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2022-11-05
Il Napoli va a vincere a Bergamo. Prove tecniche di fuga scudetto
Ansa
Non si ha memoria di quando Luciano Spalletti, travestito da dea Teti, abbia acchiappato per il tallone la creatura affidatagli da Aurelio De Laurentiis e da quella volpe di Cristiano Giuntoli, per immergerla nelle acque dello Stige e conferirle il dono dell’invulnerabilità. Fatto sta che i partenopei di oggi appaiono davvero come eroi mitologici inattaccabili, con l’aggiunta di un mistero: nessuno ancora sa dove sia il loro tallone, dunque il punto debole. Persino ieri, con il prodigioso georgiano Kvaratskhelia assente per lombalgia, hanno macinato gioco in casa dell’Atalanta, rispondendo colpo su colpo alle malizie tattiche di Gianpiero Gasperini. È finita 1-2, il Napoli ha espugnato lo stadio orobico, accelerando sul quadrimotore con cui sta seminando le inseguitrici. Sia chiaro, a Bergamo è andata in scena la partita dal tenore più europeo della Serie A: Dea e napoletani schierano giocatori che corrono come forsennati, sanno pressare, non conoscono la parola catenaccio e propongono idee capaci di gareggiare con le più formidabili corazzate continentali. Insomma, un match da Champions. I campani, nel tridente con Osimhen e Lozano, schierano Elmas, confermano il centrocampo di sempre e la difesa con il sudcoreano Kim. Gasperini dal canto suo punto su Lookman e Hojlund in avanti, assistiti da Ederson, con Malinovskyi e Zapata in panchina, Pasalic sulla mediana in luogo di De Roon, Scalvini nel terzetto di retroguardia a protezione di Musso. Proprio le panchine fanno balzare all’occhio un particolare gustoso: soprattutto in attacco, tra il Cholito Simeone e Raspadori, gli azzurri vantano un novero di possibilità insidioso, da far leccare le dita al loro allenatore. L’inizio delle ostilità è all’arma bianca. Gli orobici, nei primi 15 minuti, mancano il gol per due volte. Lookman serve Hojlund che calcia di prima intenzione impegnando il portiere Meret. Ancora Hojlund non riesce a spingere in porta il pallone da pochi passi, poi sulla respinta di Di Lorenzo si precipita Demiral con convinzione. Kim si frappone e devia in angolo. Ma è al minuto 17 che avviene un episodio decisivo. Osimhen tocca la palla col braccio nella propria area, l’arbitro consulta il Var e assegna il rigore alla Dea. Incaricato di battere è Lookman, l’esecuzione pare da manuale. Pallone da una parte - staffilata sotto il sette - portiere spiazzato dall’altra. Atalanta in vantaggio e quasi per la prima volta dall’inizio della stagione, Napoli sorpreso, costretto a rincorrere, a mostrare quel nerbo che emerge lampante soprattutto nelle annate assistite dalla buona sorte. Come quest’annata. Al 23’, Zielinski lascia partire un traversone come da schema collaudato post-calcio d’angolo, Osimhen consacra il suo ruolo di ariete, incorna di testa e per Musso non c’è nulla da fare: 1-1. Palla al centro. Fino al minuto 35. I calciatori di Spalletti sembrano tarantolati, non smettono di dar gas e sanno come colpire. Osimhen supera il turco Demiral, propone il pallone al centro, Elmas - sostituto di Kvara - stoppa, batte di sinistro, Hateboer devia involontariamente e plasma la rete del raddoppio: 1-2. Tutto da rifare per i bergamaschi, mentre il tecnico dei campani si sfrega le mani: sa quanto sia ghiotto il bottino della serata. Prima dell’intervallo, c’è ancora tempo per qualche scambio di colpi. Zielinski azzarda la conclusione, in verità troppo debole. In un capovolgimento di fronte, Hateboer sfrutta un traversone di Scalvini, Olivera devia fuori a pochi passi dalla porta. Il primo tempo è un florilegio di giocate a ritmo sopraffino che certificano, se ce ne fosse stato ancora bisogno, il livello delle formazioni in campo. Insieme con il Milan, sono le compagini più attrezzate a intrattenere il pubblico negli stadi, offrendo uno spettacolo pirotecnico. Nella ripresa, Gasperini prova a incardinare il match verso binari vincenti. Maehle crossa, Hateboer prova la deviazione sul secondo palo, la palla esce. Qualche minuto dopo, Meret si supera su una conclusione di Lookman, con tanto di deviazione