True
2022-12-06
Su Netflix arriva la serie tv italiana sul Natale
True
«Odio il Natale» (Netflix)
Vedere Boris, nel suo ultimo capitolo, ha compromesso irrimediabilmente la nostra capacità di giudizio. «Lock», «storie teen», lo spettro degli apostoli coreani si sono insinuati nelle nostre menti e lì hanno attecchito, terreno fertile. Ci hanno spinti al gioco, a tentare un raffronto: quanto Boris, quanta «piattaforma», potremmo trovare nella realtà televisiva? Così è cominciato tutto, un’ossessione. Boris ci ha costretti a leggere ogni serie così come avrebbe fatto «la piattaforma», il suo algoritmo. E Odio il Natale, su Netflix dal 7 dicembre, non ha saputo sfuggire a questo richiamo perverso. La nuova serie Netflix, un originale italiano, sembra essere stata costruita per compiacere la Alison di Boris, per indurla a pronunciare le quattro lettere magiche: «lock», via alla produzione. Dentro, ha tutto. Ha la storia teen, leggasi un amorazzo (tardo)adolescenziale, la rappresentazione delle minoranze, etniche, religiose, la normalizzazione della disabilità, il canto (ormai trito) dell’indipendenza femminile. È fatta, o così pare, per assecondare le mode e l’algoritmo. Eppure, diversamente da tanti prodotti similari, funziona.
Odio il Natale, con Pilar Fogliati nei panni di una trentenne single, e non per scelta, è una commedia leggera, nell’accezione più positiva che il termine possa avere. In otto episodi, ricostruisce il tentativo goffo quanto umano di risparmiarsi il calvario legato alle pressioni esterne, quelle della società e, spesso, della famiglia. È la risposta televisiva ai troppi «E il fidanzatino? I figli? Il matrimonio». È la paura di una ragazza di non riuscire a trovare l’uomo che cerca, l’amore, di vedersi relegata ai margini della vita sociale, costretta a subire gli sguardi compassionevoli della propria madre. Odio il Natale è la storia di Gianna. Ma in quella Chioggia vestita a festa, accanto a canali meno blasonati dei corrispettivi veneziani, si muove tutto il genere umano. Non Gianna, non Pilar Fogliati, ma chiunque si sia trovato single, il Natale ad un passo e la sensazione di essere preso tra due fuochi, la famiglia e la sfiga. Odio il Natale è la storia di tutti noi, romanzata certo, ma universale, in un senso da cui altre e pretenziose produzioni dovrebbero prendere esempio.
L’ultima serie Netflix funziona - anche e soprattutto - perché priva di quella boria che ha segnato altri show, non da ultimo l’adattamento (Netflix, di nuovo) di Fedeltà. È semplice, genuina. Manca, cara grazia, della pretesa intellettuale che porta la maggioranza delle serie italiane a volersi rivolgere al mondo tutto, cancellando con ciò ogni loro rimando identitario. Odio il Natale è una storia di provincia, di una provincia orgogliosa, delle sue botteghe e dei suoi bambin Gesù, di un accento veneto che non è mai macchiettistico. E in questa fedeltà, non folkloristica ma reale, al territorio Odio il Natale ha un punto di forza, una caratteristica peculiare, qualcosa che sa accompagnare, e piacevolmente, la visione. Sorrisi, dunque, non occhi al cielo.
