la partecipazione degli europei alle trattative «non promette bene». E anche di fronte alle dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che intravede la conclusione del conflitto, Mosca resta cauta. Il tycoon, dopo aver parlato lunedì sera con i primi ministri e i capi di Stato europei, aveva subito dichiarato: «Siamo più vicini che mai alla fine della guerra», aggiungendo anche di essere stato in contatto «di recente con Vladimir Putin». A smentire però la telefonata è stato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov: i due leader non si sono più sentiti dopo il 16 ottobre. Il portavoce ha anche spiegato che Mosca «non ha ricevuto» alcun segnale dopo i round di negoziati a Berlino, e anche per questo dovrà valutare «quello che sarà il risultato dei negoziati che gli americani conducono con gli ucraini, con la partecipazione degli europei». Che Mosca non abbia ancora compreso l’esito dei summit è evidente anche dalle parole del viceministro degli Esteri russo, Sergej Ryabkov: «Non abbiamo idea di cosa succeda lì». Stando a quanto rivelato dal presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, si tratterebbe di una questione di giorni: i piani di pace, che dovrebbero essere finalizzati a breve, saranno poi presentati alla Russia dagli inviati americani.
Ma il niet russo è già arrivato in merito all’impegno europeo per «una forza multinazionale Ucraina a guida europea, composta dai contributi delle nazioni disponibili nell’ambito della coalizione dei Volenterosi e sostenuta dagli Stati Uniti». La posizione di Mosca era già nota, ma ieri il viceministro degli Esteri russo in un’intervista ad Abc News, ha ribadito: «Non sottoscriveremo, accetteremo o saremo nemmeno soddisfatti di alcuna presenza di truppe Nato sul territorio ucraino». Lo stesso rifiuto si applica anche qualora la forza multinazionale fosse parte di una garanzia di sicurezza o della Coalizione dei volenterosi. A intervenire in merito è stato anche Peskov che, affermando che Mosca «non ha visto alcun testo» sulla proposta europea della forza multinazionale, ha precisato: «La nostra posizione è ben nota, coerente e trasparente ed è chiara agli americani».
A ciò si aggiunge il grattacapo dei territori, con nessuna delle due parti che è disposta a cedere. Zelensky, a margine del vertice, ha ripetuto che «l’Ucraina non riconoscerà il Donbass come territorio russo, né de jure né de facto». L’impegno di Kiev è quello di continuare a «discuterne nonostante tutto». Il presidente ucraino pare quindi non prendere ancora sul serio le parole di Trump, che ha confermato che «il territorio del Donbass è già perso» per l’Ucraina. Dall’altra parte, anche la posizione russa resta immutata: Ryabkov ha detto che Mosca non scenderà «a compromessi» su Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhia, Kherson e Crimea. Ed è anche in quest’ottica, con i soldati russi che continuano ad avanzare, che il Cremlino ha rifiutato la tregua natalizia avanzata dal cancelliere tedesco, Friedrich Merz. Peskov ha infatti sottolineato: «Vogliamo la pace, non una tregua che dia sollievo agli ucraini e permetta loro di prepararsi a continuare la guerra».
Un altro tassello complicato riguarda Kiev e l’Ue, anche se non dalla prospettiva russa. Nell’ultimo punto della dichiarazione congiunta dei leader europei si afferma: «Il fermo sostegno all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea». Ma da parte italiana emergono alcune perplessità. Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha osservato che ritiene «difficile» l’ingresso dell’Ucraina sia nella Nato sia nell’Ue «non per motivi politici ma agricoli, conoscendo gli agricoltori polacchi, francesi, italiani e tedeschi». A ribadire la sua contrarietà è stato poi il premier ungherese, Viktor Orbàn: «Il popolo ungherese ha detto che non vuole stare in un’Unione con l’Ucraina». Tornando alla linea dell’Italia, riguardo alle garanzie di sicurezza simili all’articolo 5 della Nato di cui «gli americani ne saranno parte», il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha ricordato che si tratta della «proposta italiana» che è stata «accolta» perché «di buon senso». Ma ad essere accolte, sul fronte opposto, sono state anche le dichiarazioni inerenti al riarmo del vicepremier, Matteo Salvini: «Se Hitler e Napoleone non sono riusciti a mettere in ginocchio Mosca con le loro campagne in Russia, è improbabile che Kallas, Macron, Starmer e Merz abbiano successo». Per la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova «il paragone è preciso, la conclusione è indiscutibile».