sulla traversa, mentre al minuto 57 il coreano Kim viene ammonito per fallaccio su Pasalic. Un minuto dopo, il cartellino giallo tocca a Hojlund. Proprio lo scandinavo cerca di raddrizzare la serata: deviazione sotto alla porta e sfera a lato di un soffio. Inizia la girandola di avvincendamenti: Spalletti inserisce Politano per Zielinski, Ndombèlé per Lozano. Gasperini risponde mandando in campo Zapata per Hojlund e Malinovskiy in luogo di Pasalic. In poche parole: il primo sa di dover amministrare, rallentando un poco la pressione, il secondo si gioca il tutto per tutto, attaccando alla baionetta. C’è spazio anche per Giovanni Simeone, dentro per far rifiatare Osimhen, e proprio il Cholito si mangia un’occasione servita su un piatto d’argento: Elmas tocca per Olivera, quest’ultimo gli gira il pallone, l’argentino figlio d’arte a poca distanza dal dischetto del rigore lascia partire una stoccata ma non centra la porta. Simeone, erroraccio a parte, dimostra grandi doti di inserimento e capacità dinamiche da punta completa, rivelandosi un’eccellente alternativa a Osimhen e un’ennesima dimostrazione di quanto il mercato allestito da Giuntoli sia stato assennato. Negli ultimi dieci minuti si fa vedere Duvan Zapata, provando a far valere la sua mole muscolare e beccandosi pure un cartellino giallo, ma le sue fatiche non sono premiate. L’assedio atalantino, culminato durante il recupero con un assolo sfortunato di Maehle, non sortisce i frutti sperati e la vittoria degli ospiti dà suffragio a numeri spaventosi: il Napoli è primo in classifica con 35 punti, otto in più della Dea, vanta 11 vittorie, due pareggi e zero sconfitte, ha segnato ben 32 gol, subendone soltanto 10. Considerata la scaramanzia che serpeggia sotto il Vesuvio, nessuno vorrà parlare di scudetto se non dietro debita toccata a un cornetto portafortuna, e in effetti è ancora presto per farlo. Ma al momento la banda Spalletti sta dando parecchi grattacapi alle rivali, soprattutto alle contendenti Milan e Inter.
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Un rigore porta in vantaggio l’Atalanta, poi però si scatena Victor Osimhen: colpo di testa per il pari e assist a Eljif Elmas per il 2-1 finale. Campani solidissimi anche senza Khvicha Kvaratskhelia, sono i favoriti per il tricolore. Non si ha memoria di quando Luciano Spalletti, travestito da dea Teti, abbia acchiappato per il tallone la creatura affidatagli da Aurelio De Laurentiis e da quella volpe di Cristiano Giuntoli, per immergerla nelle acque dello Stige e conferirle il dono dell’invulnerabilità. Fatto sta che i partenopei di oggi appaiono davvero come eroi mitologici inattaccabili, con l’aggiunta di un mistero: nessuno ancora sa dove sia il loro tallone, dunque il punto debole. Persino ieri, con il prodigioso georgiano Kvaratskhelia assente per lombalgia, hanno macinato gioco in casa dell’Atalanta, rispondendo colpo su colpo alle malizie tattiche di Gianpiero Gasperini. È finita 1-2, il Napoli ha espugnato lo stadio orobico, accelerando sul quadrimotore con cui sta seminando le inseguitrici. Sia chiaro, a Bergamo è andata in scena la partita dal tenore più europeo della Serie A: Dea e napoletani schierano giocatori che corrono come forsennati, sanno pressare, non conoscono la parola catenaccio e propongono idee capaci di gareggiare con le più formidabili corazzate continentali. Insomma, un match da Champions. I campani, nel tridente con Osimhen e Lozano, schierano Elmas, confermano il centrocampo di sempre e la difesa con il sudcoreano Kim. Gasperini dal canto suo punto su Lookman e Hojlund in avanti, assistiti da Ederson, con Malinovskyi e Zapata in panchina, Pasalic sulla mediana in luogo di De Roon, Scalvini nel terzetto di retroguardia a protezione di Musso. Proprio le panchine fanno balzare all’occhio un particolare gustoso: soprattutto in attacco, tra il Cholito Simeone e Raspadori, gli azzurri vantano un novero di possibilità insidioso, da far leccare le dita al loro allenatore. L’inizio delle ostilità è all’arma bianca. Gli orobici, nei primi 15 minuti, mancano il gol per due volte. Lookman serve Hojlund che calcia di prima intenzione impegnando il