Continua a leggereRiduci
Odio il Natale, disponibile da domani 7 dicembre, ha tutto: la storia teen, la rappresentazione delle minoranze, la normalizzazione della disabilità, il canto dell’indipendenza femminile. È fatta per assecondare le mode e l’algoritmo. Eppure, funziona.Vedere Boris, nel suo ultimo capitolo, ha compromesso irrimediabilmente la nostra capacità di giudizio. «Lock», «storie teen», lo spettro degli apostoli coreani si sono insinuati nelle nostre menti e lì hanno attecchito, terreno fertile. Ci hanno spinti al gioco, a tentare un raffronto: quanto Boris, quanta «piattaforma», potremmo trovare nella realtà televisiva? Così è cominciato tutto, un’ossessione. Boris ci ha costretti a leggere ogni serie così come avrebbe fatto «la piattaforma», il suo algoritmo. E Odio il Natale, su Netflix dal 7 dicembre, non ha saputo sfuggire a questo richiamo perverso. La nuova serie Netflix, un originale italiano, sembra essere stata costruita per compiacere la Alison di Boris, per indurla a pronunciare le quattro lettere magiche: «lock», via alla produzione. Dentro, ha tutto. Ha la storia teen, leggasi un amorazzo (tardo)adolescenziale, la rappresentazione delle minoranze, etniche, religiose, la normalizzazione della disabilità, il canto (ormai trito) dell’indipendenza femminile. È fatta, o così pare, per assecondare le mode e l’algoritmo. Eppure, diversamente da tanti prodotti similari, funziona.Odio il Natale, con Pilar Fogliati nei panni di una trentenne single, e non per scelta, è una commedia leggera, nell’accezione più positiva che il termine possa avere. In otto episodi, ricostruisce il tentativo goffo quanto umano di risparmiarsi il calvario legato alle pressioni esterne, quelle della società e, spesso, della famiglia. È la risposta televisiva ai troppi «E il fidanzatino? I figli? Il matrimonio». È la paura di una ragazza di non riuscire a trovare l’uomo che cerca, l’amore, di vedersi relegata ai margini della vita sociale, costretta a subire gli sguardi compassionevoli della propria madre. Odio il Natale è la storia di Gianna. Ma in quella Chioggia vestita a festa, accanto a canali meno blasonati dei corrispettivi veneziani, si muove tutto il genere umano. Non Gianna, non Pilar Fogliati, ma chiunque si sia trovato single, il Natale ad un passo e la sensazione di essere preso tra due fuochi, la famiglia e la sfiga. Odio il Natale è la storia di tutti noi, romanzata certo, ma universale, in un senso da cui altre e pretenziose produzioni dovrebbero prendere esempio. L’ultima serie Netflix funziona - anche e soprattutto - perché priva di quella boria che ha segnato altri show, non da ultimo l’adattamento (Netflix, di nuovo) di Fedeltà. È semplice, genuina. Manca, cara grazia, della pretesa intellettuale che porta la maggioranza delle serie italiane a volersi rivolgere al mondo tutto, cancellando con ciò ogni loro rimando identitario. Odio il Natale è una storia di provincia, di una provincia orgogliosa, delle sue botteghe e dei suoi bambin Gesù, di un accento veneto che non è mai macchiettistico. E in questa fedeltà, non folkloristica ma reale, al territorio Odio il Natale ha un punto di forza, una caratteristica peculiare, qualcosa che sa accompagnare, e piacevolmente, la visione. Sorrisi, dunque, non occhi al cielo.
Giorgia Meloni (Imagoeconomica)
L’attuale governo sta mostrando la consapevolezza di dover sostenere, con una politica estera molto attiva sul piano globale, il modello economico italiano basato sull’export che è messo a rischio - gestibile, ma comunque problematico per parecchi settori sul piano dei margini finanziari - dai dazi statunitensi, dalla crisi autoinflitta per irrealismo ambientalista ed eccessi burocratici dell’Ue, dai costi eccessivi dell’energia e, in generale, dal cambio di mondo in atto senza dimenticare la crisi demografica. Vedremo dopo le soluzioni interne, ma qui va sottolineato che l’Italia non può trasformare il proprio modello economico dipendente dall’export senza perdere ricchezza. La consapevolezza di questo punto è provata dalla riforma del ministero degli Esteri: accanto alla Direzione politica, verrà creata nel prossimo gennaio una Direzione economica con la missione di sostenere l’internazionalizzazione e l’export delle imprese italiane in tutto il mondo. Non è una novità totale, ma mostra una concentrazione di risorse e capacità geoeconomiche e geopolitiche finalmente adeguate alla missione di un’Italia globale, per inciso titolo del mio libro pubblicato nell’autunno 2023 (Rubbettino editore). Con quale meccanismo di moltiplicazione del potere negoziale italiano? Tradizionalmente, via la duplice convergenza con Ue e Stati Uniti pur sempre più complicata, ma con più autonomia per siglare partenariati bilaterali strategici di cooperazione economica-industriale (i trattati doganali sono competenza dell’Ue, condizione necessaria per un mercato unico europeo essenziale per l’Italia) a livello mondiale.