Nato e referendum sul Donbass: la guerra poteva finire già nel 2022
Il nostro articolo del 27 febbraio 2022 concludeva con queste parole: «Forse si potrebbe auspicare che la Nato dichiari di rinunciare, una volta per tutte, ad «invitare» l’Ucraina a farvi parte; e che le regioni ucraine oggetto del contendere siano sottoposte a nuovo referendum». Dopo quasi quattro anni di guerra, leggiamo che «Volodymyr Zelensky apre: no a Kiev nella Nato».
Inoltre, a chi gli chiedeva se egli sarebbe stato disponibile a concedere territori come parte di un accordo di pace, Zelensky rispondeva che «la cosa non può essere decisa unilateralmente dal governo o dagli alleati, ma deve avere un mandato popolare, cioè il popolo ucraino deve essere coinvolto tramite un qualche processo democratico, nel formato di elezioni o di referendum». Che il nostro auspicio di quattro anni fa coincida con le conclusioni cui sarebbe alla fine pervenuto Zelensky dopo quattro anni, è, a mio parere, l’ulteriore prova della inadeguatezza di un uomo chiamato a gestire una situazione più grande, molto più grande, di lui. E non si tratta solo di inadeguatezza, ma anche di irresponsabilità. Perché le cose - se vogliamo capirle - dobbiamo dirle tutte. Dobbiamo quindi dire che già il 15 marzo 2022 Zelensky dichiarava: «Abbiamo capito che l’Ucraina non diventerà un membro della Nato, e dobbiamo riconoscere che non ci sono porte aperte». Insomma, il dover abbandonare ogni velleità di aderire alla Nato, più che una apertura di questi giorni, era una consapevolezza acquisita già quattro anni fa. Il che impone la cogente domanda: perché ha continuato la guerra e non si arrese quel 15 marzo 2022? Prima o poi, se non da un tribunale, sicuramente dalla Storia, questa domanda gli verrà posta.
Un’altra domanda che gli si dovrà porre è da dove gli è mai venuta l’idea di una Nato dalle «porte aperte». L’art. 10 del Patto Atlantico prevede che i membri «possono, con accordo unanime, invitare qualsiasi altro Stato europeo ad aderire al Trattato»; cosicché per far parte della Nato bisogna 1) essere uno Stato europeo, 2) essere invitati da chi membro lo è già, e 3) essere invitati all’unanimità. È vero che, subito dopo la fine della Guerra fredda, sebbene ci fosse stata da parte dei vertici della Nato una promessa verbale di non espansione a est della Germania, quegli stessi vertici si preoccuparono di far sapere al mondo intero che non ci sarebbero state preclusioni di principio per l’allargamento della Nato. Tuttavia, l’articolo 10 del Trattato è rimasto immutato. Insomma, Zelensky mai poteva allora, né può ora accampare diritti in ordine alla adesione dell’Ucraina alla Nato. E fa sorridere che codesta volontà di adesione sia stata scritta, addirittura, nella Costituzione ucraina, quando la cosa non dipende dalla volontà dell’Ucraina. E fa sorridere ancora di più, perché questa volontà fu addirittura un emendamento del 2019 alla Costituzione del 1996 che invece garantiva l’Ucraina quale Stato militarmente neutrale.
Anche l’altra recente affermazione di Zelensky sul possibile referendum in ordine alla «cessione» dei territori ripropone la sprovvedutezza dell’uomo. Quattro anni fa l’idea poteva sorgere spontanea. E, anzi, doveva sorgere già nel 2014. Allora, in seguito allo spodestamento del presidente Viktor Yanukovich, legittimamente eletto anche col forte sostegno dei voti dei cittadini di Crimea e del Donbass, questi decidevano di separarsi dal governo centrale con un referendum. Il referendum era, ovviamente, illegittimo; ma poneva un problema politico che in un sistema sedicente democratico avrebbe dovuto risolversi in qualche modo. Ma, anziché invocare il principio, sancito dalla Carta Onu, dell’autodeterminazione dei popoli e far ripetere i referendum sotto il controllo internazionale, la comunità internazionale girava le spalle al Donbass che si dichiarava indipendente; e sanzionava la Russia cui la Crimea si era confederata.