portiere Meret. Ancora Hojlund non riesce a spingere in porta il pallone da pochi passi, poi sulla respinta di Di Lorenzo si precipita Demiral con convinzione. Kim si frappone e devia in angolo. Ma è al minuto 17 che avviene un episodio decisivo. Osimhen tocca la palla col braccio nella propria area, l’arbitro consulta il Var e assegna il rigore alla Dea. Incaricato di battere è Lookman, l’esecuzione pare da manuale. Pallone da una parte - staffilata sotto il sette - portiere spiazzato dall’altra. Atalanta in vantaggio e quasi per la prima volta dall’inizio della stagione, Napoli sorpreso, costretto a rincorrere, a mostrare quel nerbo che emerge lampante soprattutto nelle annate assistite dalla buona sorte. Come quest’annata. Al 23’, Zielinski lascia partire un traversone come da schema collaudato post-calcio d’angolo, Osimhen consacra il suo ruolo di ariete, incorna di testa e per Musso non c’è nulla da fare: 1-1. Palla al centro. Fino al minuto 35. I calciatori di Spalletti sembrano tarantolati, non smettono di dar gas e sanno come colpire. Osimhen supera il turco Demiral, propone il pallone al centro, Elmas - sostituto di Kvara - stoppa, batte di sinistro, Hateboer devia involontariamente e plasma la rete del raddoppio: 1-2. Tutto da rifare per i bergamaschi, mentre il tecnico dei campani si sfrega le mani: sa quanto sia ghiotto il bottino della serata. Prima dell’intervallo, c’è ancora tempo per qualche scambio di colpi. Zielinski azzarda la conclusione, in verità troppo debole. In un capovolgimento di fronte, Hateboer sfrutta un traversone di Scalvini, Olivera devia fuori a pochi passi dalla porta. Il primo tempo è un florilegio di giocate a ritmo sopraffino che certificano, se ce ne fosse stato ancora bisogno, il livello delle formazioni in campo. Insieme con il Milan, sono le compagini più attrezzate a intrattenere il pubblico negli stadi, offrendo uno spettacolo pirotecnico. Nella ripresa, Gasperini prova a incardinare il match verso binari vincenti. Maehle crossa, Hateboer prova la deviazione sul secondo palo, la palla esce. Qualche minuto dopo, Meret si supera su una conclusione di Lookman, con tanto di deviazione sulla traversa, mentre al minuto 57 il coreano Kim viene ammonito per fallaccio su Pasalic. Un minuto dopo, il cartellino giallo tocca a Hojlund. Proprio lo scandinavo cerca di raddrizzare la serata: deviazione sotto alla porta e sfera a lato di un soffio. Inizia la girandola di avvincendamenti: Spalletti inserisce Politano per Zielinski, Ndombèlé per Lozano. Gasperini risponde mandando in campo Zapata per Hojlund e Malinovskiy in luogo di Pasalic. In poche parole: il primo sa di dover amministrare, rallentando un poco la pressione, il secondo si gioca il tutto per tutto, attaccando alla baionetta. C’è spazio anche per Giovanni Simeone, dentro per far rifiatare Osimhen, e proprio il Cholito si mangia un’occasione servita su un piatto d’argento: Elmas tocca per Olivera, quest’ultimo gli gira il pallone, l’argentino figlio d’arte a poca distanza dal dischetto del rigore lascia partire una stoccata ma non centra la porta. Simeone, erroraccio a parte, dimostra grandi doti di inserimento e capacità dinamiche da punta completa, rivelandosi un’eccellente alternativa a Osimhen e un’ennesima dimostrazione di quanto il mercato allestito da Giuntoli sia stato assennato. Negli ultimi dieci minuti si fa vedere Duvan Zapata, provando a far valere la sua mole muscolare e beccandosi pure un cartellino giallo, ma le sue fatiche non sono premiate. L’assedio atalantino, culminato durante il recupero con un assolo sfortunato di Maehle, non sortisce i frutti sperati e la vittoria degli ospiti dà suffragio a numeri spaventosi: il Napoli è primo in classifica con 35 punti, otto in più della Dea, vanta 11 vittorie, due pareggi e zero sconfitte, ha segnato ben 32 gol, subendone soltanto 10. Considerata la scaramanzia che serpeggia sotto il Vesuvio, nessuno vorrà parlare di scudetto se non dietro debita toccata a un cornetto portafortuna, e in effetti è ancora presto per farlo. Ma al momento la banda Spalletti sta dando parecchi grattacapi alle rivali, soprattutto alle contendenti Milan e Inter.