E con un metodo al momento solo italiano: partenariati bilaterali con reciproco vantaggio, cioè non asimmetrici. Con priorità l’Africa (al momento, 14 nazioni) ed il progetto di «Via del cotone» (Imec) tra Indo-Pacifico, Mediterraneo ed Atlantico settentrionale via penisola arabica. La nuova (in realtà vecchia perché elaborata dal Partito repubblicano nel 2000) dottrina di sicurezza nazionale statunitense è di ostacolo ad un Italia globale? No, perché, pur essendo divergente con l’Ue, non lo è con le singole nazioni europee, con qualche eccezione. Soprattutto, le chiama a un maggiore attivismo per la loro sicurezza, lasciando di fatto in cambio spazio geopolitico. Come potrà Roma usarlo? Aumentando i suoi bilaterali strategici e approfondendoli con Giappone, India, nazioni arabe sunnite, Asia centrale (rilevante l’accordo con la Mongolia se riuscisse) ecc. Quale nuovo sforzo? Necessariamente integrare una politica mercantilista con i requisiti di schieramento geopolitico. E con un riarmo non solo concentrato contro la minaccia russa, ma mirato a novità tecnologiche utili per scambiare strumenti di sicurezza con partner compatibili. Ovviamente è oggetto di studio, ma l’Italia ha il potenziale per farlo via progetti condivisi con America, europei e giapponesi nonché capacità proprie. Considerazione che ci porta a valutare la modernizzazione interna dell’Italia perché c’è una relazione stretta tra potenziale esterno e interno.
Obiettivi interni
La priorità è ridurre il costo del debito pubblico per aumentare lo spazio di bilancio utile per investimenti e detassazione stimolativi. Ciò implica la sostituzione del Pnrr, che finirà nel 2026, con un programma nazionale stimolativo (non condizionato dall’esterno) di dedebitazione: valorizzare e cedere dai 250 a 150 miliardi di patrimonio statale disponibile, forse di più (sui 600-700 teorici) in 15 anni. Se ben strutturata, tale operazione «patrimonio pubblico contro debito» potrà dare benefici anticipativi via aumento del voto di affidabilità del debito italiano riducendone il costo di servizio che oggi è di 80-90 miliardi anno. Già tale costo è stato un po’ ridotto dal giusto rigore della politica di bilancio per il 2026. Con il nuovo programma qui ipotizzato, da avviare nel 2027 per sua complessità, lo sarà molto di più dando all’Italia più risorse per spesa sociale, di investimenti competitivi e minori tasse.
Stimo dai 10 ai 18 miliardi anno di risparmio sul costo del debito e un aumento di investimenti esteri in Italia perché con voto di affidabilità (rating) crescente. Senza tale programma, l’Italia sarebbe condizionabile dalla concorrenza intraeuropea e senza i soldi sufficienti per la politica globale detta sopra. Ci sono tante altre priorità tecniche sia per invertire più decisamente il lento declino economico dell’Italia, causato da governi di sinistra e/o dissipativi, sia per rendere più globalmente competitiva l’economia italiana. Ma sono fattibili via un nuovo clima di cultura politica che crei fiducia ed ottimismo sul potenziale globale dell’Italia. Come? Più ordine interno, investimenti sulla qualificazione cognitiva di massa, sulla rivoluzione tecnologica, in sintesi su un’Italia futurizzante. L’obiettivo è attrarre più capitale e competenze dall’estero, comunicando credibilmente al mondo che l’Italia è terra di libertà, sicurezza, opportunità e progresso. Non può farlo solo la politica, ma ci vuole il contributo dei privati entro un concetto di «nazione attiva», aperta al mondo e non chiusa. Ritroviamo il vento, gli oceani.