L’impressione è che, se fosse assennato, a Zelensky converrebbe mollare la Ue e affidarsi esclusivamente a Donald Trump. Se da un lato questi vorrebbe far finire quanto prima la guerra, e pertanto appare disponibile ad accontentare le pretese di Putin, dall’altro ha interesse a minimizzarne i vantaggi, cosa che indirettamente significa anche minimizzare gli svantaggi per l’Ucraina. Le cui disgrazie sono anche in parte dovute a quel «f**k the Eu» pronunciato - da Victoria Nuland, nel 2014 responsabile americana agli affari euroasiatici - a detrimento dell’Ucraina. Forse è venuto il momento per Zelensky di pronunciare la stessa invettiva a vantaggio del proprio Paese.
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Il viceministro degli Esteri israeliano Sharren Haskel (MFA/Mordehai Gordon)
Viceministro, la pace sembra essere ancora molto lontana in Medioriente.
«La situazione è particolarmente complessa e stiamo lavorando in patria e all’estero per garantire la sicurezza dei cittadini israeliani e di tutti gli ebrei. A Gaza, Hamas non vuole consegnare le armi, bloccando l’inizio della Fase 2, ma la nostra pazienza ha un limite. Nella Striscia serve sicurezza e democrazia, due cose che Hamas combatte da sempre. Io personalmente non ho nessuna fiducia negli attuali leader palestinesi: molti di loro fanno dichiarazioni in arabo contro Israele e poi in inglese si fingono democratici. Glorificano i terroristi e fomentano la violenza. E così fanno solo il male dei palestinesi».
Il presidente statunitense, Donald Trump, vuole inserire anche l’Italia nel cosiddetto Consiglio di pace per Gaza.
«Siamo assolutamente favorevoli a coinvolgere l’Italia. Abbiamo grande fiducia sia nei militari che nei politici italiani. Il governo di Roma si sta adoperando per raggiungere la pace e io personalmente conosco il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, e ne apprezzo la grande capacità diplomatica. Siamo però molto delusi da alcune nazioni europee come la Spagna e l’Irlanda, che hanno deciso di riconoscere la Palestina. Questo riconoscimento non è niente, non esiste e non ha senso che esista. Si tratta di un gravissimo errore politico, non fanno altro che riconoscere Hamas e i suoi crimini. Dopo aver rapito, stuprato e ucciso civili innocenti, i terroristi ne escono rafforzati perché vengono premiati da questi Paesi».
Anche il confine settentrionale resta problematico.
«Non ci fidiamo assolutamente del nuovo regime in Siria. Abu Muhamnad Al Jolani, lo chiamo ancora così perché resta un pericoloso jihadista che ha buttato la tunica e indossato la cravatta, sta uccidendo le minoranze, dagli alawiti ai cristiani, ma soprattutto i drusi che Israele ha deciso di difendere. I drusi israeliani sono parte integrante della nostra società, servono nell’Idf come soldati e sono cittadini a tutti gli effetti. I loro fratelli siriani vengono massacrati solo perché sono una minoranza e noi non lo permetteremo. Hezbollah rimane un pericolo per Israele anche se la sua forza è diminuita, ma grazie ai crimini che commettono con il traffico di droga e armi dal Sud America presto torneranno a essere un pericolo. Stiamo facendo pressioni sul governo libanese perché acceleri il disarmo di Hezbollah, che ancora non è stato fatto nonostante sia ufficialmente iniziato ad agosto. Il presidente del Libano, Joseph Aoun, ha promesso che l’esercito nazionale avrà il monopolio della forza, ma deve ancora dimostrarlo».
L’attentato contro la comunità ebraica a Bondi Beach, in Australia, ha portato l’attenzione ai massimi livelli e l’ambasciatore d’Israele a Roma, Jonathan Peled, ha dichiarato che gli ebrei non si sentono sicuri neanche in Italia.
«Con il governo di Roma c’è una stretta e proficua collaborazione e sappiamo che cerca di garantire sempre la sicurezza degli ebrei in Italia. Ma le parole del nostro ambasciatore derivano dalle manifestazioni che ci sono state nel vostro Paese, dove abbiamo visto molti episodi di antisemitismo, che vanno condannati con maggiore determinazione. Il sostegno alla causa della Palestina è soltanto una scusa per attaccarci e per questo motivo serve particolare attenzione per gli ebrei in tutto il mondo. Israele combatte molti nemici, ma il più pericoloso rimane il pregiudizio nei nostri confronti, che nella storia ha causato tante tragedie».
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Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 17 dicembre con Flaminia Camilletti