Volodymyr Zelensky (Ansa)
La soluzione del prestito dunque salva capra e cavoli, ovvero gli interessi di chi ritiene giusto dover alimentare con aiuti e armi la resistenza di Kiev e anche quelli di quanti temevano la reazione russa all’uso dei fondi. Una mediazione soddisfacente per tutti, dunque? Non esattamente, visto che la soluzione escogitata non è affatto gratis. Già: mentre i vertici della Ue si fanno i complimenti per aver raggiunto un’intesa, a non congratularsi dovrebbero essere i cittadini europei, perché l’accordo raggiunto non è gratis, ma graverà ancora una volta sulle tasche dei contribuenti. Lasciate perdere per un momento come e quando l’Ucraina sarà in grado di restituire il prestito che le verrà concesso. Se Kiev fosse un comune cittadino nessuna banca la finanzierebbe, perché agli occhi di qualsiasi istituto di credito non offrirebbe alcuna garanzia di restituzione del mutuo concesso. Per molti anni gli ucraini non saranno in grado di restituire ciò che ricevono. Dunque, i soldi che la Ue si prepara a erogare rischiano di essere a fondo perduto, cioè di non ritornare mai nelle tasche dei legittimi proprietari, cioè noi, perché il prestito non è garantito da Volodymyr Zelensky, in quanto il presidente ucraino non ha nulla da offrire in garanzia, ma dall’Europa, vale a dire da chi nel Vecchio continente paga le tasse.
Lasciate perdere che, con la corruzione che regna nel Paese, parte dei soldi che diamo a Kiev rischia di sparire nelle tasche di una serie di politici e burocrati avidi prima ancora di arrivare a destinazione. E cancelliamo pure dalla memoria le immagini dei cessi d’oro fatti installare dai collaboratori mano lesta del presidente ucraino: rubinetti, bidet, vasca e tutto il resto lo abbiamo pagato noi, con i nostri soldi. Il grande reset della realtà, per come si è fin qui palesata, tuttavia non può cancellare quello che ci aspetta.
Il prestito della Ue, come ogni finanziamento, non è gratis: quando voi fate il mutuo per la casa, oltre a rimborsare mese dopo mese parte del capitale, pagate gli interessi. Ma in questo caso il tasso non sarà a carico di chi riceve i soldi, come sempre capita, ma - udite, udite - di chi li garantisce, ovvero noi. Politico, sito indipendente, ha calcolato che ogni anno la Ue sarà costretta a sborsare circa 3 miliardi di interessi, non proprio noccioline. Chi pagherà? È ovvio: non sarà lo Spirito Santo, ma ancora noi. Dividendo la cifra per il numero di abitanti all’interno della Ue si capisce che ogni cittadino dovrà mettere mano al portafogli per 220 euro, neonati e minorenni inclusi. Se poi l’aliquota la si vuol applicare sopra una certa soglia di età, si arriva a 300.
Ecco, la pace sia con voi la pagheremo cara e probabilmente pagheremo cari anche i 90 miliardi concessi all’Ucraina, perché quasi certamente Kiev non li restituirà mai e toccherà a noi, intesi come Ue, farcene carico. Piccola noticina: com’è che, quando servivano soldi per rilanciare l’economia e i salari, Bruxelles era contraria e adesso, se c’è da far debito per sostenere l’Ucraina, invece è favorevole? Il mistero delle scelte Ue continua. Ma soprattutto, si capisce che alla base di ogni decisione, a differenza di ciò che ci hanno raccontato per anni, non ci sono motivazioni economiche, ma solo politiche.