www.carlopelanda.com
Continua a leggereRiduci
Lando Norris (Getty Images)
Nell’ultimo GP stagionale di Abu Dhabi, Lando Norris si laurea campione del mondo per la prima volta grazie al terzo posto sul circuito di Yas Marina. Nonostante la vittoria in gara, Max Verstappen non riesce a difendere il titolo, interrompendo il suo ciclo di quattro mondiali consecutivi.
Lando Norris è campione del mondo. Dopo quattro anni di dominio incontrastato di Max Verstappen, il pilota britannico centra il titolo iridato al termine di una stagione in cui ha saputo coniugare costanza, precisione e lucidità nei momenti decisivi. La vittoria ad Abu Dhabi, conquistata con una gara solida e senza errori, suggella un percorso iniziato con un Mondiale che sembrava già scritto a favore dell’olandese.
La stagione ha visto Norris prendere il comando delle operazioni già nelle prime gare, approfittando di alcuni passaggi a vuoto di Verstappen e di una gestione impeccabile del suo team. Il britannico ha messo in mostra una costanza rara, evitando rischi inutili e capitalizzando ogni occasione: punti preziosi accumulati gara dopo gara che hanno costruito un vantaggio psicologico e tecnico difficile da colmare per chiunque, ma non per Verstappen, che nelle ultime gare ha tentato il tutto per tutto per costruirsi una chance di rimonta. Una rimonta sfumata per appena due punti, visto che il pilota della McLaren ha chiuso il Mondiale a quota 423 punti, davanti ai 421 del rivale della RedBull e che se avessero chiuso a pari punti il titolo sarebbe andato a Verstappen in virtù del numero di gran premi vinti in stagione: otto contro i sette di Norris. Inevitabile per l'olandese non pensare alla gara della scorsa settimana in Qatar, dove Norris ha recuperato proprio due punti sfruttando un errore di Kimi Antonelli all'inizio dell'ultimo giro.
La gara di Abu Dhabi ha rappresentato la sintesi perfetta della stagione di Norris: partenza accorta, gestione dei pit stop e mantenimento della concentrazione fino alla bandiera a scacchi. L’olandese, pur vincendo la corsa, non è riuscito a recuperare il distacco, confermando che i quattro anni di dominio sono stati interrotti da un talento giovane e capace di gestire la pressione del momento clou.
Alle spalle dei due contendenti, la stagione è stata amara per Ferrari e altri protagonisti attesi al vertice. Charles Leclerc e Lewis Hamilton non hanno mai realmente impensierito i leader della classifica, incapaci di inserirsi nella lotta per il titolo o di ottenere risultati significativi in gran parte del campionato. Una conferma, se ce ne fosse bisogno, delle difficoltà del Cavallino Rosso nel trovare una combinazione di macchina e strategia competitiva.
Il Mondiale 2025 si chiude quindi con un volto nuovo sul gradino più alto del podio e con alcune conferme sullo stato della Formula 1: Norris dimostra che la gestione mentale, l’attenzione ai dettagli e la capacità di evitare errori critici contano quanto la velocità pura. Verstappen, pur da vincitore di tante gare, dovrà riflettere sulle occasioni perdute, mentre la Ferrari è chiamata a ripensare, ancora una volta, strategie e sviluppo per la stagione successiva.
Continua a leggereRiduci