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Kirill Budanov (Ansa)
Sicuramente nei potenziali colloqui è prevista la partecipazione americana, ma potrebbero aggiungersi anche gli europei, visto che si trovano sul suolo americano. Il presidente ucraino, nell’annunciare questa opportunità, ha dichiarato che Washington «ha proposto il seguente formato: Ucraina, America, Russia e, dato che ci sono rappresentanti dell’Europa, probabilmente anche l’Europa». E in tal caso a prendere parte sarebbero i consiglieri per la sicurezza nazionale. Pare però che la decisione finale spetti a Zelensky: sarà l’Ucraina a stabilire la configurazione della riunione in base all’esito dell’incontro di venerdì tra i negoziatori americani, la delegazione ucraina e quella europea. E per questo il presidente ucraino, che si mostra già scettico, ha comunicato che ne parlerà con Rustem Umerov. D’altronde, Zelensky ha spiegato che deve ancora essere aggiornato sui risultati raggiunti a Miami: «Il nostro team si metterà in contatto con me: mi comunicheranno l’esito del primo blocco di dialogo e poi capiremo cosa fare». Poco dopo ha riferito che la proposta americana potrebbe essere accettata qualora faciliti lo scambio di prigionieri e sia il preludio di un incontro «tra i leader». Ha poi avvertito che Washington deve chiarire «se c’è una via diplomatica», altrimenti, in caso contrario «ci sarà una pressione totale» su Mosca.
Ma prima dell’eventuale trilaterale o quadrilaterale, ieri l’inviato americano, Steve Witkoff, il genero di Donald Trump, Jared Kushner, e il segretario di Stato americano, Marco Rubio, la cui presenza però, quando siamo andati in stampa, non era ancora confermata, si sono incontrati a Miami con la delegazione russa guidata da Kirill Dmitriev. L’inviato del presidente russo, Vladimir Putin, prima dei colloqui, ha condiviso su X un video girato durante la precedente missione in Florida, scrivendo: «In viaggio per Miami. Mentre i guerrafondai continuano a fare gli straordinari per indebolire il piano di pace degli Stati Uniti per l’Ucraina, mi sono ricordato di questo video della mia precedente visita. La luce che irrompe attraverso le nuvole temporalesche». Più tardi, mentre era in viaggio verso la Florida, ha aggiunto che la Russia è «pronta a collaborare con gli Stati Uniti nell’Artico».
Ma oltre agli interessi già noti in quell’area, Mosca avrebbe altri obiettivi. In una versione che stride con la visione della Casa Bianca, sei fonti vicine all’intelligence americana hanno infatti rivelato a Reuters che la Russia mira a conquistare tutta l’Ucraina e i Paesi dell’ex Unione sovietica. Il membro democratico della Commissione intelligence della Camera, Mike Quigley, interpellato dall’agenzia britannica, ha dichiarato: «Le informazioni di intelligence hanno sempre indicato che Putin vuole di più. Gli europei ne sono convinti. I polacchi ne sono assolutamente convinti. I baltici pensano di essere i primi». Che tra i target russi ci siano gli Stati baltici ne è certo anche il capo del servizio segreto militare ucraino, Kirill Budanov. In un’intervista rilasciata a LB.ua. ha annunciato che «il piano originale» di Mosca prevedeva «di iniziare le operazioni» di conquista «nel 2030», ma «ora i piani sono stati modificati e rivisti per anticipare la tempistica al 2027».
Guardando invece al presente, l’apertura dello zar russo a un cessate il fuoco in Ucraina qualora si tenessero le elezioni non è stata apprezzata dal leader di Kiev. Zelensky ha detto che «non spetta a Putin decidere quando e in quale forma si terranno le elezioni in Ucraina». Tuttavia, ha già comunicato che il ministero degli Esteri è al lavoro per organizzare il voto all’estero. Immediata è stata la risposta del Cremlino, con il suo portavoce Dmitry Peskov che ha bollato Zelensky come «confuso» e «contradditorio» dato che ha già chiesto il sostegno americano proprio per garantire che le eventuali elezioni si svolgano in sicurezza.
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Ansa
Il terreno era stato preparato a colpi di retorica. Gli slogan degli attivisti: «Il governo Meloni cerca di piegare questa città, medaglia d’oro per la resistenza». Torino «è partigiana e si è sempre schierata». E ancora: «In piazza ci sono giovani, famiglie e persone che si riconoscono in un progetto collettivo». Parole. Poi arrivano i fatti. Quando il corteo imbocca corso Regina Margherita, qualcosa cambia. All’angolo con via Vanchiglia il corteo, con un passaggio secco, muta pelle. Spuntano i caschi, le sciarpe salgono sul volto. Il manuale della piazza antagonista, quello che dimostra che gli scontri non sono un incidente di percorso ma il percorso, viene applicato alla lettera. Nel corteo c’è anche la pasionaria No Tav Nicoletta Dosio. Rivendica una storia che parte dal 1999 e assicura che quella «resistenza» continuerà. Richiama la presenza dei «nuovi vecchi partigiani», citando Prosperina «Lisetta» Vallet, la cui gigantografia in bianco e nero posta sul furgone di apertura del corteo era stata rimossa dallo stabile di Askatasuna, «perché anche le immagini fanno paura ai fascismi». Gli organizzatori rivendicano al microfono 10.000 presenze (circa 3.000 sono quelle stimate dalla questura). Dagli altoparlanti parte un messaggio di solidarietà del fumettista Zerocalcare: «Non immagino Torino senza Askatasuna e spero che questo non accadrà mai». Ma ci sono anche volti istituzionali. Il segretario della Cgil Piemonte, Giorgio Airaudo, tra i garanti del patto saltato con il Comune sull’edificio di corso Regina Margherita 47, quello occupato da Askatasuna, dice di pensare «che il Comune deve riprendere quella strada, che è una strada di dialogo». Parla di «mediazione sociale». Pochi minuti dopo è il caos. Seguito dalle lacrime di coccodrillo. «Desideriamo condannare con fermezza gli episodi di violenza che si sono verificati durante il corteo di oggi, esprimendo solidarietà e vicinanza alle forze dell’ordine coinvolte nei disordini, chiamate ad operare in un contesto molto complesso e delicato, ai commercianti e a tutte le cittadine e i cittadini che hanno vissuto disagi, peraltro a pochi giorni dal Natale», dice il sindaco di Torino Stefano Lo Russo (nella cui giunta c’è un assessore di Alleanza dei Verdi e Sinistra, Jacopo Rosatelli, che ha preso parte al corteo). Ormai viene bollato come un «infame» dai manifestanti ai quali nei mesi scorsi aveva strizzato l’occhio. Dopo gli scontri, quando è tornata la calma, un gruppetto di attivisti ha proiettato sui palazzo di piazza Vittorio Veneto le scritte «Sbirri di m.... Aska libero». Poi: «Meloni dimissioni». E infine: «Sindaco Lo Russo servo infame». A riportare la questione sul binario è il segretario del sindacato di polizia Coisp Domenico Pianese: «A Torino siamo di fronte alla pretesa di imporre l’illegalità come metodo politico e di dichiarare guerra allo Stato». Mentre la sinistra, quella che aveva tollerato il patto con gli attivisti del centro sociale, e i sindacati restano in silenzio. Dai vertici del centrodestra, invece, la condanna è dura. Matteo Salvini: «Da una parte donne e uomini in divisa, che difendono la legalità, dall’altra i soliti violenti, figli di papà frustrati e falliti, che hanno mandato sette (poi diventati nove, ndr) agenti all’ospedale. Lo sgombero di Askatasuna è solo l’inizio, ruspe sui centri sociali covi di delinquenti». Galeazzo Bignami, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, punta il dito: «La sinistra dovrebbe vergognarsi. Ha dimostrato ancora una volta di non avere senso delle istituzioni, sfilando al corteo con chi oltraggia ogni giorno lo Stato e i suoi rappresentanti». Per Antonio Tajani «è la dimostrazione» che il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi (che in serata ha telefonato al capo della polizia Vittorio Pisani per informarsi sulle condizioni degli agenti feriti a Torino) «ha fatto bene». Poi ha aggiunto: «Se il centro sociale diventa il luogo dove si organizzano gli attacchi alle forze dell’ordine è giusto che il governo abbia preso una decisione ferma, non c’è libertà senza legalità». Perfino il leader di Azione Carlo Calenda usa toni pesanti: «Askatasuna è un gruppo violento e intollerante che è stato per troppo tempo tollerato. Vanno sciolti e perseguiti se compiono reati».
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Theodoris Kyriakou (Getty Images)
Sì, perché mentre Antenna Group, colosso greco dei media, guarda a Roma e Milano come a una scommessa di lungo periodo, qui da noi una parte dell’universo progressista sembra impegnata in una missione opposta: spiegare ai greci che stanno sbagliando, che non hanno capito niente, che questo Paese non è all’altezza. Altro che accoglienza degli investitori stranieri: qui si alza il ponte levatoio. Eppure i greci - che di crisi se ne intendon - dicono cose semplici. Dicono che l’Italia è uno dei pochi Stati europei che oggi offre stabilità politica. Un sistema che regge, che governa, che decide. In un’Europa attraversata da elezioni anticipate, governi balneari e maggioranze liquide, Roma appare improvvisamente come un porto sicuro. Ironia della storia: ci scopriamo stabili quando smettiamo di raccontarci instabili.
Antenna non parla di una scorribanda finanziaria, ma di una scelta industriale di lungo periodo. Parola grossa, quasi sospetta, in un Paese abituato ai fondi mordi-e-fuggi. Qui, invece, il messaggio è chiaro: investire in Italia perché il mercato è aperto, favorevole, accogliente per chi vuole costruire. E perché l’informazione italiana resta una delle poche in Europa con una tradizione riconosciuta di giornalismo indipendente. Detto dai greci, non da qualche patriota fuori tempo massimo.
Non solo. Antenna parla di affinità storica e culturale, di un legame che va oltre la pura logica commerciale. Insomma, non arrivano per colonizzare, ma come l’editore che vuole far crescere ciò che trova. Garantiscono - nero su bianco, nelle dichiarazioni - indipendenza, rispetto delle sensibilità culturali, continuità della collocazione del giornale. Repubblica resterà Repubblica. Non diventerà né un bollettino governativo né una dependance di Atene.
E allora dov’è il problema? Il problema è tutto politico e simbolico. Per una parte della sinistra italiana l’idea che un gruppo straniero dica che l’Italia funziona è quasi un affronto. Come se il racconto del Paese malato fosse diventato una rendita di posizione. Se qualcuno arriva e dice che l’Italia cresce, attrae capitali, ha giornalisti competenti e un mercato dinamico, scatta l’allarme: così ci rovinano la narrazione.
C’è poi il riflesso pavloviano sull’«editore straniero», come se l’italianità dell’informazione fosse stata finora custodita da mani immacolate. Dimenticando che Repubblica è già passata da De Benedetti a Elkann senza che il mondo finisse, e che la vera indipendenza non dipende dal passaporto dell’azionista ma dalle regole, dai contratti, dalla solidità industriale.
I greci, intanto, guardano avanti. Parlano di media capaci di espandersi a livello globale, di un pubblico che non si riconosce più in un’offerta sempre più polarizzata e urlata, di uno spazio crescente per notizie credibili, affidabili, di qualità. È una diagnosi che coincide, curiosamente, con quella fatta da anni dagli stessi editorialisti che oggi storcono il naso.
E qui sta il paradosso finale, degno di una commedia attica: la sinistra che difende l’indipendenza dell’informazione cercando di sabotare un investimento che la garantisce, e i greci che difendono il giornalismo italiano spiegando che è uno dei suoi punti di forza. Capovolgimento perfetto.
Antenna Group parla addirittura di un campione europeo dei media, di un progetto continentale che parta dall’Italia. In un momento in cui l’Europa discute di sovranità informativa e di pluralismo, c’è chi prova a costruire e chi preferisce gridare al complotto.
Forse, alla fine, la notizia non è che i greci comprano Repubblica. La vera notizia è che c’è ancora qualcuno che guarda all’Italia senza complessi, senza autodenigrazione, senza la tentazione masochista di raccontarsi sempre peggio di come è. E questo, per una parte del dibattito pubblico, è imperdonabile.
I greci investono perché l’Italia è in salute.
Il problema è che non tutti vogliono ammetterlo.
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